sabato, Dicembre 21, 2024
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Dove sta andando il Sahel? Intervista a Luca Raineri

La regione africana del Sahel costituisce un’area di grande importanza strategica, caratterizzata negli ultimi due decenni da una crescente instabilità. Per provare a chiarire le cause storiche e politiche dell’attuale situazione, e delineare le sue possibili evoluzioni, abbiamo intervistato Luca Raineri, ricercatore in Studi di sicurezza alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, curatore con Edoardo Baldaro del volume Jihad in Africa. Terrorismo e controterrorismo nel Sahel. 

Oggi il Sahel viene rappresentato, almeno in Occidente, come una regione segnata da instabilità e insicurezza endemiche. I violenti cambi di regime avvenuti negli ultimi anni in diversi paesi dell’area – nel 2020 in Mali, nel 2021 in Chad, nel 2022 in Mali e in Burkina Faso, infine in Niger nell’estate del 2023 – sembrano confermare questa idea. Potrebbe, innanzitutto, chiarire l’origine e l’uso del concetto di “Sahel”? A quando risale la sua associazione a situazioni di crisi? 

Il concetto di Sahel ha una storia molto lunga. Il termine deriva dall’arabo “Sahil” (costa, sponda) e veniva utilizzato dagli esploratori e dai missionari arabi per definire la sponda di quel mare prosciugato, che è il deserto del Sahara, cui approdavano dal Nord Africa entrando in una fascia più umida. La presenza della zanzara anofele in questa fascia più umida ha, a lungo, impedito la prosecuzione dei viaggi verso sud a causa del rischio di malaria. 

Queste regioni risultano molto interessanti a livello antropologico, poiché costituiscono una zona di transizione tra aree diverse: quelle più settentrionali dove erano possibili esclusivamente il commercio e la pastorizia, e quelle più meridionali dove era possibile anche l’attività agricola. La composizione etnica variegata del Sahel riflette questa sua natura. 

Il termine Sahel era diventato desueto nell’epoca della colonizzazione, ma è tornato in uso negli anni ’70 del secolo scorso per riferirsi a regione come a un’area di crisi. Sono stati quelli anni di straordinaria carestia in quasi tutti i paesi della fascia subsahariana, principalmente a causa di fattori climatici e di una forte instabilità politico-economica. Successivamente, le crisi petrolifere e le conseguenti ondate inflattive che hanno colpito l’economia mondiale, hanno investito duramente i paesi più fragili dell’area. 

Più recentemente, nei decenni 2000 e 2010, il Sahel è tornato al centro dell’attenzione occidentale come un’area di forte insicurezza. Mentre in precedenza la regione era caratterizzata dalla coabitazione pacifica di diversi gruppi etnici e religiosi, come ad esempio nel Burkina Faso, in quegli anni abbiamo assistito alla diffusione di movimenti islamici radicali, anche di matrice terroristica.

Quali sono le cause profonde dei ripetuti colpi di stato che hanno interessato vari paesi del Sahel? Che peso hanno avuto, su questi cambi di regime, la diffusione del jihadismo e le modalità con cui la comunità internazionale lo ha affrontato? 

A partire dagli anni 2010 si sono manifestati nel Sahel due fattori di conflitto.  

Il primo è legato all’indipendentismo di alcuni gruppi etnici, principalmente insidiati nel nord di alcuni di questi paesi, come i Tuareg o altri gruppi arabi in Niger e Mali, che si sentivano poco rappresentati dai governi nazionali, centrati maggiormente da un punto di vista etnico, economico e demografico nelle zone meridionali. Su questo tipo di conflitti si sono innestate ulteriori polarizzazioni di tipo socioeconomico ed etnico (con i gruppi del nord che si identificano come “bianchi” e quelli del sud che si identificano, invece, come “neri”), con effetti di forte tensione e destabilizzazione. 

Il secondo fattore di conflitto è costituito dalla diffusione, cui ho già accennato, dell’estremismo religioso di matrice jihadista. Vari gruppi, provenienti prevalentemente dall’Algeria, hanno trovato terreno fertile in numerosi paesi del Sahel. Il loro messaggio è caratterizzato, da una parte, dal superamento delle differenze etniche in nome dell’uguaglianza religiosa e, dall’altra parte, da una netta posizione anti-occidentale e anti-imperialista. 

Questa visione ha incontrato il favore di una parte delle popolazioni locali, così che il jihadismo è gradualmente passato all’essere un fenomeno circoscritto a piccole cellule terroristiche che operavano in clandestinità, al promuovere movimenti insurrezionali su più larga scala. Il radicamento di questi gruppi è stato ulteriormente favorito dalla risposta dei governi locali, costituita spesso da una violenza indiscriminata sulle popolazioni civili sospettate di simpatie jihadiste. I movimenti jihadisti hanno trovato sostegno soprattutto nelle popolazioni più marginalizzate, che vi hanno visto un modo per resistere agli abusi governativi. 

Il radicamento del jihadismo, con le connesse azioni di destabilizzazione dei governi centrali, ha attirato l’attenzione di vari attori internazionali interessati a preservare la sicurezza e la stabilità statale nel Sahel. Pensiamo all’Opération Barkhane, la missione militare antiterrorismo iniziata dalla Francia nell’estate 2014 ed estesa sul territorio di Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad. Ma pensiamo anche alla MINUSMA, la missione di peacekeeping delle Nazioni Unite in Mali, istituita ad aprile 2013 per stabilizzare il paese dopo la ribellione dei Tuareg, ma che poi si è spesso scontrata con milizie jihadiste. 

Sono stati interventi molto poco efficaci, che hanno alimentato lo scetticismo nei confronti degli attori occidentali, ritenuti in parte co-responsabili della violenza diffusa. Anche i governi civili ne sono stati indeboliti, mentre la richiesta interna di sicurezza ha aperto la strada alla presa del potere da parte di “uomini forti” provenienti dall’esercito: da qui l’ondata di colpi di stato militari che ha investito l’area del Sahel. Si tratta di paesi dove l’esercito è considerato una forza di tipo popolare. Il risultato è una peculiare convergenza tra sovranismo anti-occidentale, militarismo e in alcuni casi populismo. 

Qual è il contesto storico che accomuna i paesi del Sahel, al di là delle loro caratteristiche specifiche? 

Il contesto storico del Sahel presenta vari tratti comuni. Innanzitutto, alcuni degli imperi precoloniali trascendevano i confini attuali e coprivano più paesi. È sempre stata un’area, questa, caratterizzata da contatti tra gruppi diversi, anche grazie alla presenza di importanti rotte carovaniere che arrivavano fino al Nord Africa. 

L’esperienza coloniale francese ha portato ad accentuare ulteriormente alcuni tratti comuni di questa regione. La colonizzazione è stata a lungo accusata, e spesso non a torto, di persistere di fatto anche dopo l’indipendenza dei vari paesi: l’influenza di Parigi è rimasta particolarmente forte sul piano economico-finanziario, militare e politico. E d’altra parte, oggi, i regimi militari che si sono instaurati negli ultimi anni sono accomunati dalla comune retorica fortemente anticoloniale, soprattutto antifrancese.  

Personalmente, trovo tale retorica in buona parte strumentale a legittimare i nuovi regimi. A queste latitudini continua a prevalere l’immagine della Francia come di una grande potenza, quando a oggi la Francia è di fatto una media potenza in declino. Quindi, l’incapacità francese ad arginare o reprimere il fenomeno jihadista e, in generale, a controllare la situazione della regione ha rappresentato per tanti uno shock culturale e politico. In realtà, quello della Francia andrebbe letto in parallelo con l’analogo fallimento degli Stati Uniti in Afghanistan dove, dopo quasi vent’anni di guerra contro i Talebani e contro Al-Qaeda, le truppe occidentali si sono ritirate precipitosamente: difficilmente la Francia poteva riuscire in un’impresa che non era riuscita neanche agli Stati Uniti, per di più su un territorio molto più vasto come quello del Sahel. 

La credenza nella superpotenza francese è esemplificativa della persistente deferenza, anche culturale, di molte delle élite di questi paesi nei confronti di Parigi. Il risultato è che il fallimento francese è stato letto non tanto come un’incapacità, quanto come una mancanza di volontà nell’arginare il fenomeno jihadista. Da qui i discorsi di matrice complottista sulla collusione tra élite francesi e alcuni gruppi radicali islamici, con intenti neocoloniali. Questo tipo di narrazione ha avuto ampia circolazione soprattutto sui social media, alimentando diffidenza e ostilità nei confronti della Francia e portando, infine, alla richiesta popolare di una netta chiusura dei rapporti col governo di Parigi. 

La stampa occidentale ha spesso sottolineato con preoccupazione la crescente influenza del governo russo e in particolare del gruppo Wagner in vari paesi dell’area, in parallelo col declino della presenza politica e militare francese. Qual è oggi la reale portata dell’influenza russa nel Sahel e quali sono le sue ragioni? 

Quasi tutti i governi militari che hanno preso il potere con la forza nel Sahel hanno richiesto il ritiro delle forze militari francesi dal paese. Questa situazione ha portato a una difficoltà a sopperire, nell’immediato, alla gestione della sicurezza cui si è supplito prendendo accordi con il governo russo.  

Molto interessata ad ampliare la propria influenza politica nel mondo, la Russia ha guadagnato credito nel Sahel con un approccio alla lotta contro il terrorismo ispirato alla “ricetta siriana”. La Russia ha svolto un ruolo importante contributo nel garantire in Siria la permanenza del governo di Bashar al-Assad minacciato, tra gli altri, anche dallo Stato Islamico. Allo scopo è stato utilizzato un metodo di violenza indiscriminata verso qualsiasi comunità che venisse anche solo sospettata di accogliere, più o meno volontariamente, gruppi jihadisti. 

Questo tipo di approccio ha suscitato l’interesse di vari governi del Sahel che, vedendosi sempre più minacciati da gruppi terroristici, si sono rivolti a Mosca con la speranza di ottenere lo stesso “successo” conseguito in Siria. Ciò ha portato a un’escalation di violenze anche sui civili, di cui non riusciamo a misurare né la portata né le conseguenze a causa della censura dei governi, che limitano o impediscono l’accesso di giornalisti, osservatori delle Nazioni Unite o osservatori indipendenti che potrebbero documentare eventuali violazioni dei diritti umani.  

Dopo aver operato soprattutto attraverso milizie private come il Gruppo Wagner, soprattutto in Mali, il governo russo sembra abbia recentemente creato una nuova struttura militare chiamata “Africa Corps”, che opera sotto il ministero della Difesa: un centinaio di soldati russi sarebbero arrivati in Burkina Faso nelle scorse settimane. 

Dal 2018 anche l’Italia è presente nell’area, con un proprio contingente militare in Niger. Qual era e qual è lo scopo della missione? Come prosegue adesso la missione, dopo il colpo di stato, sotto il nuovo regime? 

Vari paesi, tra cui anche l’Italia, hanno inviato propri contingenti militare in Sahel per contribuire alla sicurezza della regione. Tuttavia, le priorità politiche dei vari governi non erano le stesse: se per la Francia e gli Stati Uniti è stata senz’altro prioritaria la lotta al terrorismo, per l’Italia la priorità principale è stata ed è il contrasto all’immigrazione irregolare, di cui il Niger è stato a lungo un perno fondamentale. Ad esempio, durante la “crisi migratoria” tra il 2015 e il 2017, si è calcolato che più della metà dei migranti siano transitati dal Niger per raggiungere le coste libiche. 

Dal 2018 l’Italia ha dispiegato nel paese un proprio contingente di circa 300 unità, con il compito di formare le forze militari locali, anche in funzione del controllo delle frontiere. È difficile valutare l’impatto di questa formazione. L’importanza del Niger nelle rotte migratorie è diminuita da allora: oggi solo una piccola parte dei migranti transitano dal Niger. Quanto ciò sia anche l’effetto della presenza italiana è difficile dirlo, anche perché sono state adottate molte altre misure per incidere sulle rotte, alcune di importanza molto superiore rispetto a una piccola missione di training.  

Il colpo di stato dello scorso luglio ha messo in discussione questo tipo di collaborazioni militari internazionali, sebbene in maniera ambigua. La giunta militare ha interrotto i rapporti soltanto con il governo francese. Le forze armate statunitensi a oggi restano in Niger, senza che questo susciti particolare preoccupazione né nella giunta militare nigerina, né nella popolazione. Lo stesso vale per altri contingenti europei, compreso quello italiano, anche se è stata interrotta la collaborazione con l’Unione europea in quanto unione.  

Inoltre, la giunta militare ha abrogato una legge che criminalizzava il trasporto irregolare di migranti nel paese: questa norma, nota come Legge 2015-36, era stata introdotta su richiesta dell’Unione Europea nel quadro di un accordo di cooperazione, accompagnato dall’impegno ad aumentare gli aiuti economici al paese. È possibile che anche la cooperazione con i paesi membri dell’Unione, in particolare con l’Italia, vengano messe in questione da questo tipo di provvedimenti. 

Il 9 dicembre 2023 il Burkina Faso ha dichiarato che il francese non è più la lingua ufficiale dello stato: è solo un gesto simbolico o questa decisione rappresenta un cambiamento storico per il paese?  

È sicuramente un gesto simbolico di grande valenza politica che, da una parte, manifesta una cesura delle relazioni privilegiate che ci sono state a lungo tra Parigi e alcuni paesi della regione, a partire dal Burkina Faso. Al tempo stesso, è una scelta non priva di conseguenze concrete: il francese, proprio a causa della sua estraneità, rappresentava una lingua comune per tutti i gruppi etnici del paese. Lo stesso si potrebbe dire di molti altri paesi della regione. 

A seguito di questa decisione, è probabile che diverse lingue locali saranno identificate come lingue nazionali, per sottolinearne la dignità. D’altra parte, è altrettanto probabile, come successo anche in Senegal con il Wolof, che una di queste lingue, probabilmente quella di uno dei gruppi etnici più vicini alla capitale, assuma un carattere egemonico finendo per venire estesa a tutto il territorio, anche presso gruppi etnici che parlano lingue diverse. 

Penso, dunque, che sia strumentale vedere in questa decisione un contributo alla coesione nazionale. Anzi, c’è il rischio di produrre un’ulteriore marginalizzazione di quei gruppi etnici più periferici, che vedranno la propria lingua e identità assoggettate a quella dei gruppi politicamente più centrali. Questo fenomeno si può vedere in Mali, dove la giunta militare porta avanti una politica nazionalista, fortemente Bambara, che è vista con sospetto dai gruppi etnici del nord che non si riconoscono in questa tradizione e non parlano questa lingua. Così si rischia di ravvivare lo spirito di secessione e ribellione. 

Diversi paesi del Sahel stanno stringendo accordi con gli Emirati Arabi Uniti per l’esportazione di oro e altre risorse naturali di valore. Anche la Repubblica Popolare Cinese negli anni passati ha aumentato i propri investimenti nell’area. Queste nuove relazioni internazionali rappresentano un’opportunità di emancipazione o si tratta della prosecuzione di un modello di sviluppo predatorio, solo portato avanti da altri paesi? 

Non credo che le intenzioni dei nuovi attori economici che intervengono in Africa siano così diverse da quelle dei precedenti europei, così come anche le modalità non sono così diverse. Anzi, in alcuni casi tendo a pensare che le modalità siano peggiori.  

Non dobbiamo dimenticare che, per buona parte dell’Africa, gli ultimi anni sono stati caratterizzati da una crescita economica sostenuta in termini di PIL: una crescita ben più rapida della ormai stagnante economia europea. Molti africani sanno che vivranno meglio dei loro genitori, e sicuramente meglio dei loro nonni, convinzione ormai smarrita in Europa. In questo contesto dinamico, la moltiplicazione delle opzioni e degli attori economici è sempre una buona notizia, nella misura in cui la concorrenza abbassa i costi di transazione.  

Tuttavia, gli Emirati Arabi operano spesso in una modalità da “free rider”: si avvantaggiano dei limiti regolatori della comunità internazionale. Il commercio in oro che li vede protagonisti avviene per la maggior parte in maniera informale, per non dire fraudolenta, con limitatissimi vantaggi fiscali per i paesi africani esportatori nel loro complesso, e con l’arricchimento di singoli intermediari, che generalmente spostano i propri guadagni nei paradisi fiscali.  

La vera sfida che si impone oggi ai governi del Sahel e, in generale, di molti stati africani in crescita è quella di una politica economica nazione in grado di captare le risorse generate dai nuovi commerci internazionali, specialmente se si tratta di materie prime. A fronte di tassi anche elevati di crescita, si acuiscono le diseguaglianze interne: l’introduzione di regimi equi e progressivi di tassazione e di politiche di redistribuzione delle risorse pubbliche sono altri due elementi essenziali per garantire la stabilizzazione delle società africane. 

Intervista realizzata da Amadou Makhtar Mbodj, chiusa in redazione il 4 febbraio 2024.