giovedì, Novembre 21, 2024
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COP26: perché è un evento di importanza globale?

La COP, ovvero Conferenza delle Parti, in corso a Glasgow è costituita dalle 197 nazioni che hanno aderito alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Dal primo incontro della COP, tenutosi a Berlino nel 1995, siamo arrivati alla 26ª edizione. Il vertice globale sul clima, molto atteso anche perché è il primo dopo lo scoppio della pandemia, è l’occasione per definire gli obiettivi e le politiche da implementare per evitare gli effetti più devastanti e irreversibili della crisi climatica: la decisa riduzione delle emissioni; la salvaguardia delle comunità e degli habitat naturali; la mobilitazione dei finanziamenti per sostenere la transizione ecologica, la collaborazione tra gli Stati e con la società civile. La COP è una macchina complessa e fragile, che funziona solo con il consenso di tutti i paesi e con impegni stringenti da parte dei principali responsabili della crisi climatica: in attesa di fare un bilancio del vertice, proponiamo questo articolo apparso su National Geographic Italia per chiarire quali sono le dinamiche, le sfide e gli ostacoli della COP26.

 

di Simona Ingram

 

Nome accattivante. Che cosa significa?

COP sta per “Conferenza delle Parti”, dove per Parti si intendono le 197 nazioni appartenenti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UN Framework Convention on Climate Change, UNFCCC). Dalla prima conferenza, tenutasi a Berlino nel 1995, il 2021 vede questo evento giungere alla sua 26ª edizione.

Quest’anno è ospitata dal Regno Unito, in particolare presso lo Scottish Events Campus (SEC) di Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre. La conferenza vede una partnership con l’Italia, dove diversi eventi, come il Youth4Climate e la PreCOP26, si sono tenuti all’inizio di ottobre.

Nonostante la COP sia un evento annuale, la COP26 è la prima edizione che segue lo scoppio della pandemia di COVID-19. Questo crea una sorta di “evento nell’evento”, sia per confrontarsi su ciò che ha significato affrontare un periodo senza precedenti come quello pandemico, sia per definire più chiaramente gli obiettivi climatici a seguito della COP25, tenutasi a Madrid a dicembre 2019.

 

I risultati della COP25

La 25ª Conferenza delle Parti, ospitata dal governo cileno e condotta a Madrid a dicembre 2019, si concluse con un nulla di fatto. Si affrontarono delle risoluzioni in merito al taglio dei gas serra e agli aiuti per i Paesi più poveri che subiscono già gli effetti del cambiamento climatico. Ma nonostante le negoziazioni – segnate dalla frustrazione degli attivisti per il clima – si protrassero per ulteriori due giorni, sul tema dei mercati del carbonio non si riuscì a trovare un accordo, e la questione fu rimandata al summit di Glasgow. Pertanto, molte relazioni sulla conferenza la etichettarono come un fallimento, alcune anche criticandola aspramente.

 
Oltre alla questione dei mercati del carbone, quali sono i temi della COP26?

L’UNFCCC ha identificato quattro grandi obiettivi nel suo manifesto per la COP26, che sono:

– azzerare le emissioni nette a livello globale entro il 2050 e puntare a limitare l’aumento delle temperature a 1,5 °C

– adattarsi per la salvaguardia delle comunità e degli habitat naturali

– mobilitare i finanziamenti

– collaborare

Il primo obiettivo si concentra su misure come la fuoriuscita dal carbone e la riduzione della deforestazione, ad esempio, al fine di realizzare un sistema a “zero emissioni nette” rispetto ai livelli del 1990 e consentire il raggiungimento del target di 1,5 gradi Celsius di riscaldamento relativo ai livelli preindustriali. L’idea di un accordo collettivo per limitare il riscaldamento globale fu presentata alla COP21 nel 2015; la location che quell’anno ospitò la conferenza ha dato il nome a quello che oggi è noto come l’Accordo di Parigi.

Il secondo obiettivo parte dal presupposto che alcune comunità dei Paesi rappresentati – sia insediamenti umani che ambienti circostanti – continueranno a subire gli effetti del cambiamento climatico a prescindere, e stabilisce che queste debbano essere supportate nei loro sforzi per proteggersi da tali danni e invertirne la rotta. Il terzo obiettivo è focalizzato sulle risorse economiche necessarie per raggiungere questi obiettivi. E l’ultimo – forse il più complicato di tutti – sottolinea la necessità di una vera collaborazione globale per realizzare quanto sopra.

 

Non è condiviso da tutti l’obiettivo di salvare il pianeta?

L’obiettivo trova il consenso di tutti, ma i Paesi devono anche considerare in che modo le decisioni globali influenzano le loro realtà specifiche, per una serie di ragioni. E dovendo ogni decisione essere sottoscritta da quasi 200 Paesi ed essendoci in tutto 2.217 organizzazioni partecipanti, la COP è da sempre una macchina monumentale, ma fragile. Questo significa che l’unità può essere un fattore incredibilmente positivo, come si è visto nel caso dell’Accordo di Parigi, per esempio. Ma è possibile anche che i confronti si arenino nella burocrazia, e si perdano nei voltafaccia della politica, come abbiamo visto quando l’amministrazione Trump avviò il processo per ritirare gli USA – il secondo maggior emettitore di carbonio al mondo – dall’Accordo di Parigi nel 2017.

Come per tutti i colossi di questo tipo, che si basano sull’accordo di tutti, singoli punti di disaccordo possono affondare una preziosa base di consensi. Prendiamo la questione dei mercati di carbonio, ad esempio, che fece deragliare la COP25: l’idea si basa sul fatto che i Paesi che hanno raggiunto i propri obiettivi in termini di emissioni possono “acquistare la licenza” a emettere ulteriore carbonio da chi inquina di meno, come se fosse una sorta di credito. Si tratta di una questione estremamente divisiva. Alcuni vedono il mercato del carbonio come un incentivo per i Paesi ad adottare forme di energia più verdi, per evitare di superare la propria soglia, altri lo vedono un sistema fallace pieno di scappatoie e facile da manipolare; i più critici considerano l’intero concetto una finta soluzione equivalente a una “capitalizzazione ecologica”.

Si tratta di una tematica rimasta aperta anche nelle precedenti edizioni della COP, e che non solo ha evidenziato gli ostacoli diplomatici tra le nazioni, ma ha anche attirato le critiche secondo cui una questione così complessa dai benefici intangibili ha assorbito considerevoli quantità del prezioso tempo dei delegati. Se succederà lo stesso alla COP26 rimane da vedere. Probabilmente ci saranno altri temi da discutere, dato che un mese dopo la conclusione della COP25 un problema che pochi al tempo videro arrivare poi l’ha fatta da padrone sui titoli dei media per mesi.

 

Quanto sarà dominante il tema del coronavirus?

“La maggior parte degli esperti ritengono che la COP26 abbia un’unica urgenza”. Questa frase sul sito web della conferenza sottolinea che la presidenza britannica della COP26 arriva in quello che molti vedono come un punto di non ritorno critico a livello climatico, e dopo un periodo di 18 mesi che non ha precedenti nella storia moderna.

Dall’ultima COP nel 2019, quasi cinque milioni di persone sono morte a causa di una sospetta malattia zoonotica in grado di fare il salto di specie. Se questo potrebbe apparire all’osservatore meno attento un tema non correlato agli argomenti di discussione sulle problematiche ambientali, gli scienziati invece concordano che la probabilità di tali eventi di spillover (ovvero salto di specie) aumenti quando l’uomo interagisce con i serbatoi di tali virus, quale che sia poi l’elemento attivatore finale. Questo significa che il taglio delle foreste, l’attività mineraria, l’uso e il consumo di prodotti a base di fauna selvatica e altre intromissioni negli habitat ci mettono ulteriormente a rischio di innescare la prossima pandemia.

Inevitabilmente, molte delle azioni preparatorie per la COP26 – e il contesto degli esiti finanziari da ottenere che saranno al centro delle sue discussioni – sono stati riconfigurati a fronte di una pandemia che è diventata l’evento economicamente più dannoso dopo la Seconda guerra mondiale.

Anche l’organizzazione logistica della conferenza, che è stata posposta dal 2020 a causa della pandemia, ha ricevuto aspre critiche in merito alla possibilità di partecipare dei delegati delle ONG delle nazioni del sud del mondo a causa delle restrizioni in vigore per gli spostamenti. Molte di queste nazioni sono quelle più duramente colpite dal cambiamento climatico.

Ciò che di buono apparentemente la pandemia ha portato, tuttavia, è una rinnovata chiarezza nello scopo che la conferenza è concepita per raggiungere, nonché un precedente che ci ha dimostrato con che velocità il mondo è capace di reagire di fronte a un pericolo, diverso in questo caso e forse solo superficialmente più pressante.

“La pandemia ha evidenziato quanto la ‘vecchia normalità’ fosse profondamente fragile e pericolosa”, dichiara il gruppo di esperti indipendenti sulla finanza climatica delle Nazioni Unite in una relazione di dicembre 2020. “Se il mondo non agisce ora, il danno causato dal cambiamento climatico e dalla perdita della biodiversità sarà molto più grave e di lunga durata del danno inferto dal COVID-19”.

A questo quadro si aggiunge un anno di incendi, alluvioni, accelerazione dello scioglimento dei ghiacciai, invasioni di locuste, temperature record e obiettivi di biodiversità chiave mancati dai governi del mondo. Tutto questo rende chiaro che questo sia un momento critico per agire, che è sempre più difficile ignorare da parte delle nazioni.

Ma c’è anche positività sullo sfondo della COP26: la procedura di rientro nell’Accordo di Parigi avviata da Joe Biden nel suo primo giorno in carica come presidente degli Stati Uniti è stata una chiara presa di posizione in contrasto con il ritiro avviato dal suo predecessore. Poi ci sono iniziative proattive come l’Earthshot Prize, la crescita delle rinnovabili a livello globale, una maggiore responsabilità in merito all’investimento etico da parte di alcune delle più grandi istituzioni finanziarie del mondo e azioni per proteggere più aree della Terra – come la decisione del Regno Unito di novembre 2020 di proteggere 4,3 km quadrati di oceano, supportata in parte dall’iniziativa Pristine Seas di National Geographic. Tutti segni positivi che indicano che gli ambiziosi intenti stanno lentamente diventano azioni decisive.

 
Quindi la COP26 è effettivamente un evento di grande portata. Qual è la responsabilità del Regno Unito?

La buona riuscita delle negoziazioni della COP26 dipende in buona parte dalla capacità della nazione che ne ha la presidenza di essere diplomatica e concentrata nella gestione delle questioni all’ordine del giorno, un po’ come fa un giudice in un’aula di tribunale. I precedenti fallimenti degli eventi della COP sono stati attribuiti ai governi ospitanti, così come anche i successi.

Nel suo discorso di inaugurazione a febbraio, Boris Johnson ha evidenziato la sua ambizione che il Regno Unito sia un leader mondiale nel settore delle energie rinnovabili, nell’uso di mezzi di trasporto elettrici e nella tecnologia di cattura e sequestro del carbonio, e ha ribadito l’impegno del Regno Unito di raggiungere l’impatto zero di carbonio entro il 2050. Questo passo, fatto a giugno 2019 e che ha visto il Regno Unito come la prima delle nazioni del G7 a fare una tale dichiarazione, ha suscitato i commenti dei più scettici. Ma è stata anche riconosciuta come una presa di posizione morale, dato il ruolo del Regno Unito nella rivoluzione industriale, nonché una dichiarazione di intenti determinante nell’incoraggiare altre nazioni a seguirla a ruota.

E proprio questa sarà la posizione del Regno Unito alla COP26 di novembre.

 

Fonte: National Geographic, 11 ottobre 2021.