L’arresto di Mahmoud Khalil, studente alla Columbia, è un attacco alla libertà di parola
Sabato 8 marzo 2025 alcuni agenti dell’Agenzia Federale per l’Immigrazione hanno arrestato, presso la sua residenza universitaria a New York, Mahmoud Khalil, 29 anni, studente di origini palestinesi della School of International and Public Affairs alla Columbia University. Cresciuto in un campo profughi a Damasco, ex impiegato presso l’ambasciata britannica a Beirut, Khalil è un esponente di spicco delle mobilitazioni studentesche che hanno animato il campus newyorkese fin dalla scorsa primavera, chiedendo la fine del genocidio a Gaza e l’interruzione delle collaborazioni accademiche con le università israeliane. L’arresto di Khalil, che attualmente si trova in un centro di detenzione per immigrati in Louisiana, ha destato sconcerto e manifestazioni in molte città degli Stati Uniti, non solo per la fragrante violazione del Primo Emendamento a difesa della libertà di parola, ma anche per la situazione legale e personale dello studente, in possesso di Green card e sposato con una cittadina statunitense all’ottavo mese di gravidanza. Non esiste alcuna accusa penale contro l’attivista: il governo invoca un articolo dell’Immigration and Nationality Act del 1952, risalente alla Guerra Fredda, che prevede che gli immigrati possano essere allontanati se il Segretario di Stato ritiene che la loro presenza sia incompatibile con la politica estera degli Stati Uniti. Il governo continua, su questa base, a minacciare dure ritorsioni contro i manifestanti della Columbia e degli altri campus protagonisti del movimento per la Palestina: in un post in cui condivideva la notizia dell’arresto di Khalil, il Segretario di Stato Marco Rubio ha annunciato l’intenzione di revocare i permessi di soggiorno dei “sostenitori di Hamas”, categoria in cui rientrano per l’amministrazione Trump tutte e tutti coloro che difendono attivamente il diritto del popolo palestinese all’esistenza e all’autodeterminazione.
Mahmoud Khalil, che non ha partecipato alle occupazioni ma ha svolto un ruolo di mediatore tra i dirigenti dell’Università e i manifestanti, è vittima secondo la New York Civil Liberties Union di una detenzione illegale, nonché di una violazione del diritto alla libera espressione. Donna Lieberman, Direttrice esecutiva dell’organizzazione, ha affermato che si tratta di “una spaventosa escalation della repressione di Trump contro i discorsi pro-Palestina e un uso abusivo e aggressivo della legge sull’immigrazione”. A questa azione si aggiunge la revoca di numerosi titoli di laurea da parte dell’università ai danni di studenti e studentesse coinvolte nelle proteste e l’arresto di una seconda manifestante, Leqaa Kordia. L’associazione Student Workers of Columbia ha dichiarato che “consentendo la presenza degli agenti federali per l’immigrazione nel campus, la Columbia si sta arrendendo alle pressioni del governo contro le università del paese, sacrificando gli studenti internazionali per proteggere le proprie finanze”. All’inizio della settimana, infatti, l’amministrazione Trump aveva revocato un finanziamento assegnato alla Columbia per un valore complessivo di circa 400 milioni di dollari.
In questo articolo pubblicato da POLITICO, Irie Sentner, ex studente alla Columbia e oggi reporter del magazine presso la Casa Bianca, ricostruisce la vicenda e la colloca nel suo contesto: sono in gioco la libertà di espressione e la libertà accademica, non adeguatamente difese dalla governance della Columbia, dimentica della lunga storia di lotte sociali che hanno caratterizzato l’università newyorkese.
di Irie Sentner
L’anno scorso ero uno studente della Columbia University, dove ho seguito per il giornale universitario e per POLITICO le forti proteste del campus incontro all’escalation del conflitto tra Israele e Hamas. Di conseguenza conosco bene Mahmoud Khalil, un ex studente della Columbia con cui ho parlato in passato e che sembra essere il primo bersaglio nello sforzo dell’amministrazione Trump di reprimere le proteste studentesche. Nonostante sia residente permanente con Green card, sabato scorso [8 marzo 2025, ndr] Khalil è stato preso in custodia dall’Immigration and Customs Enforcement (ICE) per aver condotto “attività allineate ad Hamas”. L’arresto ha suscitato l’indignazione degli altri attivisti, delle organizzazioni che difendono la libertà di parola e di molti Democratici. Per ora, un giudice ha bloccato l’espulsione dell’attivista palestinese, ma il suo destino è ancora incerto. Questo è ciò che sappiamo su Khalil, sugli studenti manifestanti e sul clima che si respira alla Columbia.
Qual è stato il ruolo di Mahmoud Khalil nelle manifestazioni studentesche della Columbia? Qual era il suo status legale durante le proteste?
Khalil è stato il principale negoziatore a rappresentare gli studenti in stato di agitazione presso l’amministrazione della Columbia durante il “Gaza Solidarity Encampment” della scorsa primavera. Il gruppo studentesco dietro l’accampamento – il Columbia University Apartheid Divest o CUAD – aveva due principali richieste: che la Columbia tagliasse tutti i suoi legami con Israele, compreso il disinvestimento e la sospensione dei piani per la costruzione di un “centro globale” a Tel Aviv, e che i manifestanti stessi ricevessero l’amnistia per le loro azioni. Durante la fase più accesa del confronto, Khalil e i dirigenti dell’università, tra cui almeno due rettori, sono rimasti al tavolo delle trattative giorno e notte senza, tuttavia, arrivare mai a un accordo.
Khalil è palestinese ed è nato e cresciuto in Siria. Durante le proteste, nell’aprile 2024, si trovava negli Stati Uniti con un visto studentesco F-1 come studente laureato presso la School of International and Public Affairs della Columbia, secondo quanto riportato da Al Jazeera. Ha rappresentato come negoziatore il CUAD, ruolo che lo ha reso relativamente più conosciuto rispetto a molti altri manifestanti, consapevoli di dover essere cauti nelle loro apparizioni pubbliche. Già a maggio aveva dichiarato ad Al Jazeera di essere preoccupato riguardo al fatto che, in caso di un’azione disciplinare da parte dell’università, avrebbe potuto perdere il suo visto da studente.
La deportazione era una preoccupazione diffusa tra gli studenti stranieri che partecipavano alle proteste?
Assolutamente sì. Durante l’accampamento due amici, studenti internazionali, mi dissero che avrebbero voluto parteciparvi e che, tuttavia, non potevano rischiare di perdere il visto. Una paura simile era presente anche tra gli studenti con basso reddito, dato il rischio di perdere la borsa di studio o l’alloggio nel campus. Molti hanno scelto di partecipare in altri modi, ad esempio condividendo contenuti pro-palestinesi sui social media o portando cibo e provviste all’accampamento.
A Barnard, in particolare, gli studenti sospesi per aver protestato sono stati sfrattati dai loro dormitori quasi immediatamente. Questa è stata un’altra grande preoccupazione: c’è una grande differenza tra chi vive vicino a New York o ha una forte rete di relazioni solidali negli Stati Uniti, e uno studente che verrebbe lasciato solo per le strade di Manhattan, perché la sua famiglia vive in un altro paese.
Dopo i primi arresti di massa, il New York Post ha pubblicato un articolo in prima pagina riguardo al fatto che gli studenti manifestanti arrestati dalla polizia di New York provenissero per lo più da ambienti sociali privilegiati. Questo è in parte dovuto semplicemente all’organizzazione della Columbia, la cui retta annuale comprensiva di costi per la mensa e il dormitorio può superare i 93.000 dollari e solo il 50% degli studenti ha i requisiti per ricevere un supporto finanziario. In parte, ciò è dovuto invece a scelte personali: gli studenti che si trovano in situazioni più precarie – la più precaria delle quali è il rischio molto concreto di deportazione – hanno scelto di moderare i propri interventi per proteggersi.
Il clima nel campus è cambiato dall’elezione di Trump?
Mi sono laureato a maggio e mi sono trasferito a Washington per lavorare a tempo pieno per POLITICO. Tuttavia, in base alle mie conversazioni con le persone che sono ancora lì, la risposta è che il clima sia cambiato meno di quanto si possa pensare.
La Columbia è sicuramente uno dei campus universitari più progressisti del paese. La chiamiamo “l’Ivy degli attivisti” a ragione e, in effetti, l’ateneo ha una lunga storia – di cui va fiero – di proteste politiche sin dal 1968, quando i manifestanti contro la guerra occuparono la Hamilton Hall per circa una settimana. In occasione delle azioni per la Palestina, l’ex presidente della Columbia, Minouche Shafik, ha atteso meno di 24 ore prima di chiamare la polizia di New York per sgomberare i manifestanti che avevano occupato quello stesso edificio lo scorso aprile. Dubito che i buoni risultati ottenuti dal presidente Donald Trump tra gli elettori più giovani si riscontrino anche alla Columbia e, anche se realisticamente ci sono, gli studenti conservatori tendono a tenere per sé queste opinioni.
Anche nel movimento di protesta pro-palestinese, estremamente attivo, c’è sempre stata la sensazione che Donald Trump, Joe Biden e Kamala Harris facessero tutti parte dello stesso quadro oppressivo. In fin dei conti, le persone che guidano queste proteste credono che il sistema debba essere completamente resettato – per molti di loro, le rivendicazioni non si fermano al cessate il fuoco. Vedono gli Stati Uniti come “il ventre della bestia”, la bestia che è il colonialismo, il capitalismo ed essenzialmente tutte le altre forze dell’oppressione. Penso che avremmo visto un’atmosfera simile anche se avesse vinto le elezioni Harris.
In che modo gli studenti manifestanti hanno cercato di proteggersi dalle ritorsioni finora?
Prima, la paura più grande per la maggior parte dei manifestanti era il doxxing [pratica di raccolta e diffusione online di informazioni personali e riservate, di solito con intento malevolo, ndr]. C’è un sito web chiamato Canary Mission che pubblica i nomi e le immagini di chiunque sia considerato anti-israeliano, compresi gli studenti giornalisti la cui copertura non piace ai moderatori di Canary. C’era anche un “camion del doxxing” che girava per la Columbia e altri campus con i nomi e i volti degli studenti considerati i “principali antisemiti” della scuola [l’equiparazione indebita della critica alle politiche israeliane all’antisemitismo è pratica molto diffusa negli ambienti istituzionali statunitensi, ndr].
Per evitare la minaccia di doxxing, molti manifestanti nascondono il loro aspetto, coprendo la testa con kefiah e il viso con maschere chirurgiche. Con questi copricapi e queste maschere non appaiono come la maggior parte delle persone si aspetta che siano gli studenti della Ivy League, e credo che ci sia sicuramente una certa xenofobia (e islamofobia) che contribuisce al senso di paura nei confronti dei manifestanti, in grande maggioranza nonviolenti.
Il dibattito sulle proteste studentesche è cambiato dal 2024? L’arresto di Khalil potrebbe in qualche modo cambiarlo?
Molti Repubblicani hanno espresso il loro disprezzo verso le università per anni (basti vedere il discorso del 2021 del vicepresidente JD Vance “Le università sono il nemico”). Le proteste contro la guerra hanno dato loro un motivo per punire queste istituzioni che, secondo loro, non hanno protetto gli studenti ebrei. E, d’altra parte, molti Democratici fanno fatica a reagire a questi attacchi: distinguere l’antisemitismo dall’antisionismo, l’ideologia che i manifestanti – alcuni dei quali sono ebrei – dicono di avere, è percepito come politicamente difficile. In aggiunta, le forze pro-Israele negli Stati Uniti sono estremamente potenti. Il caso dell’ex deputato Jamaal Bowman, che ha appoggiato i manifestanti della Columbia ed è stato poi sfidato alle primarie da un candidato sostenuto dall’AIPAC [l’American Israel Public Affairs Committee, gruppo di pressione noto per il forte sostegno allo Stato di Israele, ndr], è sufficiente a far desistere molti altri Democratici dal manifestare apertamente la propria opinione in merito alla questione.
Ma il caso Khalil potrebbe offrire una via d’intervento per il partito democratico. La decisione di Trump di deportare un immigrato legale – per altro con una moglie statunitense incinta – è senza precedenti, oltre che molto preoccupante per molti sostenitori del Primo Emendamento. Democratici e Repubblicani hanno già commentato la tentata deportazione di Khalil come una questione di libertà di parola e, se Trump adotterà le stesse misure contro altri attivisti studenteschi filo-palestinesi, come ha promesso, è probabile che raccolga ulteriori reazioni critiche.
Fonte: POLITICO, 13 marzo 2025 (traduzione di Elisa Veltre).