Il silenzio che circonda la missione militare italiana nel Sahel
L’Italia ha recentemente approvato l’invio di un contingente militare nella regione del Sahel, teatro di lotta al jihadismo, come supporto alla missione francese della task force Takuba. La missione ha però lineamenti poco chiari (ufficialmente addestramento e supporto a truppe locali africane), a partire dalle regole d’ingaggio dei soldati coinvolti e dalla durata della missione. In questo articolo pubblicato su Internazionale, Andrea de Georgio analizza il contesto nel quale si inserisce la missione: emergono interessi strategici nazionali, legati non solo a obiettivi militari, ma anche e soprattutto ai rapporti economici tra l’Italia e i paesi della regione, in particolare con la vendita di armi e lo sfruttamento delle risorse nel sottosuolo. Gli scarsi risultati nel contrasto del fenomeno jihadista alimentano, d’altra parte, i dubbi sul vero obiettivo della missione. La presenza militare italiana in questa regione apre, inoltre, a scenari difficilmente prevedibili, come dimostra il crescente risentimento anti-francese nell’area.
di Andrea de Georgio
Approvando il decreto missioni il 16 luglio, il parlamento italiano ha deciso l’invio di un contingente militare nel Sahel, uno dei territori più interessati dalla lotta globale al terrorismo jihadista. Questa desertica regione dell’Africa occidentale, fino a ieri fuori dai radar della politica estera italiana, sta assumendo un peso sempre più importante nella strategia geopolitica di Roma.
Se il rinnovato impegno nel conflitto libico, contenuto nello stesso pacchetto legislativo, ha causato una reazione forte da parte dell’opinione pubblica nazionale, il nuovo dispiegamento di forze militari italiane in un contesto complesso, rischioso e dispendioso come il Sahel centrale (Mali, Niger e Burkina Faso) è, invece, quasi passato sotto silenzio. A differenza delle altre missioni estere italiane, sulla task force Takuba a comando francese, che vedrà impegnate le nostre truppe e i reparti speciali di altri paesi europei nel Sahel centrale, sono trapelate solo poche informazioni.
Del futuro impegno militare italiano in Mali al momento si conosce l’entità (duecento soldati delle forze speciali, venti mezzi terrestri e otto elicotteri), la base (Ansongo, sperduta località del nord Mali), il raggio d’azione (il feudo jihadista del Liptako-Gourma, la cosiddetta zona “delle tre frontiere” a cavallo fra Mali, Niger e Burkina, dove regnano gruppi legati ad Al Qaeda e allo Stato Islamico) e l’onere finanziario (quasi 16 milioni di euro per il solo 2020).
Troppe, invece, le domande che restano senza risposta, come per esempio: quando sarà operativa la forza Takuba e per quanto tempo resterà impiegata? Quali compiti avranno le forze speciali italiane schierate al fianco dei francesi e degli eserciti locali? Quali sono, nello specifico, gli “interessi strategici nazionali” (continuamente evocati nei discorsi politici) che andremo a difendere nel Sahel?
Versioni discordanti
Sull’inizio e l’effettiva durata della task force Takuba i possibili scenari appaiono discordanti. Al summit del G5-Sahel (altra creatura politico-militare voluta da Parigi che raggruppa circa cinquemila soldati di Mauritania, Mali, Niger, Burkina Faso e Ciad) di fine giugno a Nouakchott, in Mauritania, il presidente francese Emmanuel Macron ha parlato di un dispiegamento iniziale “già nelle prossime settimane” che dovrà durare “almeno tre anni”.
La maggior parte dei partner europei, Italia compresa, resta vaga sui tempi di dislocamento delle truppe optando per un impegno formale (e finanziario) fino alla fine del 2020, da rinnovare su base annuale. Al di là dei diversi atteggiamenti politici, però, l’orizzonte che sembra più realistico è dopo la fine della stagione delle piogge nel Sahel (settembre-ottobre) per la fase d’apertura e, nella migliore delle ipotesi, il primo o secondo trimestre del 2021 per la piena operatività.
Secondo Camillo Casola, ricercatore del programma Africa dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), oltre che dalle tempistiche incerte la “dimensione scivolosa” della prossima missione italiana è causata anche dalla scarsa chiarezza sulle regole d’ingaggio: “Nel decreto missioni si parla di addestramento, formazione e assistenza alle élite militari africane ma non viene esplicitato fino a che punto sarà, sul campo, una presenza operativa. Nei comunicati di Parigi è scritto ‘accompagnare, assistere e consigliare le forze locali’, senza spiegare se si tratti di cooperazione d’intelligence, assistenza e preparazione delle azioni, dalle retrovie, oppure di una presenza attiva durante le operazioni di controterrorismo”.
I dubbi dell’esperto vertono anche sui pericoli a cui verrà esposto il contingente italiano, all’indomani dell’uccisione, il 24 luglio, del 43° soldato francese dall’inizio della guerra in Mali (11 gennaio 2013). Un conflitto stratificato che nel solo 2019 ha causato secondo le stime dell’Onu oltre quattromila morti, con un aumento del 25 per cento degli attacchi nel Liptako-Gourma rispetto all’anno precedente.
Le pressioni della Francia
Negli ultimi mesi il Mali è stato profondamente destabilizzato da una crisi politica interna seguita all’insurrezione che ha catalizzato il malcontento popolare contro il presidente Ibrahim Boubacar Keita. Uno dei regimi “discutibili” con cui, anche grazie alla missione Takuba, l’Italia mira a stringere rapporti, incurante delle gravi violazioni dei diritti umani perpetrate contro i civili dalle forze di sicurezza regionali, che favoriscono il reclutamento dei gruppi jihadisti. Un ginepraio in cui l’Italia rischia di finire impantanata.
Già dal nome (takuba o takouba è una spada tradizionale usata da diverse popolazioni della regione, tuareg, peul, sonrai o haussa per difendere il proprio onore) s’intuisce la vocazione bellica di questa iniziativa fortemente voluta dalla Francia. Macron, infatti, è particolarmente preoccupato dal prossimo ritiro americano dalla regione, nonostante la situazione nell’area stia degenerando e cerca di convincere i partner europei a “condividere il fardello”, cioè i costi, materiali e umani della guerra al terrorismo in Africa occidentale.
Accusato di coprire interessi neocoloniali, l’esercito francese è presente in tutta la fascia sahelosahariana dalla Mauritania al Ciad con basi, mezzi, droni armati e 5.100 uomini della missione Barkhane, lanciata nel 2014 per regionalizzazione l’operazione Serval precedentemente concentrata nel solo Mali.
Oltre all’Italia, per ora hanno risposto positivamente alla chiamata alle armi di Parigi anche Regno Unito, Paesi Bassi, Belgio, Portogallo, Grecia, Estonia, Repubblica Ceca, Svezia, Norvegia e Danimarca. Germania e Spagna, pur dichiarandosi politicamente favorevoli, hanno fatto sapere alla Francia che non invieranno truppe a Takuba, preferendo invece rinforzare la propria presenza in seno ad altre istituzioni multilaterali, come la missione europea di formazione dell’esercito del Mali (Eutm, che conta una ventina di italiani) e l’Alleanza per il Sahel, altra iniziativa francese più orientata alla cooperazione allo sviluppo.
Molti paesi europei, infatti, sono già impegnati militarmente nel Sahel. Oltre a partecipare all’Eutm, alla missione europea di sostegno alle forze di polizia locali (Eucap-Sahel) e alla Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione in Mali (Minusma), l’Italia è anche presente, dal 2018 a fasi alterne e contorni altrettanto discontinui, in Niger con la Missione bilaterale di supporto (Misin, prorogata dal Decreto Missioni). La militarizzazione dell’intera regione però, non ha ancora portato a una riduzione del fenomeno jihadista. Anzi.
Nell’analisi di Camillo Casola gli scarsi risultati finora raggiunti dai francesi, uniti alla percezione di parte della società civile africana di un inarrestabile dispiegamento di forze straniere veicolato da mire neocoloniali, potrebbero esasperare il sentimento antifrancese che ha già spinto, nei mesi scorsi, migliaia di giovani a protestare nelle strade di Bamako e Ouagadougou. Questo potrebbe avere delle conseguenze anche sulla credibilità del nostro futuro contingente nella regione.
Oltre alla volontà di stringere nuovi rapporti con paesi al centro della maggiore rotta migratoria verso l’Europa, uno dei principali obiettivi politici perseguiti dall’Italia con Takuba “ è sicuramente anche quello di rafforzare relazioni commerciali in termini di esportazioni di armi per il tramite di un’azienda strategica”. Il ricercatore dell’Ispi Casola si riferisce ai potenziali contratti di cooperazione militare e sbocchi commerciali per l’industria bellica italiana, ventilati da Macron a Conte durante il vertice Italia-Francia organizzato a Napoli il 27 febbraio scorso.
Dal 2017 ad oggi l’Italia ha già stipulato accordi militari bilaterali con Niger, Burkina Faso e Ciad ed è attivamente interessata, come tutte le potenze straniere implicate in questo teatro, allo sfruttamento delle ricchezze del sottosuolo del Sahel. Non è un caso, dunque, che Roma negli ultimi due anni abbia aperto ben tre ambasciate nella zona (in Guinea, Niger e Burkina Faso) e che a breve ne inaugurerà una quarta proprio in Mali, annunciata in calce alla partecipazione alla task force Takuba.
“Creare guerre per vendere armi e usarle per creare ancora guerre è storia troppo conosciuta per stupirsene e per meravigliarsi che certi conflitti armati siano perenni”, scrive Mauro Armanino su Avvenire. Vivendo in Niger da diversi anni, questo prete di frontiera osserva e racconta gli sviluppi di quella che sembra, a tutti gli effetti, una partita a Risiko: “Le forze in campo si sono via via moltiplicate in modo proporzionale ai soldi, ai militari e ai gruppi armati. Si prospetta una guerra di lunga durata che oltre a migliaia di morti sta producendo centinaia di migliaia di sfollati, rifugiati e intere zone abbandonate dallo stato. Il panmilitarismo continua a proporsi come profezia che si (auto)avvera: chi di spada ferisce di spada perisce, sta scritto”.
Fonte: Internazionale, 31 luglio 2020.