martedì, Dicembre 24, 2024
Conflitti

L’Afghanistan a due mesi dalla caduta di Kabul: intervista a Giuliano Battiston

Sono passati due mesi esatti dal ritorno dei Talebani a Kabul e dall’evacuazione precipitosa delle forze occidentali. La guerra e l’occupazione militare sono finite, ma il paese vive una fase estremamente difficile, in cui si sommano gravi e molteplici crisi: alle tensioni politiche interne e internazionali, che accompagnano la rinascita dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan, si sommano gli effetti di una crisi economico-sociale e finanziaria che si sta già tramutando in crisi umanitaria. Federico Oliveri ha intervistato Giuliano Battiston, giornalista e ricercatore freelance, profondo conoscitore dell’Afghanistan, per comprendere quello che sta succedendo e come è possibile rispondere alle crisi che colpiscono il paese.

 

Nei primi giorni di settembre sono state organizzate varie mobilitazioni a sostegno del nuovo Emirato Islamico dell’Afghanistan, ad esempio a Herat e a Kandahar, storica roccaforte del movimento talebano. Negli stessi giorni, il nuovo governo di Kabul ha annunciato di aver sconfitto il cosiddetto Fronte di Resistenza Nazionale dell’Afghanistan nella valle del Panjshir. Nelle uscite pubbliche i Talebani ostentano sicurezza, ma quanto è effettivo il loro controllo militare e politico del paese? Da chi è composta e quanto è ancora viva la resistenza anti-talebana? Con quali altre forze devono fare i conti i Talebani all’interno della frastagliata geografia etnico-politica e religiosa dell’Afghanistan?

Per ora il controllo del territorio da parte dei Talebani è abbastanza capillare. La loro presa sul paese sembra stabile e sicura, ma potrebbe durare poco. Una decina di giorni fa ci sono stati degli scontri, nella provincia di Parwan a Nord di Kabul, tra Talebani e gruppi a loro ostili di cui è difficile capire al momento la composizione. Lo scorso 8 ottobre, poi, un attentatore suicida si è fatto esplodere in una moschea sciita a Kunduz, nel nord del paese, durante la preghiera del venerdì, provocando più di 40 morti e un centinaio di feriti: l’attentato è stato poi rivendicato dalla “Provincia del Khorasan”, la branca locale dello Stato Islamico.

Per quanto riguarda il movimento anti-talebano nella valle del Panjshir, si tratta di una resistenza “storica”, che raccoglie parte di coloro che già negli anni ’90 e nei primi anni 2000 avevano combattuto contro i Talebani nella cosiddetta “Alleanza del Nord”. Nelle settimane precedenti la caduta di Kabul questi e altri gruppi hanno dato vita a nuova alleanza militare sotto la guida di Ahmad Massoud, figlio il Massoud, il comandante dell’Alleanza assassinato nel 2001, e del vicepresidente del vecchio governo afghano, Amrullah Saleh. Quest’ultimo, rappresentante della componente tagica del paese, ha dichiarato di ritenersi il presidente in carica dell’Afghanistan, annunciando un governo in esilio e dunque contestando anche sul piano costituzionale la legittimità del governo ad interim dei Talebani.

Dal punto di vista militare penso che, in questa fase, i Talebani abbiano poche preoccupazioni per la tenuta territoriale, ma queste preoccupazioni potrebbero crescere nel corso del tempo soprattutto se la campagna di mobilitazione portata avanti dai tagici riscuoterà qualche successo. C’è una campagna in corso, di natura diplomatica, presso le cancellerie che hanno tradizionalmente aiutato anche durante gli anni ’90 la cosiddetta “Alleanza del Nord”: penso, in particolare, all’India, al Tagikistan e in parte all’Iran. Ci sono già stati degli incontri da parte di alcuni esponenti del gruppo dei Tagiki che si oppongono ai Talebani, anche con alcuni rappresentanti del Congresso degli Stati Uniti.

Per ora, tuttavia, non mi sembra ci sia molta disponibilità da parte delle autorità regionali a riaprire uno scontro con il governo talebano sul fronte militare, ma non è detto che le cose non cambino. Ci sono state anche delle scaramucce sul confine tra il Tagikistan e l’Afghanistan una decina di giorni fa e ci sono state dichiarazioni piuttosto aggressive da parte di esponenti del governo dei talebani e di quello tagiko. Poi, però, la situazione si è calmata. Ritengo che i principali elementi di debolezza del nuovo regime talebano risiedano, più che nella resistenza interna, nella tenuta politica, sociale ed economica del paese.

 

L’Isis Khorasan o Isis-K, la fazione afgana del cosiddetto “Stato islamico”, ha rivendicato il sanguinoso attentato terroristico all’aeroporto di Kabul dello scorso 26 agosto, che ha fatto 170 morti e almeno 200 feriti, come anche l’attacco suicida alla moschea sciita di Kunduz, cui abbiamo già fatto riferimento. Qual è l’origine dell’Isis-K e quali sono i suoi obiettivi in questa fase? Quali sono stati e quali sono i suoi rapporti con i Talebani? Al Qaeda esiste ancora in Afghanistan e se sì, quali rapporti ha con i Talebani? In generale, quanto è credibile l’impegno internazionale assunto dal governo talebano, di contrastare l’insediamento del terrorismo sul suolo afghano?

La nascita del gruppo è stata annunciata ufficialmente nel gennaio 2015, come provincia del Khorasan dello “Stato islamico”. Si tratta di un gruppo eterogeneo, formato prevalentemente da ex combattenti dei cosiddetti “Talebani pakistani” che, a dispetto del nome, hanno varie differenze rispetto ai Talebani afghani, e da altri combattenti provenienti da altri paesi della regione, prevalentemente dall’India, dall’Uzbekistan e in misura minore dal Caucaso. Il tentativo, da parte della leadership centrale dello Stato islamico, era quello di cercare di piantare la propria bandiera in Afghanistan, considerato come la culla del Jihad contemporaneo. Si è trattata, quindi, di una decisione dal valore più simbolico che strategico.

In questi anni i rapporti tra l’Isis-K e i Talebani sono stati di natura diversa a seconda delle fasi. I Talebani hanno cercato in un primo momento di capire chi avessero di fronte e, in alcuni casi, hanno siglato degli accordi di non belligeranza. In passato si è verificato anche un “travaso” di militanti e competenze tra l’Isis Khorasan e una parte dei Talebani, quelli organizzati nella cosiddetta Rete Haqqani, l’ala più oltranzista e stragista del movimento: ma questa fase di contiguità si è interrotta abbastanza in fretta e i due gruppi sono tornati ad opporsi l’uno all’altro.

Poi i Talebani si sono accorti che la provincia del Khorasan in mano all’Isis mirava a competere con loro per le risorse economico-finanziarie e militanti sul terreno, e anche per la leadership del Jihad, e hanno iniziato ad affrontarli militarmente. La conflittualità è aumentata fino ad arrivare all’inverno 2019 quando i Talebani hanno contribuito allo smantellamento della roccaforte dello Stato islamico in Afghanistan, che si trova nel distretto di Achin nella provincia di Nangarhar. In quell’occasione, i Talebani hanno contribuito in modo sostanziale a sconfiggere ed allontanare i militanti dello Stato islamico, combattuti direttamente dalle forze armate statunitensi e dalle forze governative afghane.

In questo momento, invece, l’Isis Khorasan sta cercando da una parte di delegittimare la scelta dei Talebani di aver conquistato il potere non solo attraverso la violenza e le armi, ma anche attraverso il dialogo diplomatico. L’accordo di Doha è considerato dai militanti dello Stato Islamico un cedimento inaccettabile agli Stati Uniti, tale da contestare ai Talebani la patente di autentici jihadisti. Su questo terreno, l’Isis-K contesta ai Talebani il “nazionalismo”, l’ambizione di guidare un governo confinato all’Afghanistan, mentre l’obiettivo dello Stato Islamico è quello di stabilire un califfato transnazionale. Dall’altra parte, i militanti dell’Isis-K cercano di portare dalla loro parte quanti saranno scontenti di questa nuova fase che, ovviamente, può premiare molti militanti talebani ma non tutti. Ci sono, inoltre, tra i due movimenti anche divergenze religiose: non a caso lo Stato islamico recluta molto nelle aree al confine con il Pakistan perché in quelle provincie è più diffuso il salafismo, mentre i Talebani seguono la corrente sunnita Deobandi.

Gli attacchi terroristici cercano anche di minare la robustezza dell’impianto statuale talebano e mostrare che il nuovo governo non sa e non può garantire la sicurezza interna. Per un gruppo che usa lo strumento del terrorismo, l’evacuazione di massa dall’aeroporto di Kabul è stata un’occasione da non perdere: c’era una fortissima esposizione mediatica, con le telecamere di tutto il mondo concentrate sul ritiro delle truppe straniere e sul tentativo di fuga di migliaia di afghani e afghane. Contro le rivendicazioni dei Talebani di avere il monopolio del potere, del controllo territoriale e della sicurezza, quell’attentato ha voluto dimostrare che la partita non era chiusa e che il nuovo regime ha elementi di debolezza rispetto ad altri gruppi jihadisti, come l’Isis, con ambizioni diverse rispetto a quelle dei talebani. Come ricordavo prima, i Talebani hanno sempre pensato di giocare una partita nazionale, entro i confini dello stato-nazione: volevano e vogliono semplicemente recuperare la sovranità del territorio afghano, ma non hanno l’ambizione di esportare il loro modello statuale né di perseguire un disegno transnazionale, tipico invece dello Stato islamico.

Oltre ai due attentati più sanguinosi, a Kabul il 26 agosto e a Kunduz il 10 ottobre, ci sono stati almeno altri 25 attacchi minori, in particolare nella città di Jalalabad, che è appunto il capoluogo della provincia di Nangarhar a cui facevo riferimento prima. I Talebani, da parte loro, non stanno solo combattendo militarmente dove è possibile gli esponenti dello Stato islamico, ma stanno anche facendo un opera di “pulizia” preventiva: stanno attaccando, reprimendo e in alcuni casi uccidendo anche studiosi e religiosi di orientamento salafita, che ritengono complici, collusi o comunque troppo vicini allo Stato islamico.

Per quanto riguarda i rapporti con Al Qaida, lo scambio principale nell’accordo di Doha tra i Talebani e gli Stati Uniti era questo: il ritiro delle truppe di occupazione in cambio della garanzia che dal territorio afghano non sarebbero più partite minacce verso altri stati, in particolare verso gli Stati Uniti. Nel testo dell’accordo si parla dell’impegno dei Talebani a mandare “un chiaro segnale” agli altri gruppi jihadisti che si trovano sul territorio afghano affinché capiscano che le cose sono cambiate e che il territorio non potrà più essere una sorta di “santuario protetto” per chi ricorre alla strategia del terrore. Non è chiaro, però, che cosa si debba intendere con questo “chiaro segnale”, così che è difficile comprendere se tale segnale sia stato inviato e se, o come, sia stato recepito ad esempio da Al Qaida.

Sappiamo tuttavia che negli ultimi mesi i Talebani hanno effettivamente cercato di mappare la presenza di militanti di reti terroristiche che operano sul territorio afghano, dando loro direttive che ne impediscono il movimento e le attività. Lo hanno fatto anche con gli esponenti di Al Qaida. C’è stata, e probabilmente prosegue, una loro presenza sul territorio anche se i numeri sono incerti: si parla di non più di 200-300 militanti, compresa una parte della vecchia leadership tra cui il numero uno, l’egiziano Ayman al-Zawahiri che dovrebbe rifugiarsi tuttora tra l’Afghanistan e il Pakistan, in quella zona di confine che ha spesso protetto i jihadisti anche per la sua inaccessibilità.

I Talebani, in questa fase, credono di essere sufficientemente forti da contenere qualunque minaccia che possa venire da un attivismo spregiudicato da parte di Al Qaida. Era una cosa che dichiaravano anche a ridosso dell’11 settembre 2001. Circolano a riguardo delle ricostruzioni molto interessanti: il ministro degli esteri talebano dell’epoca rassicurava i diplomatici che lo andavano a trovare, dicendo di non preoccuparsi, che il territorio era interamente sotto il controllo del governo. Eppure poche settimane dopo Al Qaida lanciò gli attentati sul suolo degli Stati Uniti, senza che i Talebani ne fossero a conoscenza. Come sappiamo, invece, l’invasione del paese da parte di Washington e il rovesciamento del primo Emirato islamico afghano furono motivati proprio con il sostegno logistico e la protezione che i Talebani avrebbero concesso ad Al Qaida. Anche per queste vicende, l’attuale governo talebano è molto più consapevole di allora di dover contenere i rischi provenienti da Al Qaida e da altri gruppi con ambizioni simili, ma non è detto che riesca.

Nei rapporti con Al Qaida molto dipenderà anche dai rapporti di forza tra le diverse anime del movimento talebano: da una parte, l’ala radicale vuole evitare una contrapposizione aperta; dall’altra, l’ala pragmatica è più determinata a contenere il pericolo che la presenza di Al Qaida costituisce per la stabilità del governo.

 

I Talebani hanno deluso le richieste internazionali di un governo “inclusivo” delle diverse componenti della società afghana. Non solo: la composizione dell’esecutivo ha mostrato chiaramente che nei Talebani esistono varie correnti e fazioni, come dicevamo, e che quella dialogante e pragmatica rappresentata dal mullah Abdul Baradar è risultata, a prima vista, perdente. Quali sono i personaggi di maggiore spicco del governo ad interim e qual è il loro orientamento? Quali sono i principali motivi di conflitto all’interno del movimento talebano? E, fuori da queste dinamiche interne, si può dire che il governo talebano goda del sostegno popolare?

Il governo è poco “inclusivo” perché è saltata una fase fondamentale del processo di transizione previsto a Doha, ovvero un trasferimento più graduale del potere: secondo diverse testimonianze, infatti, i Talebani avrebbero dovuto aspettare alle porte di Kabul, fino a che non ci sarebbe stato un passaggio graduale di consegne e l’avvio di un confronto col precedente governo per costituire un esecutivo più inclusivo. Il presidente Ashraf Ghani sarebbe dovuto rimanere al potere per almeno altre due settimane e intanto sarebbero proseguiti i colloqui con i rappresentanti di alcuni gruppi politici afghani. Questa fase di passaggio non c’è stata: in parte perché la componente militare dei Talebani ha spinto di più e ha avuto in qualche modo la meglio sull’area politica; in parte anche per la scelta del presidente Ghani di lasciare il paese il 15 agosto, non appena i Talebani sono arrivati alle porte di Kabul.

I Talebani si sono così ritrovati al potere da soli e hanno annunciato il 7 settembre un esecutivo a tempo: un governo teocratico e prevalentemente pashtun, che premia molti esponenti della “vecchia guardia” e serve anche a contenere le spinte centrifughe che potrebbero aprirsi in questa fase di passaggio dei Talebani da gruppo armato a soggetto politico-istituzionale. Il 22 settembre ci sono state nuove nomine nel governo, un piccolo passo nel segno del pragmatismo, nomine avvenute poche ore dopo l’incontro con gli ambasciatori di Pakistan, Russia e Cina. All’interno del governo sono stati così inclusi membri senza affiliazioni con i Talebani ed esponenti con esperienze e competenze tecniche; ma anche rappresentanti del Panjshir, l’area del paese che ha sostenuto la cosiddetta Alleanza del Nord. In questo modo si è cercato di venire incontro alle richieste di “inclusività” dei partner regionali, anche se il governo resta a larga maggioranza talebano.

Ci sono nel governo uomini che hanno contribuito a fondare il movimento talebano all’inizio degli anni ’90. Ci sono vari esponenti religiosi, con credenziali molto alte. La crisi dei rapporti con il vice primo ministro Baradar, che per alcune settimane era scomparso dalla scena al punto da essere creduto morto, sembra rientrata: il mullah è tornato alla ribalta, riconquistando la platea che aveva conquistato nei mesi passati quando era stato il volto principale dei Talebani nei negoziati di Doha. Nei giorni scorsi infatti è apparso in alcuni incontri insieme al capo del governo, Mohammad Hasan Akhund, e insieme al ministro degli esteri ha incontrato a Kabul il corpo diplomatico straniero rimasto nel paese. In quest’ultima occasione ha rivolto ai diplomatici un appello per iniziare un nuovo capitolo nelle relazioni politiche internazionali, basate sul rispetto reciproco e sulla stabilità.

Restano tuttavia nel governo e nel movimento varie potenziali contrapposizioni. Continua ad avere un certo peso l’appartenenza regionale dei singoli leader. Ma soprattutto non è stato superato il conflitto di fondo fra una linea ispirata al pragmatismo politico e aperta alla diplomazia e una linea segnata dall’intransigenza e dal primato della forza militare. Mentre l’ala militarista, rappresentata nel governo dal Ministro dell’Interno Sirajuddin Haqqani, leader dell’omonima rete, pensa che il ritiro delle truppe straniere sia stato il risultato della leva militare, l’ala politica ritiene che il solo uso della forza non avrebbe mai consentito di conquistare il potere, e rivendica la strategia diplomatica degli ultimi anni. In tutti questi anni, anche al tempo del primo emirato, gli analisti e gli osservatori esterni hanno sempre parlato di divisioni interne ai Talebani: questi, però, hanno sempre dimostrato una sorprendente capacità di mantenere la coesione interna e una certa unità di intenti, eliminando coloro che erano diventati oppositori. L’obiettivo della presa del potere è stato raggiunto, ma si apre adesso la fase più difficile: governare un paese vicino al collasso dal punto di vista economico-sociale e umanitario.

Al di là dei proclami, il nuovo governo non sembra godere di ampio consenso nel paese. È difficile affermarlo sulla base di dati certi, ma dall’esperienza accumulata nel tempo devo dire che questo vale anche per il precedente governo, oltre che per quello attuale. In entrambi i casi, è forte la distanza tra chi detiene ed esercita il potere e la popolazione, provata da vent’anni di guerra. Certamente in alcune aree rurali del paese i Talebani possono capitalizzare il fatto che sia tornata una sorta di normalità, perché non si combatte più, i territori non sono più contesi e dunque non si rischia più di morire come prima. Ma penso che non basterà offrire alla popolazione la garanzia dell’incolumità fisica per ottenerne il consenso. Rispetto al primo emirato degli anni ‘90, la società afghana è cambiata: non credo che sia più disponibile ad accettare un “contratto sociale” che offra sicurezza in cambio della rinuncia alle libertà personali. Inoltre il paese si trova in una situazione economico-finanziaria estremamente difficile: se questa dovesse ulteriormente peggiorare, è facile prevedere che lo scontento crescerà e non è escluso che questo porti anche all’apertura di nuovi fronti militari interni.

 

Dopo venti anni di conflitto e di occupazione militare occidentale, con l’interruzione dei finanziamenti stranieri e il congelamento delle riserve della Banca centrale afghana, le condizioni di vita della popolazione sono in effetti drammatiche. L’ultimo rapporto pubblicato dal Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite prevede che, in assenza di adeguati interventi economici, la percentuale di popolazione sotto la soglia di povertà potrebbe raggiungere il 97%. Quali sono le cause profonde di questa situazione? Come si sta attrezzando il governo per farvi fronte? Perché e con quale legittimità gli Stati Uniti hanno congelato le riserve monetarie del paese? La comunità internazionale, invitata ad agire dal Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, potrà giocare un ruolo concreto nell’alleviare la crisi afghana nel breve e medio periodo, anche senza che si arrivi al riconoscimento del governo?

La radice del problema sta nel modo in cui è stata costruita e impostata l’economia afghana in questi ultimi vent’anni. Storicamente, lo stato afghano ha sviluppato una forte dipendenza da risorse esterne, fornite da attori stranieri. Nell’ultimo ventennio questo elemento si è ulteriormente radicalizzato, perché tutta l’economia si è basata oltre che sugli appalti militari e civili connessi all’occupazione sulla “benevolenza” dei paesi donatori e della comunità internazionale, in particolare del gruppo euro-atlantico che più degli altri gestisce le leve degli aiuti umanitari e della “cooperazione allo sviluppo”. L’economia è cresciuta, ma è stata in gran parte un’economia artificiale legata alla presenza straniera e all’indotto generato da tale presenza. A partire dall’inizio del 2015, quando la missione degli stranieri si è trasformata da missione di combattimento in missione di addestramento, questa “bolla” ha cominciato a sgonfiarsi ma è rimasta la dipendenza del paese dall’esterno. Ogni quattro anni la comunità internazionale si riuniva per decidere la quantità di risorse finanziarie da fornire alle istituzioni, le quali ogni quattro anni promettevano di riequilibrare il deficit fiscale e la dipendenza rispetto ai fondi ricevuti. Ma questo non è stato mai fatto, nemmeno sotto il presidente Ghani che pure vantava credenziali di esperto, in qualità di ex funzionario della Banca Mondiale.

I Talebani sono tornati al potere in una situazione in cui l’economia dipendente pesantemente dalle importazioni ma queste, a loro volta, sono strettamente legate al sistema finanziario. Le riserve nazionali di valuta, custodite presso la Federal reserve degli Stati Uniti, sono state congelate; lo stesso è avvenuto per i prestiti previsti da parte della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale. Il sistema bancario è di fatto bloccato, ciò ha portato a una gravissima crisi di liquidità, che non consente di pagare gli impiegati del settore pubblico, a partire da chi lavora nella sanità e nell’istruzione.

Nelle scorse settimane si sono moltiplicati gli appelli da parte degli esponenti delle agenzie e delle organizzazioni umanitarie affinché questi fondi vengano scongelati e possa così essere pagato chi lavora nei due settori pubblici principali del paese, la sanità e l’istruzione. Il settore sanitario, in particolare, è molto vulnerabile: il paese affronta una forte crisi umanitaria e, con l’inverno alle porte, è forte la preoccupazione che l’Afghanistan come Stato venga meno nei prossimi mesi.

Per gli Stati Uniti, dopo la decisione del ritiro presa già sotto la presidenza Trump, quella finanziaria resta l’ultima leva per far pressioni sul nuovo governo, insieme alla leva del riconoscimento internazionale. Se dobbiamo giudicare dalla composizione del governo e dalle sue prime decisioni, a partire da quelle sulla condizione femminile, va detto che queste due leve finora non hanno ottenuto risultati: i Talebani stanno al momento adottando un atteggiamento molto ortodosso. Sperano, sbagliando, che alcuni paesi della regione possano sostituirsi ai paesi occidentali consentendo alla macchina statuale di non collassare. Al momento però mi pare manchi l’idea di un modello alternativo in materia di cooperazione allo sviluppo.

Lo scorso 13 settembre il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, si è dichiarato soddisfatto delle conclusioni della Conferenza ministeriale di alto livello da lui convocata con grande fretta per ottenere 600 milioni di dollari per contenere la crisi umanitaria, particolarmente drammatica. Ne ha ottenuti più di 1 miliardo, però al momento solo il 35% è stato effettivamente messo a disposizione dai paesi che si sono impegnati a contribuire. C’è una forte riluttanza da parte di certe cancellerie, anche perché negli ultimi due anni alcuni governi hanno deciso di trattenere risorse al loro interno, a causa della pandemia, piuttosto che destinarle all’Afghanistan o ad altri paesi in difficoltà.

Da una parte c’è un urgenza, ed è quella di far fronte a una crisi umanitaria che minaccia la sopravvivenza stessa di decine di migliaia di persone in Afghanistan. Il paese ha 3 milioni e mezzo di sfollati interni, e la maggior parte delle famiglie non sa come e cosa mangiare nei prossimi giorni, anche perché i prezzi dei beni di consumo sono aumentati del 30-40%. Dall’altra parte, c’è bisogno di ricostruire un’economia funzionante e stabile, senza che questo rafforzi un governo considerato illegittimo dalla maggior parte dei paesi della comunità internazionale. Tenere collegati questi due piani è una sfida molto difficile, che solleva dilemmi di natura etico-politica, ma anche giuridica, se si pensa che vari esponenti del governo dei Talebani sono tuttora oggetto di sanzioni da parte degli Stati uniti o delle Nazioni unite.

Per l’Afghanistan è l’ora più buia. Per la comunità internazionale la fase appare nell’immediato più semplice: si tratta di rispondere a una crisi umanitaria, mettendo tra parentesi e rimandando i nodi politici. Anche se questi ultimi non possono essere rimandati all’infinito.

 

[Intervista chiusa in redazione il 10 ottobre 2021]

Giuliano Battiston è direttore dell’associazione di giornalisti indipendenti Lettera22. Collabora con numerosi quotidiani e riviste, tra cui “l’Espresso”, “il manifesto”, “Gli asini”, “il Venerdì”, “The New Humanitarian”, Radio3.