giovedì, Dicembre 26, 2024
Cultura

Il Diario di Pietro Calamandrei

di Andrea Panzavolta

 

Diario è il sobrio titolo sotto cui sono state pubblicate nel 2015, per le Edizioni di Storia e Letteratura, le annotazioni e i commenti a margine degli accadimenti giornalieri che Piero Calamandrei redasse dall’aprile 1939 fino al febbraio 1945. Probabile svista dei curatori, perché lo stesso autore aveva proposto, nell’eventualità che le sue pagine fossero pubblicate a guerra finita, un titolo assai più significativo che bene compendia la cifra di quegli anni abnormi e cioè Descrizione della peste. Scrive Calamandrei che intende fornire «una specie di diagnosi di questa nostra malattia. Non i grandi sintomi, ma i piccoli, questo avvelenamento della vita vissuta, in tutti i minuti: le radio, i giornali, le angosce della radio inglese, questo capovolgimento morale di tutti, e poi questa indifferenza della gente perbene ai mostruosi delitti che si compiono d’intorno a noi. […] Questa è una malattia, bisogna studiarla» (19 novembre 1941).

Sei anni dopo Albert Camus sfrutterà la potenza evocativa della parola ‘peste’, scegliendola quale titolo del suo romanzo più famoso. Se questi avesse potuto leggere il Diario di Calamandrei di sicuro ci avrebbe trovato un idem sentire sia per quanto riguarda l’origine e la successiva diffusione della malattia infettiva (provocate, come si è letto sopra, dall’indifferenza morale e dall’anchilosi dello spirito, dalla rinuncia al giudizio critico e dal progressivo avvelenamento delle parole), sia per quanto riguarda la sua terapia (una lotta indomita condotta sotto il segno di un umanesimo integrale). Tanto in Calamandrei quanto in Camus il fascismo e il nazismo, più che come accadimenti storici di cui occorre studiare sine ira et studio la nascita e le cause (compito, questo, che esula dalle loro competenze e dai loro interessi), sono visti come una tabe dell’anima, come un modo di odiare, anzi forse come la quintessenza del modo di odiare.

Anche se Calamandrei non conosceva ancora l’abominio dei campi di sterminio quando stendeva il suo Diario (a partire dall’ultimo scorcio del 1943, però, si infittiscono le testimonianze di reduci che parlano di orrendi crimini compiuti dai nazisti nei ghetti delle città polacche e dagli ustascia nei paesi della Jugoslavia), è sufficiente tuttavia il mero elenco dei soprusi e dei crimini commessi dai fascisti e poi dai tedeschi durante l’occupazione per rendersi conto dell’intima depravazione di quelle ideologie. Le osservazioni poste a margine della decomposizione dell’Italia fascista possiedono una grandezza tacitiana per la potenza descrittiva, per la finezza delle analisi psicologiche, per l’austera politezza dello stile e sopra ogni altra cosa per i rovelli angosciosi sul destino del Paese. Dalla megalomania del Duce, «Cesare di segatura» e «re da burattini», al narcisismo di Achille Starace, dalla compiaciuta brutalità di Alessandro Pavolini alle mollezze di Edda Ciano, dalla sfrenata ambizione dei gerarchi al servilismo dei professori universitari fino alla bovina condiscendenza della gente comune, il Diario traccia una compiuta e impudica tassonomia dei mali prodotti dal fascismo: «La tragedia generale dell’Italia è proprio questa generale putrefazione morale, questa indifferenza, questa unica vigliaccheria che va diventando sistema. […] Faccio il mio comodo, penso alla salute, e me ne frego dell’onestà: programma del tempo di Mussolini» (23 novembre 1939).

Pagina dopo pagina, anno dopo anno, il lettore assiste alla lenta morte della patria, la quale è suggellata dalla distruzione delle città e dei borghi italiani, la cui bellezza trascende il dato meramente urbanistico per farsi visione compiuta dell’Umano e promessa di eternità. Prima del fascismo chiunque avesse bombardato Roma sarebbe stato giudicato reo della peggiore barbarie, ma la propaganda mussoliniana, con i suoi tonitruanti proclami e la sua gonfia retorica, aveva fatto venire in uggia i monumenti dell’Urbe, tanto da suscitare nel vero patriota questo duplice e irriducibile sentimento, da una parte lo strazio dinanzi alla distruzione delle vestigia romane e dall’altro la miserabile gioia di vedere polverizzati i simboli stessi di quel potere di cartapesta. Dopo aver avuto notizia della prima incursione aerea su Roma da parte degli Alleati avvenuta il 19 luglio 1943, Calamandrei scrive una delle sue pagine più sofferte e graffianti: «Penso allo sdegno di Carducci, o anche a quello del mio babbo, se potessero vivere questo periodo di incursioni aeree sui ruderi romani. Ma sono vent’anni che il fascismo lavora a farceli venire a schifo, questi ruderi romani: e c’è riuscito. Questa Roma di stucco e di cartone che da vent’anni ci infliggono nell’oratoria, nella terminologia (il littorio, oh il littorio! e l’Urbe, e i triari, e i seniori e il duce e così via), nell’architettura, nel passo romano. Le legioni, le quadrate legioni… auff! Tutto finalmente crolla e le legioni alzano bandiera bianca» (23 luglio 1943). Qualche mese più tardi la morte della patria sarebbe stata definitivamente certificata. Ma forse – questo pare di intendere dalle pagine del Diario – l’Italia non morì l’8 settembre 1943, bensì quando i cittadini divennero servi pavidi, quando il principio di nazionalità si corruppe in rancido nazionalismo e il «debito amore» per la patria degenerò in aggressiva negazione delle altre patrie (impossibile non provare un misto di amarezza e disgusto allorché si leggono le parti relative all’aggressione italiana alla Grecia). La patria, infatti, più che biologia o geografia, è cultura. Calamandrei non ha difficoltà a riconoscere lo statuto di patrie a quelle nazioni che, pur definite nemiche dal regime, sono però una parte costitutiva della sua identità per la lunga frequentazione che egli ha con i loro letterati e artisti: il 2 giugno 1939 si spinge addirittura ad affermare che, qualora l’Italia fosse entrata in guerra al fianco della Germania, egli avrebbe voluto comandare «un battaglione a difesa di una piazza marina, per avere il gusto di arrendermi alle navi francesi o inglesi: alle navi della mia patria».

Nei primi mesi del 1944, quando infuria la «guerra civile» (è lo stesso Calamandrei a usare questa espressione, che sarà poi ripresa e sviluppata mirabilmente da Claudio Pavone nel suo omonimo, controverso saggio), il diarista intravede che, se vi è una possibilità di riscatto e quindi di rinascita della patria, questa è affidata solamente a coloro che stanno prendendo parte attiva alla lotta di Liberazione. Scrive l’autore in data 28 marzo 1944: «Ohimè, ohimè, che cosa dà l’Italia per redimersi […]? I giovani operai e studenti che per vent’anni si sono fatti imprigionare: i confinati, i condannati; e ora questi giovani ingenui, i nostri figliuoli, che a rischio della vita si danno alla macchia come “ribelli” o preparano nella città la riscossa» (ci piace scorgere in queste righe il germe musicale che esploderà nell’allegro con fuoco con cui si conclude il memorando Discorso sulla Costituzione tenuto da Calamandrei agli studenti di Milano il 26 gennaio 1955: «Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra costituzione»). Ma poi subito dopo aggiunge un’osservazione che, pur riaffacciandosi con regolarità nel corso del Diario, trova qui la sua più drammatica formulazione: «Ma noi, noi della nostra generazione; che vergogna, tutte le recriminazioni verbali nelle quali sfogheremo, appena sarà possibile, la nostra amarezza!».

Ed eccoci giunti all’altro grande tema del Diario che, azzardiamo, probabilmente sta alla base della sua stessa stesura, quasi l’autore avesse cercato in esso consolazione dall’intimo dissidio che non cessò mai di angustiarlo: il dramma della patria perduta forma un tutt’uno con il dramma personale di un finissimo giurista e di un raffinato intellettuale che è stato, sì, antifascista fin dalla prima ora, ma standosene, per così dire, al balcone. Il suo nome, infatti, non compare nel canone dei docenti universitari – di quei «fortunati pochi», per citare le parole di Enrico V – che nel 1931 si rifiutarono di prestare giuramento al fascismo e acconsentì, sia pure per difendere la tradizione romanistica contro gli eccessi del diritto libero germanico, di partecipare alla commissione, voluta dal Guardasigilli fascista Dino Grandi, che mise a punto il Codice di Procedura Civile rimasto sostanzialmente invariato fino a oggi. Il nicodemismo di Calamandrei fu quello di tanti altri intellettuali che, pur disprezzando il regime e i suoi mostruosi saltimbanchi, non ne denunciarono apertis verbis la natura oppressiva. È nota la lettera che Norberto Bobbio, dopo essere stato arrestato insieme ad altri esponenti della rivista La Cultura, scrisse al Duce per chiedergli che non gli fosse inflitta un’ammonizione che avrebbe compromesso la sua carriera universitaria. E giova richiamare ciò che il grande filosofo torinese scrisse su La Stampa nell’editoriale del 16 giugno 1992 dopo che il settimanale Panorama pubblicò quella lettera, perché di sicuro sarebbe stato condiviso da Calamandrei: «La sento, quella lettera, oggi, naturalmente, come una colpa. Ma era una colpa anche allora, e non è possibile che non l’abbia avvertita come una colpa nel momento stesso in cui la scrivevo. Se bastasse il pentimento a cancellarla, ora mi sentirei assolto di fronte e me stesso. Ma il pentimento non basta. La vita di un uomo è un insieme di atti che si legano indissolubilmente l’uno all’altro, e deve essere giudicata non nel suo insieme – sarebbe troppo comodo – ma atto singolo per atto singolo. Le colpe sono incancellabili e un giorno all’altro si pagano. Ed è giusto che si sia chiamati, in qualsiasi momento, a renderne conto».

Le ultime pagine del Diario – Firenze nel frattempo è stata liberata – riportano per lo più un elenco di appuntamenti professionali e politici: dopo tanta inattività ora è il momento dell’azione. È avvertibile tuttavia il sospetto che questo eccesso di impegni serva, se non a scotomizzare, almeno a smussare un poco un senso di colpa che egli dovette avvertire assai gravoso fino alla fine dei suoi giorni. Probabilmente senza di esso Calamandrei non sarebbe mai divenuto il più grande aedo della Resistenza italiana: nelle vibranti, appassionate orazioni che egli tenne per commemorare il martirio di tanti innocenti, riunite poi nel volume Uomini e città della Resistenza, si percepisce un assunto di fondo, quello per il quale a scegliere l’evangelica «parte migliore» che mai sarà tolta furono soltanto coloro che senza mezze misure si opposero a un regime criminale, sacrificando la professione (per tutti valga l’esempio, già richiamato, dei dodici professori che non giurarono fedeltà al Duce), la giovinezza (come Vittorio Foa e Massimo Mila) e persino la vita (come Leone Ginzburg). Rispetto a questi autentici testimoni gli altri, come Piero Calamandrei, vengono dopo, ma molto, molto dopo.

 

Andrea Panzavolta è giornalista pubblicista. Collabora alla rubrica “Film in discussione” di Iride. Filosofia e discussione pubblica, e ad alcune riviste di critica cinematografica. Dal 2014 è il direttore artistico della rassegna concertistica forlivese “Passioni in musica”.