venerdì, Aprile 26, 2024
CulturaDirittiGeneri

Corpi e identità femminili, dal Subcontinente indiano all’Italia

Intervista a Katiuscia Carnà e Sara Rossetti a cura di Chiara Magneschi

 

Quali sono il senso e il ruolo della cura del corpo in alcune delle molteplici e differenti comunità di cui si compone il Subcontinente indiano? E qual è, su tali pratiche estetizzanti, l’influenza di regole sociali e religiose nonché, più in generale, dei presupporti culturali?

Sono queste le domande di partenza che hanno motivato Katiuscia Carnà e Sara Rossetti a sviluppare la loro ricerca, contenuta nel volume Corpi e identità. Donne dal Subcontinente indiano all’Italia, pubblicato da Villaggio Maori nel 2021. Nell’intraprendere questo percorso, le autrici hanno adottato una metodologia etnografica, dando voce a donne bangladesi, indiane, pakistane, srilankesi. Da questi dialoghi-interviste è emerso chiaramente che le pratiche di bellezza, in tali formazioni culturali, rappresentano dei rituali complessi dotati d’un forte valore simbolico e di un ruolo importante nella strutturazione dei rapporti sociali.

Se, da una parte, il desiderio di abbellirsi si presenta quasi come un moto spontaneo, dall’altra parte esso si trova assoggettato ai canoni estetici della comunità di riferimento, canoni che impongono o favoriscono gesti e posture consoni a determinate aspettative sociali. L’autodeterminazione estetica femminile, insieme alla volontà individuale, ne risulta fortemente compressa, tanto da far domandare alle autrici quanta libertà di scelta rimanga effettivamente alle donne.

In questo contesto, lo sguardo del sesso opposto gioca un ruolo fondamentale: emerge un ruolo egemonico maschile e con esso anche le asimmetrie di genere, a cui la ricerca dedica ampio spazio. Scopo della ricerca, in effetti, era anche quello di mostrare le tensioni generate, nelle donne emigrate in Italia, dall’incontro/scontro fra la cultura di origine e quella del paese di arrivo, il quale dà vita, a sua volta, a viaggi introspettivi e delicati percorsi di (ri)definizione identitaria.

Osservano le autrici che “per alcune ragazze delle seconde e terze generazioni di emigrati in Italia accettare il proprio corpo è un processo spontaneo; per altre si tratta di coniugare i canoni estetici della propria comunità di riferimento con le proposte di canoni estetici diffusi su scala globale e post-moderna. Sono queste ultime, le donne del subcontinente indiano che possiamo indicare come glocalizzate”. L’estetica si pone, quindi, come uno degli elementi chiave che problematizzano e veicolano il contatto e la reciproca influenza tra culture locali e culture globali.

 

Com’è nata la vostra ricerca?

La ricerca nasce da una nostra prima indagine condotta sulle donne del Bangladesh a Roma, pubblicata nel 2018. Ci siamo accorte, nel corso del lavoro sul campo, quanto fosse importante il ruolo della cura del corpo e della bellezza. Così, nella nostra seconda collaborazione, abbiamo deciso di continuare su questa linea e approfondire l’aspetto dell’esteriorità: questa scelta ha poi portato con sé l’approfondimento di una serie di aspetti sociologici, antropologici e storici di grande interesse. Da qui abbiamo pensato di ampliare il nostro sguardo a tutto il Subcontinente indiano: un’area che, per motivi storici, presenta un substrato comune ma che, allo stesso tempo, presenta una sua tipica e marcata eterogeneità.

 

Nel vostro libro ricordate che “la cultura, intesa come sistema ordinato di apprendimento e di costruzione di determinato patrimonio genetico di acquisizione […], da sempre condiziona il modello di bellezza ‘prescelto’ in una determinata epoca storica di riferimento”. Come si interseca la “questione estetica” con le culture prese in esame dalla vostra ricerca?

La questione estetica si interseca con tutte le culture, intendendo per cultura tutto quello che in un determinato momento, partendo da un passato di stratificazioni, caratterizza un contesto e una società. Per quanto riguarda il Subcontinente indiano, possiamo parlare di un substrato comune e di molte culture differenti, per esempio quelle religiose. Ancor più della questione estetica, a intersecarsi molto con le culture di riferimento è la condizione femminile, l’idea che si ha del corpo della donna e quindi, inevitabilmente, del suo apparire. Proprio per rendere al meglio l’importanza di questo aspetto abbiamo dedicato nel libro grande spazio alle religioni e alla storia, per meglio comprendere come il tema dell’estetica corporea coinvolga aspetti tutt’altro che superficiali, che variano nel tempo.

 

Quanto le religioni influiscono sull’esteriorizzazione femminile, nel Subcontinente indiano ma soprattutto nella diaspora?

Le religioni influiscono molto nella vita quotidiana di ogni persona, sia nel paese di origine ma soprattutto nella diaspora, perché la religione rappresenta un elemento identitario importante e fondamentale specie per coloro che emigrano. Abbiamo conosciuto donne non particolarmente praticanti nel paese di origine ma che hanno cominciato ad esserlo solo una volta giunte in Italia, quasi come un “rifugio identitario” nel quale ritrovare le proprie origini, la propria comunità e la propria tradizione.

Questo aspetto prevale anche nell’esteriorizzazione, così pure specificamente nella bellezza e nella cura del corpo: è anche nelle religioni che vengono date delle prescrizioni importanti rispetto al proprio corpo, alla bellezza fisica e spirituale. In particolare, sono due le religioni che sembrano influenzare le scelte della donna anche nella diaspora.

La prima è l’Islam, rilevante soprattutto per la questione del velo (se indossare il velo, o il turbante, di quale tessuto e con quale modalità) e, più in generale, per la ricerca di un abbigliamento capace di conciliare le esigenze religiose, il rispetto della propria identità e tradizione con le proposte della moda “made in Italy”. Al di là della scelta se indossare o meno il velo, ogni donna si trova quotidianamente di fronte a “mediazioni estetiche” da compiere.

L’altra è la religione Sikh, diffusa nella regione nord-ovest dell’India, nella quale l’uso del turbante (uno dei 5 simboli, i cosiddetti 5 kakkar) è previsto sia per gli uomini che per le donne. Le donne che decidono di indossarlo sono i netta minoranza, ma il loro diventa quasi un gesto di resistenza politica e identitaria, anche in ricordo del genocidio del 1984. Interessante notare che le nuove generazioni non hanno vissuto direttamente questo evento, ma ne sono a conoscenza attraverso i racconti dei familiari.

La scelta anche del make up, halal per esempio, o di non truccarsi affatto come avviene per alcune donne Sikh che scelgono di non radersi e di lasciarsi totalmente al naturale, influiscono fortemente sulle modalità con cui le donne si mostrano negli spazi pubblici ed esaltano la loro bellezza. Quindi la religione non rappresenta più quello spazio intimo in cui la donna credente semplicemente sceglie di rifugiarsi, ma coinvolge vari ambiti della vita quotidiana: non solo privata ma anche pubblica e collettiva, non solo personale ma anche familiare e coniugale. In questo modo i confini tra privato e pubblico, tra cultura/religione e tradizione vengono ridefiniti.

Questo è quanto abbiamo registrato in generale, nel Subcontinente Indiano. Occorre sempre tenere presente, però, che se alcuni elementi culturali sono trasversali e diffusi, essi si differenziano sempre a seconda delle varie religioni e località di riferimento.

 

Quale ruolo ha la cura quotidiana di sé, per queste donne, nella (ri)costruzione della propria identità nell’ottica del raggiungimento di un’uguaglianza di genere o quantomeno di sottrazione al dominio maschile?

Sicuramente la crescita personale “al femminile” va vista alla luce di categorie diverse da quelle occidentali, così come quando si parla di uguaglianza di genere e di fenomeni di patriarcato, dobbiamo pensare che si tratta spesso di donne che non sono abituate a pensare secondo le nostre stesse categorie. La stessa decostruzione del patriarcato va vista secondo modelli diversi dai nostri.

I modelli identitari trasmessi alle giovani donne sono spesso quelli di un sistema fortemente patriarcale, dal quale non è facile allontanarsi. Nulla di nuovo. Basta pensare a molte donne italiane di due o più generazioni fa, specialmente in contesti rurali: quando riuscivano effettivamente a decostruire e a ricostruire la propria identità in un’ottica di uguaglianza di genere? Le nuove generazioni stanno sicuramente intraprendendo un lungo percorso di consapevolezza, che getta ponti intergenerazionali tra le diverse formazioni culturali. Le donne bangladesi e indiane che sono in Italia da più tempo, ad esempio, hanno cominciato a formare associazioni per lottare contro le disuguaglianze di genere, ma non è così facile e immediato: c’è tanto lavoro da fare, soprattutto fino a quando la donna sarà dipendente economicamente dalla figura maschile.

 

C’è spazio per una valorizzazione estetica autonoma e “personale”, cioè non riferita a modelli tradizionali, precostituiti secondo uno sguardo maschile, e che vada oltre la “retorica del canone”?

C’è un modello precostituito, sia estetico che comportamentale, che viene elaborato in una dimensione collettiva e che viene poi definito a livello personale, attraverso “linee guida” tracciate in base all’educazione familiare ricevuta. Sono modelli precostituiti che difficilmente possono essere decostruiti: occorrono generazioni prima che questo avvenga. Ci sono comunque eccezioni, seppur poco visibili: pensiamo alla “non presenza” di donne lesbiche, che sembrerebbero andare oltre le norme di un canone estetico e morale precostituito.

 

Che legame c’è tra esteriorizzazione della bellezza e appartenenza identitaria?

Il legame identitario è fortemente connesso all’esteriorizzazione dei corpi e questo spesso traspare, specialmente sul pianodelle simbologie religiose. Nella nostra ricerca parliamo di simbologie religiose e/o di abiti associati alla sfera religiosa, come il velo e il turbante, che identificano le donne. Queste intendono spesso identificarsi volontariamente in una determinata tradizione religiosa: spesso tale credo permette loro di rifugiarsi e sentirsi protette all’interno di una società diversa da quella di origine.

 

Questo nesso è diverso a seconda che le donne vivano nel paese di origine oppure nella diaspora?

Almeno nella nostra esperienza, l’esteriorizzazione è più evidente nel contesto della diaspora, laddove il sentimento identitario necessita spesso di rafforzarsi, proprio perché vengono meno altre certezze identitarie legate alle tradizioni delle proprie origini, alla trasmissione e all’educazione familiare. Al tempo stesso, questo fenomeno non ci risulta essere particolarmente diffuso nelle nuove generazione, nate e/o cresciute in Italia.

 

Nel libro affrontate il tema della cura estetica di sé nelle varie fasi della vita. In particolare, dedicate ampio spazio al momento del matrimonio. Quale ruolo gioca in questo contesto la “performance” fisica?

Il matrimonio costituisce una tappa importante, se non fondamentale, nella vita di una giovane donna nata e cresciuta nelle comunità del Subcontinente indiano. Ciò perché qui la donna ha ancora un ruolo predestinato: di moglie e madre. Venire meno a tale ruolo può essere considerato un “oltraggio” alla famiglia stessa e causare “disonore”. Ci sono famiglie che si indebitano pur di far sposare le proprie figlie con buoni pretendenti. Sebbene esistano matrimoni d’amore, la pratica dei matrimoni combinati, stabiliti a tavolino dai genitori, esiste tanto nel paese di origine quanto nella diaspora.

Le variabili che decidono la destinazione coniugale della donna sono molte, dal titolo di studio al colore della pelle, preferibilmente chiaro, allo status sociale della famiglia. Per il ragazzo, ciò che conta maggiormente è la capacità di poter mantenere la famiglia. Nei matrimoni celebrati nei paesi d’origine un uomo che vive in Occidente ha un “valore” maggiore: l’immaginario vuole che la futura sposa un giorno si ricongiungerà allo sposo, potendo godere di un tenore di vita più elevato. Anche se poi la vita all’estero non sempre corrisponde a quanto sperato o immaginato.

 

Cos’è il “colorismo” e perché continua a essere un tema problematico?

La maggioranza delle donne intervistate ci ha parlato di quanto il colore della pelle sia ancora importante sul “mercato matrimoniale” e nella definizione dei canoni di bellezza: una donna viene considerata bella se ha la pelle chiara. Nel Subcontinente indiano, come anche altrove – pensiamo agli Stati Uniti, all’America Latina, all’Africa, all’Asia meridionale – il “colorismo” resta una questione aperta e complessa, che trae origine dal colonialismo e da una visione che vede nell’uomo bianco (e uso volutamente “uomo”, perché non si tratta di un discorso sovrapponibile tra i generi) lo standard, ciò che è considerato “normale”, ha un forte potere normativo: è ciò a cui si deve tendere a somigliare.

Dopo l’assassinio di George Floyd e la ripresa di un vasto movimento antirazzista intorno a Black Lives Matter, il tema del “colore” come fonte di discriminazione e dominio sociale è tornato di attualità in molte parti del mondo. Proprio nell’ultimo anno, in India, sono stati ritirati dal mercato vari prodotti cosmetici schiarenti, molto noti e diffusi, di cui le donne ci avevano parlato. Nella vita dei singoli e delle singole, ciò ha un’importanza rilevante. Tutto, nel Subcontinente, parla di bianchezza: dalla famiglia ai media. Spesso le giovani donne si trovano a dover resistere anche a questo genere di pressioni.

 

Nel libro parlate anche di donne “glocalizzate”. Quale ruolo giocano per le donne con un background migratorio, di seconda e terza generazione, i canoni estetici della cultura di arrivo nella costruzione e nell’accettazione della propria identità?

È una questione cruciale. Sono state proprio le donne più giovani ad aprirci un mondo sincretico e, allo stesso tempo, estremamente conflittuale. Alla domanda non esiste quindi una risposta unica, ma tante risposte complesse e in parte – oseremmo dire – senza risposta. Per molte ragazze riuscire ad amalgamare i canoni estetici delle due culture diventa un problema sentito ma difficile, che mette in gioco le identità eterogenee e il loro stesso stare al mondo. Sentirsi osservate, giudicate, il tutto sempre da due mondi differenti, è una vera sfida. Non si possono abbandonare le origini, ma non si può neanche ignorare la società in cui si vive che, nel caso dei paesi occidentali, è anche quella che “predomina” nel mondo globalizzato e nella conseguente definizione di canoni, anche estetici. Molto spesso le ragazze vivono forti conflitti, dai quali riescono a emergere mescolando e rinegoziando le diverse identità.

 

Quali similitudini e quali differenze avete colto tra le diverse generazioni di migranti, quanto al mondo di concepire cura, bellezza, forme di esteriorizzazione di sé?

Fin dalla genesi della ricerca abbiamo individuato nei rapporti tra generazioni un punto nodale, a noi particolarmente caro. Avevamo in mente proprio di raccontare come le pratiche “estetiche” venissero trasmesse, modificate o abbandonate, alla prova del passaggio generazionale e delle migrazioni. Anche in questo caso, le risposte che abbiamo ricevuto sono state varie e complesse, e tale elemento di complessità ha valorizzato la nostra ricerca.

Le giovani donne con un vissuto migratorio familiare, dopo una prima fase di rifiuto, spesso si riappropriano di pratiche e abbigliamento tradizionali, ma declinandoli a seconda delle proprie attitudini, di frequente anche in ottica professionalizzante. Le madri e le nonne rimangono più legate a una presunta autenticità delle tradizioni. Abbiamo però incontrato madri e figlie che, insieme e nella stessa misura, riescono a mescolare tradizione e innovazione, Subcontinente e Italia. Quello che è emerso è il valore della cura nella trasmissione di saperi “al femminile”: le più giovani si rammaricano di non riuscire più ad applicare prodotti tipici e a replicare pratiche dei paesi d’origini per i propri figli e le proprie figlie, come avevano fatto le madri con loro. E questo non solo per un discorso legato ai benefici di tali pratiche, in termini di bellezza e/o salute, ma in un’ottica di cura, allo scopo di dedicarsi all’altro/a e di condividere insieme momenti e affetti.

 

Quale ruolo svolgono i social media nella vostra ricerca e in questi complessi processi di ridefinizione identitaria “al femminile”?

I social media hanno avuto un ruolo fondamentale, sia nella costruzione della nostra ricerca, che nel fornire un nuovo strumento di analisi dei vissuti personali e collettivi.

Nata e condotta durante il primo lockdown del 2020, la nostra indagine ha tratto giovamento dalla possibilità di diffondere sui social le nostre richieste, relativamente alla ricerca di donne da intervistare. Le interviste stesse si sono svolte online.

Per quanto riguarda gli aspetti più strettamente legati alle tematiche di ricerca, abbiamo osservato come le immagini e la presenza sui social media siano funzionali al progetto migratorio. Le donne (e non solo loro) condividono immagini della loro vita in Italia per tranquillizzare chi è rimasto nel paese d’origine relativamente alla buona riuscita della migrazione e al mantenimento delle tradizioni. Le migranti condividono sovente fotografie scattate durante festività laiche o religiose tradizionali, durante le quali indossano vistosi abiti tradizionali: questo per dimostrare quanto non si stia abbandonando la cultura d’origine.

 

Chiara Magneschi avvocata, ricercatrice aggregata al Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace” e docente a contratto in Teorie giuridiche e politiche e diritti umani presso il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa.