Dispute sulla memoria. A 50 anni dal colpo di Stato in Cile
A cinquant’anni dal colpo di Stato che ha rovesciato in Cile il governo di Salvador Allende, instaurando la dittatura militare di Pinochet durata 17 anni, la società cilena rimane divisa sulla memoria di questa fase storica. L’attuale governo progressista, guidato da Gabriel Boric, ha deciso di promuovere un Piano nazionale di ricerca dei detenuti scomparsi, ma le forze politiche conservatrici non hanno partecipato a questo progetto e ne osteggiano la realizzazione. Secondo un recente sondaggio, il 36% dei cileni ritiene che i militari abbiano fatto bene a organizzare il colpo di Stato nel 1973. Il sostegno al regime di Pinochet è aumentato negli ultimi anni, in parallelo con un crescente disincanto nei confronti del sistema democratico: la disputa sulla memoria del colpo di Stato e della dittatura è certamente un ostacolo per la riconciliazione nazionale. Claudia Heiss, ricercatrice al dipartimento di Scienze Politiche dell’Università del Cile, ha affrontato questi e altri temi in un articolo pubblicato sulla rivista Estudios de Política Exterior. L’autrice sostiene che la società cilena stia vivendo una crescente atomizzazione, investita da sentimenti populisti di ostilità verso il sistema partitico tradizionale. Nonostante la polarizzazione, la democrazia in quanto tale continua a essere apprezzata come sistema politico, ma se ne avvertono fortemente i limiti pratici, ad esempio in termini di corruzione e di distanza dai bisogni reali del paese. In questo quadro, il futuro del processo costituente sarà cruciale per il Cile, poiché la mancanza di negoziati tra le parti e l’orientamento identitario degli emendamenti fin qui proposti potrebbero renderne difficile l’approvazione finale.
di Claudia Heiss
Nelle settimane che hanno preceduto l’11 settembre 2023, in occasione del 50° anniversario del colpo di Stato in Cile, il presidente in carica Gabriel Boric ha sfidato il passato proiettando immagini dei detenuti scomparsi durante la dittatura sulla facciata del Palacio de la Moneda e ha lanciato un Piano nazionale di ricerca – il primo in assoluto di questo tipo – per recuperare i loro resti, mostrando così un forte impegno istituzionale per la ricostruzione della verità storica.
Una memoria storica non condivisa
Fino a oggi, la ricerca delle quasi 1.500 persone detenute e scomparse tra il 1973 e il 1990 è stata lasciata principalmente nelle mani straziate dei parenti delle vittime, costretti ad aggirarsi in un vero e proprio labirinto legale. Sfortunatamente, solo 307 sono stati identificati e recuperati, e questo a causa di un piano cinicamente orchestrato dai responsabili per far sparire le prove e nascondere la verità. Le autorità ora cercano di promuovere verità e giustizia, cercando di dare un senso alle varie e frammentate informazioni relative alle condizioni di detenzione e alle sparizioni politiche. Tuttavia, pesa in questo processo di ricostruzione della verità l’assenza dei rappresentanti dei partiti di destra, che non hanno partecipato al programma lanciato dal governo.
Nonostante le numerose prove disponibili sulle violazioni dei diritti umani commesse durante il regime di Pinochet, un sondaggio CERC-MORI pubblicato nel maggio di quest’anno ha rilevato che il 36% della popolazione ritiene che i militari abbiano fatto bene a organizzare un colpo di Stato nel settembre del 1973. Nel plebiscito svolto a ottobre 1988, quando il “No” fece cadere il sipario sulla dittatura, il “Sì” che sosteneva la permanenza di Pinochet al potere per altri otto anni riuscì a raccogliere solo il 44% di consensi, dimostrando la volontà della maggioranza di mettere fine a quel regime. Per questo motivo Marta Lagos, nel presentare l’indagine, ha affermato che il regime di Pinochet “ha perso solo otto punti di popolarità in questi 35 anni”. Il sorprendente sostegno che persiste per un regime che ha giustiziato, torturato, violentato ed esiliato migliaia di persone non è rimasto stabile dal ritorno alla democrazia, avvenuto nel 1990. I dati del sondaggio, che viene portato avanti da decenni nel paese, rivelano come la tendenza a giustificare il colpo di Stato sia continuamente influenzata dagli eventi politici in corso. Oggi, la crescente disillusione verso la politica tradizionale e l’amara esperienza della democrazia, per come viene effettivamente vissuta, si manifesta in un preoccupante aumento dell’approvazione verso l’autoritarismo del passato.
Invece di avanzare con determinazione verso una ferma condanna delle atroci violazioni dei diritti umani e promuovere un comune impegno nei confronti dei principi democratici e del pluralismo, la società cilena sembra oggi stentare a conservare ciò che in passato sembrava essere una memoria storica condivisa. Ad esempio, ad agosto scorso, la deputata di destra Gloria Naveillán è arrivata ad affermare che le violenze sessuali perpetrate dai soldati durante la dittatura siano “una leggenda metropolitana”, ignorando documenti ufficiali e decisioni giudiziarie che attestano la realtà di tali violenze.
I crimini del regime di Pinochet non sono presenti soltanto in documenti ufficiali e sentenze giudiziarie: altri due deputati in carica sono stati vittime dirette di torture e violenze sessuali durante la dittatura. In un’intervista dello scorso agosto, l’ex presidente Michelle Bachelet ha denunciato il profondo deterioramento del clima politico, dichiarando che “a 30 anni dai fatti, numerosi partiti avevano condannato il colpo di Stato. Ma oggi, incredibilmente, non lo fanno più; sostengono senza pudore che non ci siano state violazioni dei diritti umani o crimini contro l’umanità”.
Vent’anni dopo il colpo di stato, nel 1993, Pinochet era ancora al comando dell’esercito e la commemorazione dell’11 settembre di quell’anno si svolse in un clima di alta tensione tra civili e militari. Nel 2003, sotto la presidenza del socialista Ricardo Lagos, il trentesimo anniversario fu contrassegnato da eventi pubblici significativi, come la riapertura della Porta Morandé 80, che dava accesso dall’esterno all’ufficio di Salvador Allende nel Palacio de La Moneda e dalla quale il suo corpo senza vita fu portato fuori dopo il golpe.
Nel settembre 2013, in occasione del quarantesimo anniversario, il primo presidente di destra del periodo post-transizione, Sebastián Piñera, che aveva votato “No” al plebiscito del 1988, esortò ad “affrontare le ferite, curarle e permettere che guariscano. Purtroppo”, aggiunse, “non possiamo resuscitare i morti, né ritrovare i dispersi. Ma dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per avanzare sulla via della verità e della riconciliazione”. Piñera definì in quella occasione “complici passivi” quei civili che erano a conoscenza delle violazioni dei diritti umani e non intervennero. Sottolineò anche che il sostegno della destra al “Sì” era stato un “grave errore”. Anche se Piñera ribadì la sua condanna delle violazioni dei diritti umani commesse durante la dittatura, il suo approccio in quell’anniversario fu differente rispetto a dieci anni prima. In un’intervista affermò che il colpo di Stato “era inevitabile” e che “l’intento della sinistra era quello di instaurare una dittatura marxista”, giustificando così implicitamente la fine della democrazia.
Verità ufficiale e negazionismo
Il rifiuto delle violazioni dei diritti umani perpetrate dalla dittatura non ha ancora raggiunto un consenso trasversale in Cile. Né i rapporti ufficiali che documentano esecuzioni, sparizioni forzate e torture – come quelli prodotti dalla Comision de Verdad y Reconciliación (il cosiddetto “Rapporto Rettig” del 1993) e dalla sobre Prisión Política y Tortura (il cosiddetto “Rapporto Valech” del 2004-05) – né la fondazione nel 2010 dell’Istituto Nazionale dei Diritti Umani e del Museo della Memoria e dei Diritti Umani, sono riusciti a promuovere una autentica convergenza sui valori democratici di base tra le diverse forze politiche.
Il rapporto della Comision de Verdad y Reconciliación ha attestato l’esecuzione politica e la scomparsa di 2.279 persone ad opera di agenti dello Stato. Nel 1996, la Corporación Nacional de Reparación y Reconciliación ha aggiornato la cifra a 3.197 vittime. Dal 2005, due commissioni successive, denominate Valech I e Valech II, hanno indagato su tortura e detenzione politica, aspetti non trattati nei rapporti antecedenti, identificando oltre 40.000 vittime. Ciononostante, i dati forniti da questi organismi (composti da giuristi di vario orientamento politico) non sono riusciti a delineare una verità univoca, né a istituire garanzie efficaci contro la ripetizione di tali atrocità. Il Piano di Ricerca Nazionale, approvato dal governo il 30 agosto scorso, rappresenta un’ulteriore passo avanti da parte delle istituzioni nel tentativo di affrontare questa ferita ancora aperta nella società cilena.
Per molti anni, un decreto-legge di amnistia promulgato durante la dittatura ha garantito l’impunità per tali crimini. A seguito di un cambiamento d’interpretazione, nel 1998 la Corte Suprema del Cile ha smesso di applicare questo decreto nei casi relativi a violazioni dei diritti umani: lo stesso anno dell’arresto di Pinochet a Londra per crimini contro l’umanità. Nelle ultime settimane, la Corte Suprema ha emesso diverse sentenze contro ex soldati e agenti di sicurezza in casi emblematici, come la tortura e l’omicidio del cantante Víctor Jara nel 1973 o la tortura e la scomparsa dei dirigenti del Partito Comunista nel 1976. Attualmente 17 giudici si occupano esclusivamente di quasi 1.500 casi ancora pendenti per violazioni dei diritti umani, ma molti casi rimangono aperti.
Se la giustizia ha agito con lentezza, il dibattito pubblico su questi crimini ha diviso l’opinione in due visioni contrapposte: da una parte, chi condanna fermamente tali crimini e, dall’altra, chi li minimizza. Il Museo della Memoria, per esempio, è stato definito come una “montatura” e una “manipolazione della storia” dall’ex ministro della Cultura nel governo Piñera, Mauricio Rojas, che a causa di tali dichiarazioni si è dimesso nel 2018. Tuttavia, l’idea che il Museo dovrebbe rappresentare anche la crisi politica antecedente al golpe, finendo in sostanza per attribuire alla stessa sinistra la responsabilità del colpo di Stato e dei crimini della dittatura, è una visione piuttosto diffusa nella destra cilena. I settori più conservatori della società, e molte delle scuole frequentate dai loro figli, evitano di visitare questo Museo, ritenendolo politicamente di parte. In risposta all’accusa di “negazionismo” rivolta a chi difende la dittatura ignorando le sue atrocità, un noto giornalista televisivo ha recentemente sostenuto che ignorare gli “errori della sinistra” prima del colpo di Stato, ritenuti causa della successiva violenza, rappresenta anch’esso una forma di negazionismo.
In occasione dell’anniversario dell’11 settembre 2019 un inserto a pagamento del quotidiano “El Mercurio” recitava a grandi lettere rosse: “L’11/09/1973 il Cile è stato salvato dall’essere quello che è oggi il Venezuela” e aggiungeva: “Allende ha usato la violenza e l’illegalità per imporre una dittatura marxista-leninista”. L’Ordine dei giornalisti ha protestato contro questa pubblicazione, sottolineando che “la libertà di espressione è stata una lotta durata 17 anni, che ha comportato la censura e la morte di colleghi. Vincerla ha significato riconquistare un diritto, ma anche una responsabilità. La stampa non può essere promotrice del negazionismo e della distorsione storica”. I lavoratori di “El Mercurio” hanno protestato davanti alla sede del giornale con cartelli che recitavano “No all’inserto” e “No al negazionismo”.
Nel maggio di quest’anno il rappresentante del Partito Repubblicano, Luis Silva, il candidato con il maggior numero di voti al Consiglio Costituzionale del 2023, ha sollevato polemiche dichiarando in merito a Pinochet: “Nutro un certo grado di ammirazione per lui, perché lo considero uno statista; si dovrebbe fare una valutazione più equilibrata del suo governo.” In risposta a tali dichiarazioni, i rappresentanti della sinistra hanno proposto una legge contro il negazionismo sulle violazioni dei diritti umani, proposta che non ha raccolto sufficiente sostegno nel Congresso e i cui detrattori sostengono che potrebbe incidere sulla libertà di espressione. In sintesi, il dibattito politico sulla memoria e sul negazionismo è attraversato da una tensione tra ciò che si intende per libertà di espressione e di stampa, da un lato, e la responsabilità dell’informazione, dall’altro, in un contesto caratterizzato da una concentrazione della proprietà dei media ereditata dalla dittatura e dall’ascesa della disinformazione attraverso le reti sociali.
Partiti politici e polarizzazione
Pur avendo una tradizione di stabilità istituzionale e di buoni risultati economici rispetto ad altri paesi dell’America Latina, il Cile ha attraversato una profonda crisi sociale iniziata con un calo prolungato della partecipazione elettorale poco dopo il ritorno alla democrazia nel 1990, accompagnata dal calo dell’identificazione politica e da una crisi di fiducia e legittimità delle istituzioni. Gli alti tassi di crescita economica nei primi anni di democrazia hanno fatto apparire il paese come lo “studente modello” della regione. Nonostante la fine tardiva della dittatura, il paese ha goduto, rispetto ai suoi vicini, di una significativa crescita economica e di una marcata riduzione della povertà. Poco dopo, tuttavia, è emersa una frattura tra le élite e i cittadini, che si è espressa in un aumento dell’astensione elettorale.
Dietro gli apparenti buoni dati macroeconomici si celano le difficoltà di un paese con bassi salari, in cui l’ampliamento dell’accesso a beni e servizi fondamentali è prevalentemente sostenuto dal credito privato e dove l’intervento dello Stato nel promuovere il benessere sociale viene percepito come inadeguato. Con il declino della crescita economica nell’ultimo decennio, il costo della vita è diventato sempre più gravoso per le famiglie, dando origine a quello che alcuni studiosi chiamano una “politicizzazione della disuguaglianza”. L’idea che l’accesso a servizi di base come la sanità, l’istruzione o le pensioni debba dipendere dalla capacità economica dei singoli sta perdendo terreno.
A partire dalla metà degli anni Duemila, la politica è sembrata passare dalle urne alle strade e si è scatenata un’intensa ondata di proteste, organizzate da nuovi movimenti sociali. Gli studenti delle scuole superiori e delle università hanno svolto un ruolo di primo piano nelle mobilitazioni, in parte guidate da programmi di redistribuzione e in parte da richieste di riconoscimento da parte di gruppi tradizionalmente discriminati, come le donne e le popolazioni indigene. Dopo oltre dieci anni di proteste, nel 2019 si è assistito a una “esplosione sociale” in cui sembravano convergere molti di questi programmi, raggruppati sotto il concetto chiave di “dignità”. Pur senza un’organizzazione o una proposta politica definita, le manifestazioni si sono concentrate sulla richiesta di maggiore protezione sociale, sull’ampliamento della partecipazione politica e sul rifiuto delle élite e dei partiti.
La “canalizzazione istituzionale” della mobilitazione si è tradotta in un processo costituente attraverso l’elezione di una Assemblea costituente nel maggio 2021, la cui composizione era molto frammentata, con una preponderanza di gruppi indipendenti che sostituivano i rappresentanti dei partiti tradizionali, e politicamente orientata a sinistra. La proposta di una nuova Costituzione, percepita come troppo riformista, è stata respinta dal 62% dei votanti in un plebiscito svolto nel settembre 2022. Nel dicembre dello stesso anno, nel pieno di un clima conservatore che condannava i disordini scaturiti dall’esplosione sociale del 2019 e invocava stabilità di fronte alla crisi economica e sicurezza pubblica nel post-pandemia, è stato avviato un nuovo processo costituente.
Nel corso del dibattito sulla nuova Costituzione si sono svolte, nel novembre 2021, le elezioni presidenziali e parlamentari. La destra ha ottenuto una leggera maggioranza al Congresso e ha prevalso al primo turno presidenziale con José Antonio Kast, candidato di un nuovo partito di estrema destra emerso nel 2019: il Partito Repubblicano. Al secondo turno, tuttavia, Kast è stato sconfitto dal candidato di sinistra Gabriel Boric. Nel maggio 2023 è stato eletto un nuovo organismo per redigere la Costituzione, ma questa volta i risultati sono stati opposti a quelli della prima Assemblea costituente. Le elezioni, sotto l’egida dei partiti politici, hanno orientato il nuovo Consiglio costituzionale verso una posizione più orientata a destra. La maggioranza dei seggi è stata conseguita dal Partito Repubblicano.
In sintesi, dalla metà degli anni Duemila il sistema politico cileno ha iniziato a penalizzare i partiti tradizionali, con l’affermarsi di nuovi contendenti, sia a sinistra che a destra. L’alternanza tra candidati presidenziali e assemblee costituenti agli opposti estremi dello spettro politico ha indotto molti analisti a concludere che in Cile si stia verificando una polarizzazione elettorale. I partiti più moderati, sia della destra tradizionale che del centro-sinistra che ha governato per la maggior parte dei primi 30 anni dopo il ritorno alla democrazia, sono risultati i più penalizzati.
Il contesto del 50° anniversario del colpo di Stato alimenta la tentazione di vedere il Cile di oggi attraverso la lente della polarizzazione che portò a un esito così drammatico negli anni ’70. Ma è davvero così?
La politologa Carolina Segovia ha condotto uno studio sulla polarizzazione – intesa come livello di rifiuto nei confronti di persone con idee politiche opposte alle proprie – in Cile tra il 1990 e il 2021. Le sue conclusioni, in linea con il lavoro del CERC-MORI sulla rilettura della storia alla luce del presente, è che la polarizzazione affettiva varia nel tempo. A livello aggregato, sottolinea Segovia, il calo dell’adesione ai partiti politici non ha alcun impatto sulla polarizzazione. Se nel 1990 le persone che si identificavano con i partiti di sinistra erano le più polarizzate, nel 2021 il livello è simile per tutti i gruppi, compresi quelli che non si identificano con i partiti. Prima del colpo di Stato, la situazione era decisamente diversa, con i partiti politici che canalizzavano le divisioni ideologiche della società.
Una caratteristica centrale dell’attuale politica cilena sembra essere l’atomizzazione. Di fronte al crollo nella capacità dei partiti di generare identificazione, il sentimento anti-istituzionale alimenta progetti di contestazione, come è accaduto con gli “indipendenti” e con i nuovi partiti di sinistra nella Convenzione costituzionale del 2021 e, successivamente, con la nuova estrema destra nel Consiglio costituzionale. In entrambi i casi ha prevalso uno spirito “destituente”. Il sociologo Rodolfo López ha analizzato i risultati delle elezioni del Consiglio costituzionale del maggio 2023. Nonostante il controllo dei partiti, lo studioso ha sottolineato che “il 71% dei nuovi candidati eletti non ha esperienza in posizioni di rappresentanza popolare, sia municipale sia parlamentare”, il che potrebbe essere spiegato dalla crisi generale della rappresentanza e dalla sfida alla politica istituzionale.
Democrazia sì, ma non questa democrazia
Nonostante la crescente polarizzazione, la negazione delle violazioni dei diritti umani e la politica “destituente”, continua a esserci un forte apprezzamento per la democrazia in quanto tale, come sistema politico. La richiesta di maggiore protezione sociale e maggiore presenza dello Stato si mantiene elevata nel tempo, richiedendo “riforme” che spetterebbe al sistema politico intraprendere. Così, ad esempio, il sondaggio “Chile Dice 2023” mostra un divario tra il sostegno teorico alla democrazia come regime, che raggiunge il 95%, e l’apprezzamento per la sua pratica effettiva, che raggiunge solo il 51%. Il 60% degli intervistati ritiene che l’autoritarismo sia giustificato in alcuni casi per combattere la criminalità o la corruzione. D’altro canto, il sondaggio Feedback-UDP indica che il recente sostegno al Partito Repubblicano antiabortista contrasta con il 75% degli intervistati, che si dichiara favorevole all’aborto e con la maggioranza che ritiene che lo Stato debba svolgere un ruolo principale o comunque condiviso con il settore privato nella fornitura di sanità, istruzione e pensioni. Meno del 10% pensa che lo Stato debba svolgere un ruolo minimo.
Il destino del nuovo processo costituente sarà deciso il 17 dicembre 2023, quando un plebiscito deciderà se approvare o respingere la nuova proposta, preparata da una commissione di esperti e modificata dal Consiglio Costituzionale a maggioranza di destra. Finora, le modifiche portate avanti dal Partito Repubblicano sono caratterizzate dall’assenza di negoziazione e da una prospettiva identitaria che “rende quasi impossibile sviluppare una discussione che preveda accordi trasversali”, secondo uno studio del conservatore Centro de Estudios Públicos. Ciò mette a rischio l’approvazione finale del testo che già, secondo diversi sondaggi, appare impopolare.
Molti analisti ritengono che in Cile la polarizzazione sia più marcata tra l’élite che nella popolazione in generale. Sebbene le critiche alla forma attuale di democrazia stiano crescendo, il sostegno popolare al regime democratico rimane saldo. Sono i “fallimenti della democrazia”, legati soprattutto a situazioni di corruzione e criminalità, a spingere una parte della cittadinanza verso l’accettazione di forme di autoritarismo. Tra le critiche al modo in cui la democrazia viene vissuta nella pratica, l’indagine “Chile Dice” evidenzia una chiara richiesta di maggiore partecipazione diretta alle decisioni politiche.
Il colpo di Stato, la fine della democrazia e le violazioni dei diritti umani durante la dittatura continuano a essere motivo di controversia politica in Cile. I tentativi di cambiamento costituzionale dell’ultimo decennio, le modifiche nel sistema partitico e la polarizzazione dei leader dei partiti hanno cercato “strumenti” in diverse letture della storia, per giustificare le proprie posizioni e polemizzare con gli oppositori. Con notevole cecità, queste dispute non riconoscono la crisi di legittimità dei partiti, e ignorano la richiesta trasversale di maggiori spazi di partecipazione politica e più elevati livelli di protezione sociale. Ristabilire il legame danneggiato tra società e istituzioni dovrebbe essere la priorità di tutte le forze politiche.
Fonte: Estudios de Política Exterior, 11 settembre 2023.