sabato, Dicembre 21, 2024
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La nuova “Mappa dell’Intolleranza”: riflessioni sull’odio online

di Cecilia Siccardi 

 

La Mappa dell’Intolleranza: il progetto

Come ogni anno, Vox-Diritti ha pubblicato i risultati del progetto “La Mappa dell’Intolleranza”, ormai alla settima edizione. Come abbiamo già avuto modo di raccontare l’anno passato, la Mappa dell’Intolleranza è un progetto volto a monitorare la diffusione dell’odio sui social network, in collaborazione con quattro Università (Università degli Studi di Milano, l’Università Aldo Moro di Bari, l’Università Sapienza di Roma, Università Cattolica di Milano).

Un software, sviluppato dall’Università di Bari, estrapola da twitter le parole discriminatorie contro donne, persone con disabilità, le persone omosessuali, straniere, di religione islamica, di religione ebraica, consentendo di monitorare la diffusione dell’odio on line. Grazie alla geo-localizzazione dei tweet sono state create delle mappe “termografiche” della penisola che individuano le zone di Italia dove l’odio è più diffuso.

 

I risultati

Il 17 gennaio 2023 sono stati presentati, in presenza, all’Università degli Studi di Milano, i risultati della settimana edizione del progetto.

Dei 629.151 tweet raccolti, da gennaio a ottobre 2022, il 93% circa è risultato discriminatorio. La percentuale di tweet negativi è aumentata rispetto all’anno passato, dimostrando una significativa radicalizzazione dell’odio on line. Questo incremento è probabilmente dovuto ai gravi eventi che hanno segnato il 2022, come l’invasione dell’Ucraina, la crisi energetica, l’inflazione, ma anche al dibattito innescato dalle ultime elezioni politiche.

I risultati di questa edizione confermano alcune evidenze degli anni passati e mostrano alcune novità.

La distribuzione geografica dell’odio sembra analoga a quella delle edizioni precedenti. Si odia in particolare nelle città, come Roma e Milano.

Ancora, come negli anni passati, l’odio online si scatena in concomitanza con alcuni avvenimenti riportati dalle cronache nazionali. Ad esempio, l’odio contro i migranti si incendia al momento degli sbarchi, quello contro le persone omossessuali in concomitanza con notizie di aggressioni omofobe. Tra questi “picchi” di odio online, quello che più caratterizza l’edizione del 2022 è la nomina di Giorgia Meloni alla Presidenza del Consiglio. La nomina della prima donna Presidente del Consiglio della storia della Repubblica non ha comportato una maggior attenzione alla parità di genere sui social network, ma anzi ha costituito un momento di forte diffusione di misoginia sui social. Sarebbe interessante comprendere come abbia impattato sul linguaggio del web la scelta della Presidente di farsi chiamare “il Presidente”.

Un’altra analogia rispetto agli anni passati riguarda la correlazione tra parole d’odio e violenza. Soprattutto osservando i dati relativi ai tweet misogini emerge un’inquietante correlazione tra parole e violenza di genere. Negli stessi mesi in cui si è registrato un incremento della misoginia sul web, sono stati compiuti diversi femminicidi.

 

Le categorie più colpite: donne, persone con disabilità e persone omossessuali

La novità che maggiormente contraddistingue l’edizione del 2022 è la “classifica” delle categorie più colpite: le donne sono seguite da perone con disabilità e persone omossessuali.

In piena continuità con gli anni passati, le prime vittime degli haters sono le donne: il 43% dei tweet estratti è misogino.

Le persone con disabilità, per la prima volta dal 2015, risultano la seconda categoria più colpita. Questo risultato non è dovuto tanto è dovuto a una diffusione dello hate speech contro le persone disabili, quanto piuttosto all’estrapolazione di parole che incarano stereotipi sulla disabilità diffusi nel linguaggio comune e rivolte ad alte categorie di persone (es. I politici mongoloidi, i medici handiccapati e così via).

Per quanto riguarda le persone omosessuali, l’odio omofobo era in netto calo dal 2016, a seguito dell’approvazione della legge sulle unioni civili. A partire dal 2021, si è registrato un aumento in concomitanza con le discussioni intorno al disegno di legge contro l’omotransfobia, la misoginia e l’abilismo (il cosiddetto DDL Zan), innalzatosi ulteriormente nel 2022. Nella settima edizione del progetto le persone omossessuali costituiscono, così, la terza categoria più colpita dall’odio su twitter.

Le minoranze etniche e religiose, pur meno colpite in questa edizione del progetto rispetto alle categorie appena menzionate, sono tutt’oggi vittime di odio. L’antisemitismo è  fortemente radicato nel centro Italia e a Roma, il razzismo si scatenata in concomitanza con notizie legate all’immigrazione.

 

Quale definizione di hate speech alla luce dei dati?

I dati della Mappa dell’intolleranza 7 impongono una riflessione sulle nozioni di hate speech, proposte in diversi documenti giuridici, a livello sovranazionale e interno.

A seguito del secondo conflitto mondiale, le prime discipline in materia di hate speech sono state approvate con lo scopo di proteggere le minoranze etniche e religiose alla luce delle gravi violazioni di diritti perpetrate durante i regimi totalitari.

Così, a livello internazionale, il Patto sui diritti civili e politici del 1966 vieta “qualsiasi appello all’odio nazionale, razziale o religioso”, la Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del 1965 condanna “ogni propaganda ed organizzazione che s’ispiri a concetti ed a teorie basate sulla superiorità di una razza o di un gruppo di individui di un certo colore o di una certa origine etnica, o che pretendano di giustificare o di incoraggiare ogni forma di odio e di discriminazione razziale”.

Anche documenti più recenti, come il Codice di condotta siglato dalla Commissione europea, nel 2016, con le principali piattaforme del web, come Facebook e Twitter definiscono il discorso d’odio limitandosi al riferimento all’odio razziale, alla xenofobia, all’antisemitismo, senza tenere in considerazione altre forme di intolleranza.

Le definizioni di hate speech appena riportate sono recepite nell’ordinamento interno, nell’ambito del quale vengono in rilievo le disposizioni, originariamente introdotte dalla legge Mancino-Reale (l. 205 del 1993) e oggi codificate agli articoli 604 bis e 604 ter del Codice penale. Questi ultimi sanzionano penalmente chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o  commette atti di discriminazione per  motivi  razziali,  etnici,  nazionali  o religiosi.

I dati della Mappa dell’Intolleranza n. 7, mostrano come queste nozioni di hate speech non siano più al passo con i tempi, visto che le minoranze etniche e religiose non costituiscono le uniche vittime dell’intolleranza.

L’odio non sembra rivolto solo a gruppi minoritari, ma si alimenta in ragione di determinate caratteristiche della persona (e non di un gruppo), come il genere, la disabilità, l’orientamento sessuale. Proprio queste caratteristiche, alla base di “classici” fattori di discriminazione, non rientrano nell’ambito delle principali definizioni legislative di hate speech, rischiando di lasciar prive di tutela le persone oggi più a rischio.

A differenza delle istituzioni interne e internazionali, i social network si sono via via dotati di standards di autoregolamentazione, che, invece, propongono definizioni del linguaggio d’odio dettagliate che comprendono ogni motivo di discriminazione. Ad esempio, gli standards della community di Facebook definiscono “l’incitamento all’odio come un attacco diretto rivolto alle persone (piuttosto che a concetti o istituzioni) sulla base di quelle che chiamiamo caratteristiche protette: razza, etnia, nazionalità, disabilità, affiliazione religiosa, casta, orientamento sessuale, sesso, identità di genere e malattie gravi”. Si tratta di un aspetto molto problematico: la definizione di un fenomeno, come quello del discorso d’odio, che incide su diritti e libertà costituzionali è così rimessa a soggetti privati, comportando il rischio di privatizzazione della censura e l’istituzione di forme di giustizia privata. L’Oversight Board di Facebook – organismo di esperti nominati da Facebook che decide sui ricorsi presentati in materia di contenuti illeciti – ne è solo un esempio.

 

Proposte di intervento

Quanto appena esposto mostra come l’ordinamento sia oggi privo di strumenti utili a contrastare alcune forme di odio, come la misogina, l’omotransfobia, l’odio nei confronti delle persone con disabilità. Per colmare il vuoto normativo è indispensabile muovere dalla consapevolezza che, in questo ambito, è necessario individuare un corretto equilibrio tra la libertà di manifestazione del pensiero, di cui all’art. 21 della Costituzione e gli altri principi costituzionali coinvolti, a partire dal divieto di discriminazione, previsto all’art. 3 della Costituzione.

Al fine di rispettare tale delicato equilibrio, è necessario muoversi in almeno due sensi.

Nei casi in cui la parola rischi di trasformarsi in azione discriminatoria e/o violenta, è possibile intervenire con discipline di stampo penalistico, le quali nel nostro sistema costituzionale devono costituire sempre l’extrema ratio. Al fine di garantire protezione anche alle categorie più colpite dal discorso d’odio, come evidenziato dai dati della Mappa dell’Intolleranza, è opportuno modificare gli artt. 604 bis e ter del Codice penale al fine di punire non solo le condotte razziste, ma anche quelle omotransfobiche, misogine e intolleranti contro le persone con disabilità. In questo senso si muoveva il DDL Zan, la cui approvazione è naufragata durante la scorsa legislatura, ma che è stato recentemente ripresentato in Parlamento.

Di fronte a parole che veicolano stereotipi e pregiudizi, ma che non presentano un’evidente correlazione con la violenza, è possibile intervenire per via legislativa con strumenti di sensibilizzazione e educazione su questi temi e che promuovano una cultura digitale attenta all’eguaglianza e alla tutela dei diritti e della dignità di tutte e tutti.

 

Cecilia Siccardi è ricercatrice a tempo determinato in Diritto costituzionale all’Università degli Studi di Milano e ricercatrice aggregata al Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace” dell’Università di Pisa. Nelle sue ricerche si occupa di contrasto alle discriminazioni e tutela dei diritti, con particolare riferimento ai diritti degli stranieri e delle donne.