venerdì, Marzo 14, 2025
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Disegno di legge “sicurezza”: punto di non ritorno per lo Stato di diritto

Lo Stato di diritto è un principio fondamentale della democrazia costituzionale, basato sulla separazione dei poteri e sul rispetto della legalità. Tuttavia, negli ultimi anni, il rispetto di tale principio è stato messo in discussione, soprattutto in materia di immigrazione, asilo e “sicurezza”. Il potere discrezionale delle pubbliche autorità è notevolmente aumentato, mettendo in discussione i diritti fondamentali dei soggetti più vulnerabili, nonché i diritti di espressione, di manifestazione e di partecipazione. In questo contesto, il Disegno di Legge “Sicurezza”, recentemente approvato dalla Camera dei Deputati e ora in discussione al Senato, è stato criticato da organismi europei e internazionali perché violerebbe numerosi principi costituzionali e diritti fondamentali, tra cui la libertà personale, la libertà di espressione, il diritto a un giusto processo e l’autonomia della ricerca e della formazione universitaria: su quest’ultimo punto, è intervenuto anche il Rettore dell’Università di Pisa, criticando l’articolo 31 del provvedimento che impone a università ed enti di ricerca l’obbligo di collaborare con i servizi segreti (DIS, AISE e AISI) derogando alle norme che tutelano la riservatezza. Questi e altri contenuti problematici del Disegno di Legge sono stati affrontati in maniera analitica in un recente articolo pubblicato sul sito dell’Associazione Diritti e Frontiere (ADIF).

 

di Fulvio Vassallo Paleologo

 

Lo Stato di diritto come base della democrazia e il suo sovvertimento negli ultimi anni

Lo Stato di diritto è la base costitutiva della democrazia e si basa sul principio di separazione dei poteri e sul rispetto del principio di legalità, al quale devono piegarsi anche coloro che governano e le autorità amministrative, che devono agire sempre, nell’esercizio del potere, rispettando la legge, nell’ordine gerarchico delle fonti normative stabilito dalla Costituzione (art.117). L’ordinamento delle Nazioni Unite, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la Costituzione italiana, si basano sul riconoscimento di diritti fondamentali e di garanzie individuali, oltre che sui diritti di partecipazione, riconducibili allo Stato di diritto.

Nel corso degli anni la materia dell’immigrazione e dell’asilo, prima nel linguaggio dominante, poi con una serie di decreti legge, ha costituito il campo privilegiato per sperimentare e poi realizzare un completo sovvertimento di questo concetto, in materia di detenzione amministrativa, con riguardo ai soccorsi in mare, quindi nei casi più recenti delle procedure in frontiera. Con un aumento esponenziale della discrezionalità politica ed amministrativa, in nome delle esigenze di sicurezza pubblica e di “difesa dei confini”, che da slogan elettorali sono ormai diventati canoni interpretativi che arrivano ad orientare persino le scelte dei giudici. Come si sta cercando di fare, riuscendo a condizionare ambiti specifici della magistratura, in materia di “difesa dei confini, di soccorso in mare e di protezione internazionale”. Anche quando vengono lesi diritti fondamentali della persona e si viola palesemente il principio di uguaglianza davanti la legge. Ma per qualcuno la natura politica dell’atto lo sottrae a qualsiasi controllo giurisdizionale.

Eppure, anche l’atto politico, ed ancora di più i provvedimenti amministrativi, dovrebbero rimanere nell’alveo del principio di legalità. Se dunque esiste una norma che disciplina il potere, che ne stabilisce limiti o regole di esercizio, per quella parte l’atto è suscettibile di sindacato giurisdizionale. Con la sentenza n. 81 del 2012, la Corte costituzionale ha stabilito che gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto. Nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate.

 

Il DDL “sicurezza”: punto di non ritorno verso una “democrazia illiberale”

Il disegno di legge contenente “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario” (AC. 1660-A), che la maggioranza di governo si accinge ad approvare in via definitiva al Senato (AS.1236), contiene una serie di norme che violano lo Stato di diritto e i principi fondanti della democrazia, a partire dalle garanzie della libertà personale (art.13 Costituzione). Con altri provvedimenti di legge in corso di approvazione, come quelli sulla separazione delle carriere dei magistrati e sulla revisione costituzionale della forma Stato, si accrescono i poteri dell’esecutivo e degli organi centrali e periferici di polizia, a scapito dell’equilibrio dei poteri e delle garanzie democratiche fissate dalla Costituzione repubblicana.

Sul disegno di legge “sicurezza” si sono recentemente espressi l’OSCE, il Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa e, da ultimo, sei Rapporteur delle Nazioni Unite in materia di diritti umani con una lettera al governo italiano, resa pubblica il 16 gennaio scorso. Tra i diritti che verrebbero lesi dal provvedimento per effetto della introduzione di nuove fattispecie penali che fanno rinvio in sede di applicazione ad interpretazioni discrezionali, se non arbitrarie, il diritto alla libertà personale, la libertà di circolazione, il diritto di manifestare pubblicamente, fortemente compressi dai maggiori poteri attribuiti alle forze di polizia. Con previsioni che lasciano poco spazio ai controlli giurisdizionali.

La violazione di principi di rilievo costituzionale, come il principio di proporzionalità della pena, o la sua finalità rieducativa, caratterizza l’intero provvedimento in corso di approvazione al Senato, e si manifesta in campi diversi, dal diritto a un processo equo alla revoca della cittadinanza, dalla detenzione femminile, anche con minori, alla nuova formulazione della resistenza passiva, dalla ipotesi di occupazione di case al regime carcerario e persino alla disciplina dei soccorsi in mare. Si tratta di un disegno legislativo dirompente che segna il punto di non ritorno verso quello che si potrebbe definire “democrazia illiberale”, se non vero e proprio Stato di polizia. L’intervento del governo in materia di sicurezza è davvero a tutto campo, e va in ogni aspetto a limitare diritti di libertà, persino come la libertà scientifica e didattica, tradizionalmente riconosciuta nel principio di autonomia universitaria. L’articolo 31 del provvedimento, già approvato alla Camera, impone a università ed enti di ricerca l’obbligo di collaborare con i servizi segreti (DIS, AISE e AISI) derogando alle norme che tutelano la riservatezza, ed al principio di garanzia dell’autonomia della ricerca e della formazione universitaria.

 

Alcune previsioni del disegno di legge: potere discrezionale all’autorità di polizia e mancato rispetto dei principi costituzionali

L’articolo 8 del disegno di legge introduce modifiche al Codice Penale, per contrastare l’occupazione arbitraria di immobili adibiti a domicilio altrui. In particolare, il nuovo articolo 634-bis del codice penale punisce con la reclusione fino a sette anni chiunque, con violenza o minaccia, occupi o detenga senza titolo un immobile adibito a domicilio altrui, ovvero impedisca il rientro nello stesso immobile del proprietario o di chi lo detenga legittimamente. Come rileva l’OSCE, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, la nuova normativa non offre garanzie di un giusto processo, soprattutto perché un potenziale sfratto sembra possibile anche senza l’ordine preventivo di un tribunale, e non tiene conto delle circostanze personali dell’occupante e delle possibili ripercussioni sui legami sociali e familiari, inclusa la potenziale condizione di senzatetto.

L’articolo 10 del disegno di legge introduce nuove misure amministrative preventive, concedendo all’autorità di polizia il potere di limitare l’accesso alle infrastrutture di trasporto pubblico e alle relative strutture per le persone che sono state denunciate o condannate – nei cinque anni precedenti – per specifici reati minori contro la persona o la proprietà, come accattonaggio, ubriachezza, oltraggio al pudore e prostituzione. Come rileva l’OSCE“non c’è alcun riferimento alla supervisione giudiziaria. Inoltre, la sospensione della pena per questi reati è subordinata all’imposizione da parte del tribunale di un divieto di accesso alle aree in questione”.

L’articolo 11 del disegno di legge aumenta la pena amministrativa comminata a coloro che ostruiscono con il proprio corpo la libera circolazione del traffico su strada ordinaria, trasformando il già esistente illecito amministrativo in delitto penale, esteso anche ai casi di ostruzione di strada ferrata. Anche in questo caso si prevede una ampia discrezionalità da parte delle forze di polizia nella valutazione dei fatti concreti, e delle relative responsabilità, in contrasto con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che in diversi casi ha sottoposto a scrutinio la legittimità delle scelte restrittive della polizia. Secondo l’OSCE, “inasprire la severità della punizione non solo appare sproporzionato, ma potrebbe anche avere un effetto paralizzante sull’esercizio del diritto di libertà di riunione, e dovrebbe essere riconsiderato completamente”. La disobbedienza civile pacifica, nonviolenta, non può essere mai considerata come un reato.

L’articolo 14 del disegno di legge propone degli emendamenti agli articoli 336 e 337 del codice penale in materia di violenza o minaccia a pubblici ufficiali. Viene introdotta una circostanza aggravante per quei casi in cui la condotta prevista nell’articolo 336 (Violenza o minaccia a un pubblico ufficiale) e nell’articolo 337 (Resistenza a un pubblico ufficiale) del codice penale sia posta in essere proprio nei confronti di ufficiali e agenti di polizia o delle forze dell’ordine. Al riguardo l’OSCE richiama il principio dello Stato di diritto, e la “Rule of Law Checklist” della Commissione di Venezia, secondo cui “la Rule of Law richiede l’assoggettamento universale di tutti alla legge. Ciò implica che la legge deve essere applicata in modo uguale e attuata in modo coerente. L’uguaglianza, però, non è un mero criterio formale, ma deve concretizzarsi in un trattamento sostanzialmente uguale. Per raggiungere questo risultato, delle differenziazioni potrebbero dover essere tollerate, se non addirittura necessarie”. L’OSCE rileva tuttavia come “si dovrebbero prendere in considerazione sia tutte le circostanze attenuanti, che operano a favore dell’accusato, sia le circostanze aggravanti a sostegno di una pena più severa. Al momento, il disegno di legge manca di un meccanismo di bilanciamento delle circostanze del reato”. E in questa grave carenza si potrebbe riscontrare, in una prospettiva costituzionale, anche la violazione del principio della personalità della responsabilità penale (art. 27, primo comma, Costituzione).

 

Sanzioni detentive per i comandanti delle navi che disobbediscono agli ordini della Guardia di finanza: guerra ai soccorsi di migranti in acque internazionali

L’articolo 21 del disegno di legge propone di estendere l’applicazione di misure detentive nei confronti dei comandanti delle navi qualora non obbediscano agli ordini della Guardia di finanza impegnata in attività di prevenzione e contrasto al traffico di migranti via mare e all’immigrazione illegale. Come osserva l’OSCE, “le nuove sanzioni detentive proposte, applicabili al capitano di navi nazionali in caso di disobbedienza agli ordini di fermo della Guardia di Finanza o in caso di atti di resistenza, ed estensione delle sanzioni penali ai capitani di navi straniere per disobbedienza agli ordini di navi da guerra nazionali, rischiano anche di impattare ulteriormente e indebitamente sul lavoro delle organizzazioni umanitarie che conducono operazioni di ricerca e soccorso di migranti in mare”. Si tratta evidentemente dell’ultimo atto della guerra contro i soccorsi in acque internazionali operati in questi anni dalle ONG, dopo una raffica di procedimenti penali che si sono conclusi con provvedimenti di archiviazione delle accuse formulate, nella maggior parte dei casi, proprio dalla Guardia di finanza. Adesso, invece di accertare le responsabilità di chi ha oggettivamente rallentato con accuse calunniose i soccorsi civili in alto mare, si accrescono i poteri discrezionali per sanzionare i comandanti delle navi che svolgono attività di ricerca e salvataggio. L’obiettivo che si prefigura, allo stato attuale della collaborazione delle autorità italiane con guardie costiere di paesi che non rispettano i diritti umani, è la sanzione penale di quei comportamenti di “disobbedienza” dei comandanti delle navi che non vogliono riconsegnare ai libici o ai tunisini i migranti soccorsi in acque internazionali, come potrebbe accadere in futuro, se ricevessero un ordine in tal senso proveniente dalla Guardia di finanza. La stessa Guardia di finanza che nel 2009 riconsegnava ai libici decine di naufraghi soccorsi in acque internazionali, con un respingimento collettivo illegale che ha comportato nel 2012 la condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, nel caso Hirsi. Oggi si vuole aggirare quella condanna con i nuovi respingimenti collettivi delegati alle sedicenti guardie costiere libiche e tunisine, sotto la sorveglianza e il tracciamento di Frontex che opera, a sua volta, in diretto collegamento con la Guardia di finanza italiana.

 

Moltiplicazione dei reati e aumento delle pene: la deriva restrittiva del DDL “sicurezza” criticata a livello europeo

Il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa mette in rilievo criticità particolari in ulteriori norme dello stesso disegno di legge, come l’articolo 24, che introduce pene detentive per la “deturpazione” di edifici o beni di pubblica utilità; l’articolo 26, che introduce il reato di rivolta carceraria e l’articolo 27, che introduce il reato di rivolta in centri di detenzione per migranti. Si tratterebbe di previsioni normative che, secondo la lettera indirizzata al governo italiano, “introducono reati definiti in termini vaghi e includono altre severe restrizioni, creano spazio per un’applicazione arbitraria e sproporzionata, colpendo attività che rappresentano un legittimo esercizio della libertà di riunione o espressione pacifica. In particolare, prevedendo l’imposizione di pene detentive significative per la sola partecipazione a manifestazioni che potrebbero non essere state violente o aver causato danni, il disegno di legge S. 1236 impone restrizioni che potrebbero non essere coerenti con i requisiti della CEDU“. 

Malgrado tutto ciò il Disegno di legge C.1660 approvato alla Camera, è oggi in una fase avanzata di approvazione in Senato (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario – S.1236). Per il governo è l’ennesimo vessillo identitario, facilmente collegato con recenti casi di cronaca che hanno fatto presa sull’opinione pubblica, bersagliata da continui allarmi su attacchi generalizzati alle forze dell’ordine. Che rimangono invece incidenti assolutamente marginali rispetto alle diffuse violazioni dei diritti umani perpetrate da agenti di polizia tanto nei confronti di persone provenienti da altri paesi, quanto nei confronti di cittadini italiani, come se i casi Cucchi, Aldovrandi e tanti altri, o come se la situazione di abusi nelle carceri, da Santa Maria Capua Vetere a Sollicciano, e in altri istituti di pena, anche in Sicilia a Trapani, non fossero mai esistiti. Sono decine i casi di abuso nei centri di detenzione per i migranti, variamente denominati, che sono rimasti impuniti. Anche su questi fatti il Consiglio d’Europa aveva richiesto attenzione, ma la risposta del governo è stata soltanto in chiave repressiva nei confronti delle persone in stato di trattenimento amministrativo.

 

Violazione di norme internazionali, europee e costituzionali: lo “scudo penale” per i reati commessi da appartenenti alle forze dell’ordine

Secondo la lettera indirizzata da sei Relatori sui diritti umani delle Nazioni Unite, “se le norme contenute all’interno della bozza di decreto fossero approvate così come sono violerebbero una lunga serie di norme internazionali, tra le quali l’art. 9 (diritto alla libertà e alla sicurezza e la proibizione della detenzione arbitraria), 12 (diritto alla libertà di movimento), 14 (diritto a un giusto processo), 17 (diritto alla privacy), 19 (diritto alla libertà di espressione e opinione), 21 (libertà di riunione pacifica) e 22 (libertà di associazione) del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (ICCPR)“. Previsioni che ricorrono anche nella Costituzione italiana e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Preoccupa, infine, tutti i cittadini che si richiamano alla Carta costituzionale, ed al principio di uguaglianza sul quale si basa, la previsione di una nuova norma che permetterebbe alle forze di polizia di portare, anche fuori servizio e anche senza licenza, le armi di cui all’art. 42 del TULPS (Testo Unico sulla Pubblica Sicurezza), ovvero “rivoltelle o pistole di qualunque misura o bastoni animati la cui lama non abbia lunghezza inferiore a 65 cm”. Una misura che è assolutamente allarmante per la tenuta dello Stato di diritto in Italia, se si combina con i progetti di introdurre, dopo i casi ancora brucianti dell’uccisione di Ramy, a Milano, e di un giovane egiziano vicino Rimini, oltre al patrocinio legale gratuito, magari con un separato innesto legislativo, uno “scudo penale” che si vorrebbe applicare per i reati commessi da appartenenti alle forze dell’ordine, una misura che nella storia ha caratterizzato i regimi autoritari, se non vere e proprie dittature.

 

Considerazioni conclusive: il passaggio da uno Stato di diritto a uno Stato di polizia sostenuto da una propaganda social

Le manifestazioni popolari che hanno denunciato la portata repressiva del decreto sicurezza rispetto ai valori affermati nella Carta costituzionale, in molti casi ancora da realizzare e garantire in pieno, non sono riuscite a fermare l’iter di approvazione del provvedimento, perché gli attuali numeri della maggioranza non permettono neppure un qualsiasi intervento sugli emendamenti. Rimane la debole preoccupazione della Presidenza della Repubblica, ma il frastuono propagandistico che circonda il Presidente del Consiglio, alla vigilia del suo viaggio per la ”incoronazione” del nuovo presidente americano Trump, unica esponente di spicco dei governi dell’Unione europea, e le voci ancora divise di una opposizione sempre più in difficoltà, non hanno dato chance di sbocco istituzionale alla diffusa protesta popolare. È assai probabile che, dopo le consuete scaramucce interne alla maggioranza, anche questo provvedimento, eversivo dell’assetto costituzionale, possa diventare legge. Ed è altrettanto evidente il rischio attuale che il governo riesca a mettere le mani sui vertici della magistratura. Un rischio già emerso nelle più recenti decisioni di alcuni Tribunali e della Corte di Cassazione, in materia di “difesa dei confini” e di nuove procedure di asilo e detenzione alle frontiere. Un rischio di involuzione anti-democratica che diventa certezza, se il governo riuscirà a fare nominare dal Parlamento “suoi” nuovi giudici in Corte costituzionale, in modo da garantire una copertura totale a provvedimenti di legge gravemente discriminatori che si stanno sommando uno dopo l’altro. È un tempo nel quale non è dato di interrogarsi se la difesa della Costituzione nata dalla Resistenza contro il fascismo abbia ancora possibilità di successo. Non rimangono molte possibilità, mentre ritorna una nuova strategia della tensione, salvo forse i futuri Referendum che il Parlamento potrebbe ancora scippare al voto popolare, sempre che i capillari canali di comunicazione di cui dispongono le forze di governo non riescano a fare scomparire anche questa battaglia per la democrazia.

Al di là delle misure di stampo più marcatamente repressivo, che piuttosto che rafforzare la “sicurezza” all’interno degli istituti penitenziari, potrebbero fare esplodere le carceri, per la moltiplicazione dei reati e l’aumento delle pene, la minaccia più grave per il principio di legalità nello Stato di diritto, in Italia, proviene da una informazione maggioritaria, diffusa soprattutto attraverso i social, che tende a spegnere la coscienza critica e la memoria storica, allena al conformismo ed al pensiero subalterno, in modo da ridurre il conflitto sociale e la partecipazione dei cittadini. Perché è proprio sulla base del consenso incanalato sistematicamente verso la legittimazione dell’abuso di potere, se riguarda qualcun altro, individuato come capro espiatorio, che si lacera, ben oltre le norme approvate o da approvare in Parlamento, il tessuto democratico dello Stato.

Allo Stato di diritto si contrappone lo Stato di polizia, che può assumere forme diverse anche in base all’evoluzione tecnologica. La transizione non è necessariamente un evento improvviso e dirompente, come si può verificare in occasione di un colpo di stato, ma può essere frutto di un processo lento ed apparentemente innocuo, per la maggioranza dei cittadini, soprattutto in tempi di rovesciamento della realtà dei fatti e di distacco dalla partecipazione politica, con il prevalere delle spinte individualistiche più estreme. È il tempo che stiamo vivendo. Nella storia pace e democrazia sono stati tempi di intervallo tra periodi più lunghi di guerre e oppressione. Un popolo che non si batte più per la solidarietà e per l’uguaglianza, incapace di reagire alla saldatura tra i grandi gruppi monopolistici e gli imprenditori politici della paura, è condannato a subire l’involuzione autoritaria, necessaria per garantire una distribuzione della ricchezza sempre più ingiusta. La “sicurezza” che si spaccia per propaganda corrisponde alla più totale insicurezza per il futuro, per intere generazioni, con la fine della democrazia.

 

Fonte: ADIF, 19 gennaio 2025.

 

Fulvio Vassallo Paleologo è avvocato, componente del Collegio del Dottorato in “Diritti umani: evoluzione, tutela, limiti” presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Palermo. Opera attivamente nella difesa dei migranti e dei richiedenti asilo, in collaborazione con diverse Organizzazioni non governative. Fa parte della rete europea di assistenza, ricerca ed informazione Migreurop ed è componente della Campagna LasciateCientrare.