La guerra in Ucraina nella prospettiva del cambiamento climatico
di Attilio Pisanò
Vi è una potenziale vittima del conflitto ucraino della quale non si parla affatto. Una vittima illustre, le cui sorti dovrebbero interessare ognuno di noi, ma della quale si sono perse ormai le tracce. Questa potenziale vittima è il contrasto al cambiamento climatico antropogenico.
Il conflitto in essere in Ucraina (forse più di altri) ha importanti risvolti geopolitici ed energetici, che investono direttamente o indirettamente le modalità attraverso le quali sono state definite le politiche di contrasto al cambiamento climatico antropogenico negli ultimi trent’anni.
Ciò detto, però, ogni riflessione centrata sugli effetti climatici del conflitto russo-ucraino che assuma come punto focale le conseguenze ambientali (non climatiche) della guerra o che si limiti a conteggiare il delta delle emissioni climalteranti in più causate direttamente o indirettamente dal conflitto (come ad esempio la sempre più probabile riapertura, in Germania come in Olanda, di centrali elettriche che si alimentano con il più inquinante dei combustibili fossili, il carbone) appare miope: non è in grado, infatti, di comprendere le più generali conseguenze che la guerra in Ucraina potrebbe avere sul complesso sistema internazionale che, sotto l’egida delle Nazioni Unite, ha definito e definisce termini e modalità di contrasto al cambiamento climatico antropogenico.
Da un lato, c’è il concreto rischio che la (crescente) conflittualità scaturita dall’invasione russa dell’Ucraina si rifletta sulle condizioni che, nello scenario globale, devono garantire l’efficacia delle politiche statali di contrasto al cambiamento climatico antropogenico. Dall’altro lato, un conflitto come quello in atto, che riporta gli orologi della storia a logiche novecentesche che molti avevano pensato (forse un po’ ingenuamente) essere superate, con il coinvolgimento diretto di superpotenze e con le Nazioni Unite ridotte al rango di spettatrici, potrebbe essere mortifero proprio per l’ordine mondiale costituito nella seconda metà degli Quaranta del Novecento.
Ci potremmo trovare dinnanzi a un evento capace di far deflagrare le contraddizioni che hanno sempre segnato le Nazioni Unite, contribuendo a minarne il ruolo guida che esse devono assumere non solo nel percorso verso la garanzia della pace e della sicurezza internazionale, ma anche nel coordinamento delle azioni di contrasto globale ai cambiamenti climatici antropogenici.
Esiste dunque il rischio che una crisi come quella in atto tra Russia e Ucraina, che già coinvolge pienamente Stati Uniti, Regno Unito, Unione Europea e Cina, possa far “saltare”, in un futuro più o meno lontano, il modello delle Nazioni Unite con riflessi immediati anche nel contrasto al cambiamento climatico antropogenico, ricostruendo un ordine mondiale sull’asse Russia-Cina (paesi non esattamente proattivi nel contrastare il cambiamento climatico antropogenico).
È bene ricordare, difatti, che se esiste un governance di contrasto al riscaldamento globale è grazie all’attività promossa negli ultimi trent’anni delle Nazioni Unite, alle quali va riconosciuto il merito di avere definito (non senza fatica), con la Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici (1992), il Protocollo di Kyoto (1997), l’Accordo di Parigi (2005), il quadro normativo che consente un’azione coordinata a livello globale.
Si intravede così in lontananza il rischio, più o meno concreto, che l’eclissi del modello delle Nazioni Unite possa portare con sé sic et simpliciter l’eclissi del regime giuridico internazionale, tra hard e soft law, che ha posto le basi, faticosamente, tornante dopo tornante, per la creazione di un complesso modello politico di contrasto al cambiamento climatico antropogenico che intreccia piani normativi diversi, coagula intorno all’emergenza climatica interessi contrapposti, definisce azioni di contrasto che per essere efficaci necessitano, inevitabilmente, di un clima internazionale di condivisione e non divisivo.
Un regime, quello centrato sui cambiamenti climatici, il cui principio d’ordine è apparso da sempre in equilibrio precario (non certo per colpa esclusiva della Russia) e che ha come conditio sine qua non la stretta cooperazione tra tutti gli attori (tra cui gli Stati) che condividono una responsabilità comune, sebbene differenziata, nel contrasto al riscaldamento globale.
In prospettiva ‘minimalista’, invece, seppur dovesse uscire intatto (difficilmente rafforzato) il (già malfermo) ruolo-guida delle Nazioni Unite, anche (non solo) nel contrasto al cambiamento climatico, ci sarebbe da chiedersi che ruolo avrebbe la Russia, la Russia di Putin o del post-Putin (quale Russia?), il quinto paese al mondo per emissioni annuali di CO2 fossile (1,58 miliardi di tonnellate), il secondo per emissioni pro-capite (10,81 tonnellate nel 2020 (gli Stati Uniti sono il primo paese con 14,75 tonnellate pro-capite, mentre le emissioni cinesi ammontano a 7,41 tonnellate, la metà di quelle statunitensi), nella definizione di un approccio globale (l’unico possibile) al contrasto al cambiamento climatico.
Tale problema diviene ancora più pressante se una possibile fuoriuscita della Russia (responsabile del 4,5% delle emissioni globali) dal regime internazionale attivato contro il cambiamento climatico antropogenico fosse seguita da una pari mossa della Cina, primo paese al mondo per emissioni con 10,67 miliardi di tonnellate (il 30% delle emissioni globali pari a 34,81 miliardi), seguito dagli Stati Uniti (4,71 miliardi, il 13,5% su scala globale) e dall’Unione Europea (2,60 miliardi, pari al 7,5%) per emissioni annuali di CO2 (dati riferiti al 2020, Our World in Data, University of Oxford). Un’ipotesi neanche tanto peregrina se si pensa che Russia e Brasile non hanno partecipato ai lavori della COP26 tenutati a Glasgow nel novembre 2021.
Insomma, il contrasto al cambiamento climatico rischierebbe di rimanere monco, con la Russia che potrebbe remare apertamente contro un coordinamento globale promosso dalle Nazioni Unite delle politiche di contrasto al cambiamento climatico antropogenico, con la Cina tesa a promuovere i suoi interessi di sviluppo economico (senza diritti), con gli Stati Uniti che hanno espresso negli anni politiche ondivaghe, la cui definizione potrà dipendere fortemente dalla maggioranza che siede nel Congresso (alimentando così il pericolo più grande per il contrasto al cambiamento climatico, la visione elettoralistica e shortermistica che rischia di condizionare ogni scelta politica), anche a seguito della recente sentenza della Corte Suprema (West Virgina v. Environmental Protection Agency) in merito alla regolamentazione delle emissioni di CO2 provenienti dalle centrali elettriche.
Tali defezioni bollerebbero già in partenza il contrasto alla crisi climatica come inefficace, perché gli obiettivi di stabilizzazione dell’aumento medio della temperatura terrestre sarebbero più difficili da raggiungere (certamente impossibili senza la Cina) o potrebbero essere procrastinati (2060 è il termine previsto dalla Cina per raggiungere la neutralità climatica, nell’Unione Europea è 2050, come previsto dalla recente Normativa Europea sul Clima) con l’aumento dei rischi legati agli effetti negativi del cambiamento climatico e con l’Europa (che sta investendo tanto sulla transizione ecologica e la neutralità climatica) che potrebbe restare col cerino in mano.
In questo scenario la domanda che dobbiamo porci è se la guerra in Ucraina possa essere l’inizio di un effetto domino che si potrebbe concludere con il derubricare il contrasto al cambiamento climatico da urgenza ecologica, ambientale, politica, giuridica a obiettivo tra gli obiettivi, al cospetto di una agenda politica internazionale dettata da altre priorità, impegnata a costruire una pace senza giustizia climatica. Una domanda alla quale è difficile dare oggi risposte che non siano profetiche, ma che comunque ci consente di guardare al conflitto in atto da una prospettiva che appare indubbiamente trascurata, quella, per l’appunto, del contrasto al cambiamento climatico.
Una domanda che però appare ineludibile alla luce del fatto che le dinamiche che caratterizzano i processi che regolano l’equilibrio climatico necessitano di azioni messe in atto oggi, nel terzo decennio del nuovo Millennio, per ottenere risultati tangibili in tema di contrasto al cambiamento climatico intorno alla metà del secolo.
C’è dunque il rischio che le conseguenze geopolitiche e globali (tutte da scrivere) del conflitto in Ucraina rendano inutili gli sforzi sinora compiuti dalla comunità internazionale per definire, insieme, in chiave condivisa, tra tante difficoltà, i necessari obiettivi mitigativi, calibrati sulla responsabilità dei singoli Stati, definiti da ultimo dall’Accordo di Parigi del 2015 e specificati, poi, nel dettaglio dall’IPCC nel suo rapporto speciale Riscaldamento Globale di 1,5°C del 2018.
In quest’ottica appare incomprensibile come non solo gli analisti, ma le stesse istituzioni (Nazioni Unite e Unione Europea in primis) che hanno dipinto la questione climatica come la Questione del secolo corrente e che tanto spazio hanno lasciato agli attivisti climatici, non abbiano stimolato un dibattito sugli effetti ultimi della guerra che rischia concretamente di archiviare ogni velleità di ottenere dei risultati tangibili in tema di contrasto al global warming per i prossimi due-tre decenni, quelli decisivi per evitare che i rischi legati ad un incontrollato aumento medio della temperatura terrestre diventino impossibili da gestire, con danni potenzialmente catastrofici per l’intera umanità. Sarà importante dunque capire cosa accadrà nella COP27 che si terrà il prossimo novembre a Sharm El-Sheikh. Una COP che già non nasce sotto i migliori auspici.
Insomma, l’emergenza climatica è uscita improvvisamente e inopinatamente dai radar. E questa non è una buona notizia per ognuno di noi.
Attilio Pisanò è Professore associato presso l’Università del Salento, dove insegna Filosofia del Diritto e Teoria e Pratica dei Diritti Umani. È Principal Researcher del Political Terror Scale (University of North Carolina – Chapell Hill) e responsabile della Rete UniSalento+ “Pace e Diritti umani”. Da ultimo, è autore di Il diritto al clima. Il ruolo dei diritti nei contenziosi climatici europei (Napoli, ESI, 2022).