domenica, Dicembre 22, 2024
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Istantanee della Resistenza. I Diari di Ada Gobetti e Emanuele Artom

di Andrea Panzavolta

Il 25 aprile del 1945, scrive Norberto Bobbio, «eravamo ridiventati uomini». Il prefisso del verbo impiegato dal filosofo torinese ha un timbro drammatico immediatamente intuibile: non si ri-diventa uomini se prima non si è perduta l’umanità. E molteplici sono i modi in cui si può perderla: non solo attraverso l’esecuzione di azioni palesemente criminali (stragi, torture, rappresaglie, rastrellamenti, delazioni), ma anche attraverso il conformismo, il reiterato uso di cliché e di slogan (il filologo Victor Klemperer ha scritto a riguardo pagine definitive), la supina acquiescenza al potente di turno, l’indifferenza davanti alle ingiustizie.

Si perde lo statuto di esseri umani ogniqualvolta si odiano i propri simili. Se questo è vero, perdita immane di umanità fu il nazifascismo, la cui migliore definizione forse potrebbe essere questa: il peggiore tra i possibili modi di odiare.

Negli abnormi anni della Seconda guerra mondiale vi furono tuttavia uomini e donne che continuarono a dire «Io no», come recita il titolo della splendida autobiografia di Joachim Fest. Un No che divenne tanto più consapevole quando, dopo l’8 settembre 1943, con il crollo delle istituzioni, si impose l’urgenza di una scelta di civiltà che ripensasse su nuove basi il concetto di diritto, il rapporto tra le generazioni, il principio spirituale dell’Europa, una scelta che dovette necessariamente passare attraverso la lotta armata contro i nazifascisti.

Di quegli anni terribili e grandiosi, che restituirono dignità alla parola ‘patria’, Ada Gobetti e Emanuele Artom tennero dei diari che potremmo definire istantanee della Resistenza: non tanto perché riportano in presa diretta fatti di cui gli autori furono diretti testimoni, ma soprattutto perché riuscirono a fissare sulla pagina i principi fondamentali di ogni resistenza all’ingiustizia, qualunque forma questa possa assumere.

 

Diario partigiano di Ada Gobetti

«Dedico questi ricordi ai miei amici: vicini e lontani; di vent’anni e di un’ora sola. Perché proprio l’amicizia […] m’è parso il significato intimo, il segno della nostra battaglia», scrive Ada Gobetti in epigrafe al suo Diario partigiano (Einaudi 2014), una delle opere più riuscite, anche dal punto di vista letterario, sulla Resistenza. E infatti la cronaca degli eventi che va dal pomeriggio del 10 ottobre 1943, giorno in cui i tedeschi occuparono Torino, al 25 aprile – eventi terribili e luttuosi, in cui la vita era senza remissione alcuna minacciata da rappresaglie e stragi, da delazioni e arresti, da torture e deportazioni – procede sotto la guida sicura di Amicizia, la quale si fa tanto più sicura quanto più impazza la furia del mondo in guerra. Amicizia intesa come fedeltà «al proprio concetto morale» riscontrabile tra «i preti e i comunisti», tra studenti e operai, tra intellettuali e soldati; amicizia come comprensione dell’ora massimamente incerta in cui si vive e della chiamata a responsabilità che in essa risuona; amicizia, ancora, come volontà di non abbandonare l’altro nella comune buona battaglia e di soccorrerlo «con un tesoro intatto di coraggio e di energia»; amicizia, infine, come condizione esistenziale inevitabile, normale, persino scontata e per questo spoglia di eroismo.

Leggendo il Diario si avverte, ancora più potente della stessa prepotenza degli oppressori, come una polifonia dove non vi è l’unità dell’Uno, bensì l’Uno che le diverse voci formano. E forse non si dà definizione migliore di amicizia: ciascuna voce con il proprio timbro e con la propria intonazione concorre al fine comune che è la liberazione dall’invasore, il riscatto della Patria ferita e umiliata, la ricostruzione, prima di tutto civile, del Paese. Ada Gobetti racconta l’esistenza di un’altra Italia che il Fascismo non riuscì a piegare né a omologare, un «piccolo resto», per usare la terminologia biblica, grazie al quale è stata possibile la rinascita della Nazione: le celebri parole di Churchill – «mai così tanti dovettero così tanto a così pochi» – valgono anche per gli amici alla cui memoria Ada Gobetti leva il suo commosso canto.

Un canto, aggiungiamo subito, epico. A mano a mano che si procede nella lettura del Diario partigiano ci si accorge, pur con una fondamentale differenza di cui si dirà, che sarà sempre Iliade più che Odissea. Non vi è libro al pari dell’Iliade, infatti, in cui abbia raggiunto un esito altrettanto radicale la consapevolezza di come le relazioni tra gli uomini si svolgano necessariamente sotto il segno di pólemos («poi torneremo a combattere perché così vuole Ananke» dice Achille a Priamo, invitandolo, dopo aver pianto insieme i rispettivi morti, a mangiare con lui); la consapevolezza, ancora, di quanto sia fragile l’esistenza di ciascun essere vivente e di come ogni cosa – ogni relazione, ogni sogno, ogni opera realizzata da mano d’uomo – possa essere cancellata da un momento all’altro da un Fato imponderabile; e nel contempo non vi è libro come l’Iliade dove le piccole cose di ogni giorno – il cibo, l’abbraccio di un bambino, il ritrovarsi insieme alla stessa mensa – siano state esaltate con accenti altrettanto definitivi. Può accadere, allora, che dopo un rastrellamento si improvvisi un banchetto comune, al quale un vecchietto contribuisce con due pagnotte, dei ragazzini con dei pesci appena pescati e la padrona di un alberghetto con del vino e un’insalata di cipolle. Ada Gobetti in un primo tempo si chiede se la sua e quella dei suoi compagni non sia rassegnazione e indifferenza a ciò che in quelle ore era accaduto e che avrebbe potuto ripetersi di nuovo da un momento all’altro; ma poi ravvisa in quel desco comune una manifestazione dello spirito stesso della Resistenza, la quale non è soltanto lotta armata contro l’oppressore, ma anche fortezza contro quella tensione all’abisso che ciascun uomo avverte nel proprio cuore. Scrive la Gobetti, parlando dei suoi commensali: «Coi partigiani avevano sperato, lottato, sofferto e rischiato; e l’avrebbero fatto ancora quando fosse necessario. Ma era il respiro di sollievo che si tira all’allentarsi di un immediato pericolo, il vitale respiro incosciente che permette all’uomo di sopravvivere alle peggiori tragedie. E si gustavano, quasi avessero un nuovo più allettante sapore, le cose elementari e fondamentali dell’umana esistenza: il fuoco, il cibo e il canto».

E ancora. In nessun altro épos come l’Iliade (solo il pianto di Gilgameš per la scomparsa dell’amico Enkidu ne regge il confronto) la morte è stata osservata e raccontata con altrettanto coraggio e disincanto: la fine di ogni eroe è la fine di un mondo e sentiamo come carne della nostra carne le parole d’addio alla luce del sole che i guerrieri achei e troiani pronunciano mentre «l’anima, gemendo, discende nella cupa valle delle ombre». La morte è onnipresente anche in Diario partigiano, ma la sua prima epifania s’imprime in modo indelebile nella mente del lettore, perché così fu anche per la stessa scrittrice, la quale prima di scorgere «la povera carna denudata e straziata» di un giovane partigiano di nome Davide, aveva soltanto sentito raccontare della morte di alcuni partigiani: «C’è una differenza enorme tra vedere e sentir raccontare, sia pure con la maggior ricchezza di particolari. E s’anche ci si può sentimentalmente commuovere […] dinanzi agli alberi schiantati e alle case in rovina, nulla, neanche la distruzione dei più giganteschi edifici e delle opere d’arte più famose è neppur lontanamente paragonabile alla soppressione di un’unica, piccola, insignificante vita umana. Mi pareva che non avrei mai più potuto sorridere […]: quando l’ordine dell’universo è sconvolto, non si può credere neanche alla realtà del sole».

Una realtà sola, tuttavia, resta, ed è il pianto e con esso la pietà. L’Iliade risuona di pianti: non piangono solo le donne, come un inveterato e distorto codice di comportamento vorrebbe, ma pure gli eroi nel corrusco splendore delle loro armature e persino gli animali. È la pietà che ad Ada Gobetti fa ravvisare nel giovane massacrato il sembiante di suo figlio Paolo («Mai come in quel momento sentii quanto sia forte l’istintiva profonda solidarietà materna per cui ognuna sente come figlio suo ogni figlio d’ogni altra donna») e che spinge un gruppo di donne a vegliarne il corpo, sebbene i tedeschi abbiamo minacciato severe ritorsioni a chiunque lo avesse fatto. I lacerti di un dialogo trascritti dalla Gobetti hanno la statura di un coro sofocleo: «– I tedeschi ci hanno proibito di toccarlo. – Siamo qui per non lasciarlo solo». Se è vero che l’etimologia di ‘uomo’ deriva da humare, ‘seppellire i morti’, allora il gesto compiuto dalla Gobetti di coprire «la spoglia inanimata» è allegoria compiuta dell’humanitas. Ma anche quando l’orrore sembra trionfare, ecco soccorrere il terzo occhio del poeta, capace di spingersi oltre l’evidenza e di avvertire il senso del Tutto. Così è nell’Iliade, dove il placido nuotare dei delfini nel mare «color del vino» sta accanto, senza annullarlo, all’urlo nero di Andromaca; e così è nel Diario partigiano. Quale relazione ci potrà mai essere, si domanda la scrittrice, tra la morte di un giovane uomo e un prato ricoperto di violette? La lussureggiante indifferenza della natura non aggiunge assurdo all’assurdo e strazio allo strazio? Poi all’improvviso ecco una bimba correre sul prato: dopo aver salutato i fiori con esultanza, la piccola si mette a raccoglierli. Ada Gobetti sente il marito che le dice: «Vedi […] perché nascono le violette. Perché [i bambini] di tutto il mondo possano raccoglierle ed essere felici”. […] Guardai la bambina e compresi che avrei ancora potuto sorridere». E sorridono, a guerra finita, le dieci donne che, al termine di una riunione protrattasi a lungo, decidono di trascorre la notte insieme. Il fuoco che arde nel camino, il tepore, il cibo consumato in compagnia riaccendono in ciascuna il ricordo delle persone amate che non rivedranno più. La pena che hanno in comune le fa, tuttavia, sentire sorelle e dischiude loro una verità che è quasi una promessa di gioia: «Quando ci guardammo di nuovo negli occhi, tutte quante sentimmo di poter sorridere; senza parole inutili ci eravamo profondamente comprese: i nostri morti, quelli di oggi, quelli di domani, quelli di ieri, erano con noi; e sarebbero stati con noi per sempre; per noi e per tutti».

Ma se nel poema omerico non vi sono giusti né malvagi e i guerrieri sono accomunati da una medesima timé, in Diario partigiano – ecco la differenza fondamentale a cui prima si faceva cenno – è netta la distinzione tra oppressi e oppressori, tra chi combatte, e non di rado muore, per la libertà e chi invece per un disegno scellerato che, in caso di vittoria, avrebbe ridotto il mondo in catene. Con l’equanimità che soltanto i grandi possiedono, Ada Gobetti sa bene, però, che nessuna conquista è definitiva, che la notte non può mai essere completamente vinta e che occorre vigilare, prima di tutto su se stessi. La minaccia più infida, dopo le terribili prove belliche, è costituita da una placida e bovina normalità capace di sopire ogni ideale e di smorzare, fino a spegnerla di tutto, la «la piccola fiamma d’umanità solidale e fraterna» sorta dopo la morte della patria nel settembre del ’43: «Confusamente intuivo che incominciava un’altra battaglia: più lunga, più difficile, più estenuante, anche se meno cruenta. Si trattava ora di combattere non più contro la prepotenza, la crudeltà e la violenza – facili da individuare e da odiare –, ma contro interessi che avrebbero cercato subdolamente di risorgere, contro abitudini che si sarebbero presto riaffermate, contro pregiudizi che non avrebbero voluto morire: tutte cose assai più vaghe, ingannevoli, sfuggenti» (non si potrebbe individuare una più azzeccata tripletta di aggettivi per descrivere la storia italiana dal dopoguerra in avanti).

Fa già capolino in queste parole il tema della «Resistenza incompiuta» di cui parlerà Norberto Bobbio in un famoso articolo pubblicato nel 1966, una Resistenza intesa non tanto come fatto d’arme e men che meno come evento da celebrare con pompa antiquaria una volta all’anno, quanto piuttosto come ideale che, sebbene impossibile da realizzare del tutto, continua tuttavia ad alimentare «ansie ed energie di rinnovamento».

 

Diari di un partigiano ebreo di Emanuele Artom

Alla data 5 e 6 aprile 1944 del suo diario Ada Gobetti annota l’avvenuta uccisione per mano dei repubblichini rispettivamente di Emanuele Artom e di Sandro Delmastro. A quest’ultimo – ucciso durante un tentativo di fuga con una scarica di mitra alla nuca «da un mostruoso carnefice-bambino, uno di quegli sciagurati sgherri di quindici anni che la repubblica di Salò aveva arruolato nei riformatori», come scrive Primo Levi nel racconto Ferro dedicato proprio alla memoria di Dalmastro – la Gobetti, in ragione della familiarità che aveva con lui e dei rapporti di amicizia che lo legavano a suo figlio Paolo, dedica una riflessione di altissimo valore morale: «[…] questa morte priva di ogni atteggiamento rettorico, d’ogni possibilità d’esaltazione, è proprio quella che, potendo, avrebbe scelto per sé […]. Sandro apparteneva a quella generazione […] che affronta il destino qual è nella sua aridità tragica, senza bisogno d’abbellirlo, di rivestirlo d’aure eroiche: tanto più eroi in quanto non voglio esserlo, non sanno nemmeno di esserlo».

Queste stesse parole valgono anche per Emanuele Artom che nei suoi due diari (Bollati Boringhieri 2008) – il primo va dal 1° gennaio 1940 al 10 settembre 1943, il secondo dal novembre 1943 al 23 febbraio 1944 – offre una rappresentazione vivida, immediata, soprattutto senza «rettorica» della vita partigiana, «rettorica», ci verrebbe da dire, nell’accezione intesa da Carlo Michelstaedter, cioè come organizzazione maniacale della cultura senza la quale gli uomini incapaci di vivere responsabilmente il proprio tempo precipiterebbero in uno spaventoso vuoto. E massimamente «rettorico» fu il fascismo che, nella lettura proposta da Artom, riuscì a attecchire così bene perché trovò un formidabile terreno di coltura nella pressoché totale assenza di spirito pubblico, ossia di condotte uniformi improntate a un’etica condivisa (non dissimile è il ragionamento sviluppato da Leopardi nel suo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani e, prima ancora, da Machiavelli nei suoi Discorsi sopra la prima decade di Tito Livio). Scrive Artom: «[…] il Fascismo non è una tegola cadutaci per caso sulla testa; è un effetto della apoliticità e quindi dell’immoralità civile del Popolo italiano. Se non ci facciamo una coscienza politica, non sapremo governarci, e un popolo che non sa governarsi cade necessariamente sotto il dominio straniero o sotto la dittatura di uno dei suoi». La pagina del diario datata 10 settembre 1943, giorno dell’occupazione tedesca di Torino, riassume con densità epigrafica in che modo si è consumato il destino di una nazione: «[…] mezza Italia è tedesca, mezza inglese e non c’è più un’Italia italiana».

Vi è tuttavia un’altra «rettorica», parimenti infida, su cui Artom insiste in pagine davvero memorabili dei suoi diari, pagine, come subito si spiegherà, del tutto anomali quanto a chiarezza di giudizio, se si considera che esse furono scritte non con il distacco dello storico, al quale il tempo consente di svolgere un’analisi più obiettiva dei fatti, bensì con la passione e l’angoscia di chi si trova nel fuoco della tragedia.

Il secondo diario si apre con un incipit che all’orecchio del lettore giunge come una sgradevole dissonanza. L’autore elenca di seguito tre istantanee di vita partigiana che hanno ben poco di glorioso: un gruppo di compagni cerca di uccidere un aviatore fascista che aveva minacciato con la rivoltella un ragazzo, reo ai suoi occhi di aver asportato un ritratto di Ettore Muti; un partigiano ubriaco litiga con un carabiniere e viene tradotto in carcere; un altro ingravida una ragazza. La ragione per cui sono stati riportate queste non edificanti tranches de vie è subito spiegata da Artom: «[…] bisogna scrivere questi fatti perché fra qualche decennio una nuova rettorica patriottarda o pseudoliberale non venga a esaltare le formazioni di purissimi eroi: siamo quello che siamo: un complesso di individui in parte disinteressati e in buona fede, in parte arrivisti politici, in parte soldati sbandati che temono la deportazione in Germania, in parte spinti dal desiderio di avventura, in parte da quello di rapina. Gli uomini sono uomini. Bisogna cercare di renderli migliori e a questo scopo per prima cosa giudicarli con spregiudicato e indulgente pessimismo. In quasi tutte le mie azioni sento un elemento più o meno forte di interesse personale, egoismo, viltà, calcolo, ambizione, perché non dovrei cercarlo anche in quelle degli altri? Perché, ritrovandolo, dovrei condannarlo severamente?».

Anomali, si diceva sopra, sono queste pagine perché con fulminante lucidità colgono nella «rettorica» il piano inclinato sul quale facilmente sarebbe potuta sdrucciolare persino la lotta partigiana, che era in corso nel momento stesso in quelle righe erano vergate. Se tanta «rettorica» è stata successivamente ridimensionata, e a ragione, dai romanzi e dai racconti di Beppe Fenoglio, Cesare Pavese, Carlo Cassola e Italo Calvino, i Diari di Artom ancora stupiscono per la lucidità di giudizio degna di un autore classico e per l’insofferenza verso qualsiasi forma di conformismo, fascista o patriottardo che sia, in un tempo in cui dogmatica e inconcussa era la distinzione tra amici e nemici. Egli si paragona a un alpinista che durante un’ascensione si sofferma a osservare sterpi e sassi – fuor di metafora, gli episodi censurabili della lotta partigiana – anziché le vette delle montagne e i paesaggi, salvo aggiungere: «se non vedessi vetta o paesaggio, non farei la dura salita». Con l’occhio equanime e il disincantato del cronista, Artom registra le frequenti incomprensioni tra il suo mondo di appartenenza, cittadino, borghese e intellettuale, e quello proletario e contadino da cui proviene la maggior parte dei suoi compagni di lotta, narra i soprusi dei badogliani e le frizioni tra gli azionisti della val Pellice e i comunisti di Barge, e soprattutto individua nella guerra civile il male peggiore che possa abbattersi su un Paese. Davanti a un repubblichino che sta per essere fucilato dai partigiani e che quella stessa mattina si era alzato, «senza pensare che fosse l’ultima», per braccare dei giovani che si erano rifiutati di arruolarsi nella RSI, Artom, dopo aver osservato che una cosa è uccidere in battaglia, altra a sangue freddo, aggiunge una densa riflessione che coglie il centro dell’Umano: «Forse [quel repubblichino] non ha nessuna colpa vera di essere chi è perché la vita è un terribile mistero: chi distrugge un mistero senza averlo prima conosciuto?». E ancora. Pur giudicando in sé sacrosanta la guerra di Liberazione, a Artom non sfuggono le zone d’ombra con cui anche il resistente è costretto a misurarsi, fragili e porosi confini dove basta un nonnulla perché l’antifascismo torni a essere fascismo. Così, ragionando sul fatto che due ex prigionieri, sottoposti a sevizie da parte dei partigiani, si erano poi messi alla testa di un reparto tedesco per un rastrellamento, scrive: «Si adottano i metodi fascisti. […] ora comprendo la gravità di aver ucciso qualche prigioniero. […] ora capisco come sarebbe stato meglio ricordargli che i Tedeschi uccidono i partigiani catturati, poi puntargli la rivoltella, graziarlo e trattenerlo un’ora a spiegargli […] le ragioni della nostra resistenza. Se tornava fra i fascisti poco male: uno più o meno fra tanti non conta, ma c’era qualche possibilità che si ravvedesse, che ci restasse amico e ci rendesse qualche servizio, che almeno combattesse più fiaccamente contro di noi. Almeno davanti alla popolazione e alla storia sarebbero rese note le differenze fra i due metodi».

Amicizia: ecco la parola su cui fondare una nuova etica politica quanto più condivisa possibile. Amicizia come concordia civium, come legame sociale in cui tutti i cittadini possano riconoscersi pur nella diversità dei loro orientamenti politici. Vi è un passo in cui Artom si dimostra luminoso diagnosta del suo tempo e in generale dei mali che da sempre affliggono l’Italia: «Domani dovrà regnare la libertà. Inoltre si è sempre detto che la salvezza dell’Italia era il menefreghismo, l’indifferenza dei fascisti che attutiva ogni elemento radicale del fascismo. Cosa avverrebbe domani se un governo assoluto cadesse nelle mani di fanatici, incapaci di discutere e di dubitare, esasperati dalle persecuzioni, pronti a dare la vita, come hanno sacrificato la propria personalità? I Fascisti fanno schifo, i Nazisti orrore, i Comunisti spavento».

Rifiuto del fanatismo e dell’intolleranza, da qualunque chiesa essi provengano; dubbio e (auto)critica quale metodo per intelligere il tempo che si sta vivendo; l’arte della domanda e della discussione, del colloquio e dell’ascolto quale stigma di una democrazia matura: ecco per Artom i requisiti indefettibili per risollevare l’Italia. Un abito mentale, una grammatica dello spirito che egli richiede prima di tutto a se stesso: di questa rara tensione morale i Diari offrono altissima testimonianza.

 

Andrea Panzavolta è giornalista pubblicista. Collabora alla rubrica “Film in discussione” di Iride. Filosofia e discussione pubblica, e ad alcune riviste di critica cinematografica. Dal 2014 è il direttore artistico della rassegna concertistica forlivese “Passioni in musica”.