Donne e regimi: riflessioni a partire dalla situazione in Afghanistan
a cura di Chiara Magneschi e Cecilia Siccardi
Dopo aver brevemente occupato giornali e telegiornali nei mesi successivi al ritorno dei Talebani a Kabul, la “questione afghana” è rapidamente scomparsa dai radar dei media. Questo silenzio colpisce ancora di più se si pensa a quanto sia peggiorata la situazione del paese negli ultimi mesi, con effetti ancora più gravi di quelli prevedibili a seguito del ritiro delle forze occidentali. Così, è solo grazie a testimonianze raccolte al di fuori dei canali ufficiali, sordi e muti rispetto all’emergenza in corso, che conosciamo l’entità delle violazioni sistematiche dei diritti umani più basilari in Afghanistan: una lesione che lascia anche in noi spettatori “privilegiati” la percezione delle fragilità di ogni conquista in termini di diritti e che dovrebbe spingerci ad aumentare gli sforzi per dare maggiore stabilità al rapporto tra teoria e prassi dei diritti umani.
Lo scorso 10 dicembre all’Università degli Studi di Milano si è tenuto il convegno “Donne e regimi: spunti a partire dal caso afghano”, con l’obiettivo di rispondere a una precisa domanda: cosa fare per le afghane e gli afghani che vogliono lasciare il paese e chiedere protezione all’estero, in particolare in Italia? Come per altri eventi di studio patrocinati da RUniPace, anche questo ha inteso favorire la piena e concreta attuazione dei diritti fondamentali. Si tratta di una prospettiva innovativa, perseguita sia attraverso la promozione di discussioni su temi di viva attualità e di tragica urgenza, allo scopo di avanzare specifiche proposte d’intervento, sia attraverso il coinvolgimento nei consessi accademici di soggettività della società civile impegnate nella tutela dei diritti umani. In questo modo, si realizza l’obiettivo sociale più alto dell’università: quello di lavorare in rete, per confrontarsi con i problemi dell’attualità e orientare il desiderio di conoscenza a una trasformazione della realtà.
Questo spirito è confermato dal coinvolgimento nella programmazione del convegno di diversi enti, accademici e non: il Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane Onlus (CISDA), il Centro di Ricerca Coordinato “Migrazioni e Diritti umani” dell’Università degli Studi di Milano, il Centro interuniversitario “Culture di Genere”, la Rete Scholars at Risk.
Relatrici e relatori hanno restituito il grado di maturazione di questa sinergia tra teoria e prassi sia negli interventi di apertura, che nelle tre sessioni in cui è stato strutturato il convegno: le donne in Afghanistan tra ieri e oggi; la prospettiva giuridica: donne e diritti umani a partire dalla crisi afghana; il ruolo dell’occidente: tra accoglienza e tutela dei diritti all’incrocio tra Italia e Afghanistan.
Il convegno è stato introdotto dai saluti delle promotrici dell’iniziativa: Marilisa D’Amico, Prorettrice a legalità, trasparenza e parità di diritti presso l’Università degli Studi di Milano; Enza Pellecchia, coordinatrice di RUniPace; Marina Carini, Prorettrice alla terza missione presso l’Università degli Studi di Milano e promotrice del ciclo di incontri di ateneo “Focus Afghanistan”; Lorenza Violini, Presidentessa del CUG dell’Università degli Studi di Milano. Sempre in apertura del convegno, Antonella Baldi, Prorettrice all’internazionalizzazione dell’Università degli Studi di Milano e coordinatrice dell’“unità di crisi” dell’ateneo per l’Afghanistan, ha ricordato la messa in campo di un corridoio educativo per accogliere studentesse, ricercatrici e docenti afghane.
Altra testimone della partnership tra mondo accademico e associazioni attiviste è stata Gabriella Gagliardo, presidentessa del CISDA, che ha messo in luce, con vivo entusiasmo, la fecondità dello scambio reciproco tra approfondimento teorico ed esperienze di vita ovvero, in questo caso, le voci delle donne afghane. Voci che forniscono materiale al lavoro di ricerca, che raccontano delle lotte meno note e più ignorate dai canali dell’informazione mainstream, nascoste da una fitta mistificazione della realtà.
Non sono mancati approfondimenti più prettamente teorici, come quello di Marilisa D’Amico, che ha tracciato un percorso storico-giuridico dei diritti costituzionali delle donne sotto i regimi autoritari, mettendo in evidenza alcuni loro tratti ricorrenti. Uno dei primi atti di tali regimi è, in genere, proprio l’esclusione delle donne dalla vita pubblica. Il nazismo le ha escluse da esercito, governo e magistratura, perseguitando e segregando in appositi campi di concentramento donne considerate “inutili” o non conformi al modello totalitario: omosessuali, disabili, rom, “eccentriche”, “asociali”. Il fascismo ha ristretto la partecipazione femminile ai bandi di concorso, ha limitato il numero di posti di lavoro ricoperti da donne, le ha confinate in “impieghi femminili” come la dattilografia, la stenografia, la telefonia. La prima iniziativa del regime talebano, non a caso, è stata proprio quella di bloccare l’accesso alla carriera e all’istruzione da parte delle donne.
A questo aspetto si è ricollegato Antonio De Lauri, ricercatore del Michelsen Institute e direttore del Norwegian Center for Humanitarian Studies, che nella sua relazione ha affrontato, in prospettiva antropologica, il tema delle professioni delle donne afghane, con particolare riferimento alla magistratura. Il racconto del relatore, che ha vissuto in Afghanistan diversi anni, è frutto di innumerevoli interviste a donne magistrato, nonché ad altri attori del sistema giurisdizionale (procuratori, avvocati, poliziotti, singole persone coinvolte nelle controversie). De Lauri ha ricordato come, in Afghanistan, solo nel 1969 si sia avuta la prima donna giudice e come, fino al 2001, la presenza femminile in magistratura sia rimasta estremamente esigua, complice anche l’instabilità politica. Occorre attendere il 2001, con la cosiddetta “ricostruzione giuridica”, per vedere aumentare la presenza femminile (circa trecento donne giudice, corrispondente a quasi l’8% del totale), sia pure in un contesto segnato da persistenti e notevoli criticità. In particolare, la presenza delle donne nella magistratura ha avuto spesso carattere di “segregazione di genere”, attraverso la loro assegnazione quasi esclusiva a Corti minorili, e le prospettive di carriera sono state assenti o molto complicate. Da agosto 2021, la situazione è nuovamente peggiorata, tanto che molte di queste professioniste hanno lasciato il paese.
Particolarmente intensa è stata la testimonianza, nutrita dal rapporto ventennale con il CISDA, di un’attivista della Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (RAWA), organizzazione clandestina nata nel 1977 per promuovere i diritti delle donne e la giustizia sociale nel paese e che, nel corso dei decenni, ha continuato il proprio lavoro di opposizione ai diversi regimi che si sono avvicendati. L’attivista (rimasta anonima per motivi di sicurezza) ha rivolto un vero e proprio appello a non riconoscere il governo talebano come soggetto politico. Ha riferito di come la struttura economica del paese sia totalmente distrutta: sedi istituzionali, uffici pubblici e società private sono chiuse, le banche non concedono liquidità neppure a chi ha risparmi. Ma l’impatto ancora più negativo è quello sulle donne: le lavoratrici sono state licenziate, le studentesse sono state private della possibilità di istruirsi. In questo contesto poter contare sulle pressioni esercitate da parte della comunità internazionale, è estremamente importante: i talebani temono l’attenzione dei media, che potrebbero essere in grado di svelare il carattere tuttora fondamentalista del loro governo, allontanando la prospettiva di investimenti e prestiti esteri nei loro confronti.
Come ha aggiunto Cristiana Cella, membra del direttivo CISDA e giornalista che si occupa dal 1980 di vicende afghane e di progetti umanitari, le donne di RAWA ci chiedono di essere “le montagne dietro le loro spalle, le guerriere della loro dignità”. Le donne resistenti afghane hanno fatto molto nei decenni scorsi: attraverso il loro radicamento nella società civile hanno cercato un dialogo continuo con le altre donne, organizzando corsi di formazione, col sostegno del CISDA. Si tratta di un lavoro minuzioso e profondo, che ha effetti moltiplicatori: una volta che un donna prende consapevolezza dei propri diritti si creano effetti positivi in contesti via via più ampi. Si tratta, è bene ricordarlo, di un paese in cui l’87% delle donne ha subito violenza e il 90% è analfabeta; un paese in cui accade ancora che le bambine vengano impunemente cedute per riparare ai torti degli adulti.
Nella seconda sessione del convegno le relatrici si sono confrontate sul tema dei diritti umani delle donne, dal punto di vista del diritto interno, internazionale, costituzionale e comparato.
La relazione di Costanza Nardocci, ricercatrice in Diritto costituzionale dell’Università degli Studi di Milano, ha messo in luce la situazione dei diritti delle donne nell’ambito del diritto afghano. Nonostante la Costituzione, definita dalla relatrice “simbolo del protagonismo occidentale”, affermi sulla carta il principio di eguaglianza e le sue specificazioni, le discriminazioni nei confronti delle donne sono quotidiane. La causa è da ricercare anche in un complicato intreccio di “personal law” indirizzate alle numerose minoranze afghane. La legittimazione dello stupro coniugale da parte della personal law sciita ne è solo un esempio. Queste discriminazioni sono state aggravate sia nella sfera privata, sia nella sfera pubblica dal c.d. “Decreto sulle donne” emanato dal nuovo regime talebano.
A seguire Chiara Ragni, professoressa di Diritto internazionale, ha messo in luce gli obblighi internazionali gravanti sull’Afghanistan in materia di diritti delle donne. La professoressa ha ricordato che, a seguito della missione del 2001, l’Afghanistan ha ratificato la Convenzione internazionale per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne. Il regime, dunque, si sta muovendo in senso contrario agli obblighi internazionali assunti dallo Stato afghano negando i diritti delle donne sanciti dal diritto internazionale. Di fronte a tale situazione la comunità internazionale ha messo in campo alcuni strumenti di reazione. Tra questi è particolarmente importante l’attivazione di una Commissione di inchiesta da parte delle Nazionali Unite e l’avvio di un’indagine da parte della Corte penale internazionale. Queste indagini saranno di centrale importanza per far luce sui drammatici accadimenti afghani.
Cecilia Siccardi, ricercatrice di Diritto costituzionale, ha prestato attenzione alla situazione delle donne afghane in relazione alla garanzia del diritto costituzionale d’asilo. Il tema tocca due problematiche che caratterizzano da sempre la disciplina del diritto d’asilo. La prima è connessa al fatto che la nozione di rifugiato contenuta nella Convenzione di Ginevra del 1951 è stata pensata sul modello del rifugiato politico di sesso maschile, tant’è che tra i motivi di persecuzione non figura il genere. La seconda, invece, riguarda l’assenza di procedure legali di ingresso in Unione europea per persone che sono potenzialmente titolari del diritto d’asilo di cui all’articolo 10, comma 3 della Costituzione. I pochi strumenti che sono stati attivati a favore degli afghani (i cosiddetti “corridoi umanitari”) non hanno previsto criteri di priorità per agevolare la protezione delle donne, soggette a una situazione di particolare fragilità.
Irene Spigno, Direttrice dell’Academia Interamericana de Derechos Humanos presso la Universidad Autónoma de Coahuila, ha offerto una panoramica degli strumenti messi in campo dalla comunità internazionale e dagli Stati per fornire protezioni agli afghani e alle afghane. L’oggettiva criticità della situazione in Afghanistan e le difficoltà diplomatiche hanno rappresentato un ostacolo per mettere in campo canali sicuri di uscita/accesso per i richiedenti protezione. Nell’analisi delle diverse vie offerte dagli Stati, la Direttrice nota come non vi sia stata nella maggior parte dei casi un’attenzione particolare alla situazione delle donne afghane. Un modello in questo senso è sicuramente rappresentato dal Canada, il quale ha accolto 20.000 Afghani (in Italia ne sono stati accolti solo 1200), stabilendo dei criteri di priorità nei confronti delle donne.
Un’altra esperienza significativa nella costruzione di ponti tra teoria e prassi dei diritti umani è la Rete Scholars At Risk, che ha come referente per l’ateneo di Milano Angela Di Gregorio, professoressa di Diritto comparato nella medesima università. La relatrice ha dato conto dell’attivazione – a partire dal 2020 – di un bando annuale per borse di studio rivolte a studenti/docenti il cui percorso di istruzione è messo a rischio dalle condizioni socio-politiche dei paesi di origine, e di come, se nella prima edizione esisteva un’unica posizione (aggiudicata proprio da uno studente afghano), nella seconda edizione il bando abbia offerto cinque borse di studio, anche in considerazione dell’emergenza in Afghanistan. Sempre per lo stesso motivo, la data del bando è stata anticipata ad agosto, e sono stati semplificati i requisiti di accesso, anche tenuto conto delle caratteristiche dei percorsi formativi afghani, ancora molto fragili: nel 2000 non c’era neanche una docente universitaria afghana, mentre nel ventennio successivo ce ne sono state, ma hanno dovuto conseguire il titolo di dottorato all’estero, poiché in Afghanistan non risulta esserci nessun dottorato di ricerca. Il finanziamento è stato potenziato e si è data la possibilità ai Dipartimenti di richiedere dei cofinanziamenti.
Ebbene: delle 5 borse disponibili, 4 sono andate ad afghani, di cui 2 donne che, però, non sono ancora riuscite a raggiungere l’Italia, e dunque non possono ancora beneficiare dell’erogazione. La proposta di Di Gregorio è quella di aumentare la solidarietà accademica, con regole meno rigide sull’utilizzo dei fondi, inclusi quelli di ricerca personale, e tempistiche burocratiche che rispondano alle emergenze.
Il convegno si è chiuso con lo stesso accorato appello con il quale si era aperto: continuiamo a parlare dell’emergenza afghana, cerchiamo e diffondiamo testimonianze di ciò che sta accadendo. A lanciarlo è stata Gabriella Gagliardo, presidente CISDA, la quale ha richiamato alcuni dati che non possiamo ignorare: il 97% degli afghani è sotto il livello di povertà e rischia la sopravvivenza, il che vuol dire che ci sono, in Afghanistan, 23 milioni persone a rischio fame nei prossimi mesi; anche coloro che hanno mantenuto il lavoro non percepiscono lo stipendio da agosto.
La situazione attuale deriva da lontano, dall’occupazione ventennale del territorio da parte dei paesi occidentali, che hanno perseguito i propri interessi geopolitici, a scapito di quelli della popolazione locale. I media hanno del resto assecondato una rappresentazione falsata della realtà, raccontando di un ruolo salvifico e progressista dell’occidente, e tacendo gli enormi investimenti militari degli “alleati” in confronto all’esigua spesa per la cooperazione.
In questi venti anni le associazioni hanno cercato di sfruttare i piccoli spazi democratici che si sono aperti, denunciando la violazione del diritto alla rappresentanza e in generale di tutti i diritti: di fatto, i principali incarichi di governo sono stati affidati a fondamentalisti che hanno distratto gli aiuti economici dall’utilità comune (come la costruzione di infrastrutture, o le riforme per la creazione dello stato di diritto). Occorre peraltro, avverte Gagliardo, fare attenzione alle “finte attiviste” filogovernative, che contribuiscono alla dissimulazione delle storture della governance.
Lo scopo del CISDA è dare spazio a quei soggetti realmente radicati sul territorio e nella società civile che svolgono un ruolo di promozione dei diritti umani, senza allentare la lotta per i diritti, specie di quelli delle donne, anche nei nostri paesi, lotta che è d’incoraggiamento alla resistenza delle donne afghane.
Chiara Magneschi avvocata, ricercatrice aggregata al Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace” e docente a contratto in Teorie giuridiche e politiche e diritti umani presso il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa.
Cecilia Siccardi è ricercatrice a tempo determinato in Diritto costituzionale all’Università degli Studi di Milano e ricercatrice aggregata al Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace” dell’Università di Pisa. Nelle sue ricerche si occupa di contrasto alle discriminazioni e tutela dei diritti, con particolare riferimento ai diritti degli stranieri e delle donne.