Afghanistan: quale bilancio dell’esperienza militare italiana?
di Andrea Vento
A distanza di cinque mesi dal ritiro delle forze NATO e dal ritorno dei Talebani al potere in Afghanistan, in Italia non si è sviluppata una seria riflessione pubblica, né è stato elaborato un bilancio politico ufficiale sui risultati di vent’anni di presenza militare, sui suoi esiti, sui suoi costi e sulle ricadute sulla popolazione locale.
La ventennale presenza militare, anche italiana, in Afghanistan si è conclusa con la partenza degli ultimi voli di evacuazione il 31 agosto 2021. Il mal pianificato ritiro delle forze armate USA e NATO è stato disposto dall’amministrazione Biden a seguito degli Accordi di Doha, sottoscritti da Trump il 29 febbraio 2020, e ha comportato la drammatica fuga dal paese degli occidentali e dei loro collaboratori dopo la repentina presa di Kabul da parte dei Talebani del 15 agosto.
Nonostante anche l’Italia fosse stata tra i principali attori delle vicende militari degli ultimi vent’anni nel paese centroasiatico, fin dalla seconda metà dello scorso agosto l’attenzione politica e mediatica nazionale è stata indirizzata sulla questione del caotico e parziale trasferimento all’estero dei collaboratori afghani e sul nuovo esodo dei profughi, prime vittime dell’intera vicenda: migliaia di persone che, a vario titolo, avevano prestato servizio per le forze della NATO o per il governo di Ashraf Ghani sono state abbandonate al rischio delle probabili ritorsioni talebane.
I responsabili della disastrosa esperienza afghana, nell’intento di distogliere l’attenzione dalle reali cause di quanto accaduto, si sono adoperati per lanciare una ben architettata campagna di “distrazione di massa”. Il ceto politico direttamente coinvolto e i media mainstream, infatti, hanno cercato di sollevare indignazione nell’opinione pubblica italiana in modo da far apparire come unici responsabili delle violenze e del caos di quei giorni gli “studenti coranici”.
La formazione del nuovo governo monocolore talebano ai primi di settembre, in violazione di uno dei punti fondamentali degli Accordi di Doha, ha innescato come ritorsione sia il mancato riconoscimento politico internazionale del nuovo esecutivo, sia l’applicazione di “sanzioni economiche” da parte dei paesi occidentali. Le nuove misure restrittive, divenute ormai una consolidata prassi ai danni dei governi che intendono sottrarsi all’egemonia statunitense, hanno portato, da un lato, al congelamento dei 9 miliardi di dollari di fondi della Banca Centrale Afghana depositati all’estero e, dall’altro, alla sospensione dei generosi finanziamenti e aiuti (pari ad almeno il 20% del PIL afghano) che avevano tenuto in piedi fino a quel momento l’instabile Repubblica Islamica dell’Afghanistan, creata dagli occidentali dopo l’invasione del 2001.
Tali provvedimenti hanno causato prevedibilmente una gravissima crisi umanitaria, con il 72% della popolazione in condizioni di povertà già a settembre 2021, e pesanti ripercussioni economiche, con il crollo del PIL stimato lo scorso autunno intorno al 40%. Il tracollo sociale ed economico del paese, aggravato dall’arrivo dell’inverno, ha catalizzato la residua attenzione mediatica riservata, in Occidente, alle vicende del paese centroasiatico, ormai afflitto ininterrottamente da guerre e conflitti interni fin dal 1979. Nonostante ciò, nello scenario nazionale, le vicende afghane sono da un paio di mesi relegate alle pagine finali dei quotidiani e dei telegiornali, mentre le forze politiche, fino ad oggi, non hanno mostrato interesse verso l’apertura di inchieste ufficiali e di approfondite riflessioni pubbliche sulla presenza militare italiana in Afghanistan.
La partecipazione militare dell’Italia al conflitto afghano era stata autorizzata il 7 novembre 2001 dal Parlamento e poi regolarmente finanziata ogni sei mesi con relativo atto parlamentare, spesso con voto bipartisan, da tutte le maggioranze che si sono succedute al governo nel corso degli anni: il rinnovo e il rifinanziamento della missione sono avvenuti, ogni volta, senza che si aprisse un dibattito serio sulla nostra “avventura militare” nel paese centroasiatico, sui suoi costi, sugli obiettivi e sui risultati che si stavano conseguendo. In questo ventennio sono state spesso diffuse notizie non corrispondenti al vero o, nel migliore dei casi, edulcorate rispetto a ciò che stava effettivamente accadendo in Afghanistan. Ad esempio, poco o nulla è stato raccontato di come, già dall’ottobre 2003, i Talebani fossero riusciti a invertire l’inerzia del conflitto e, gradualmente, a passare alla controffensiva, come dimostra, oltre alla ricostruzione storica di Gastone Breccia in Missione fallita. La sconfitta dell’Occidente in Afghanistan, l’aumento delle morti dei militari NATO e delle forze di sicurezza afghane (Figura 1).
Figura 1. Andamento delle perdite nella coalizione internazionale e nelle forze di sicurezza afghane (2002-14)
Alla missione italiana, dislocata nel settore occidentale del paese con base di comando ad Herat, hanno partecipato complessivamente, a rotazione, circa cinquantamila soldati, la cui presenza sul territorio afghano non ha mai superato le 5.000 unità. Di questi soldati, 54 sono morti, quasi tutti in attacchi o attentati, e 700 sono rimasti feriti. Il costo della presenza militare italiana ammonta in totale a ben 8,7 miliardi di euro, dei quali 840 milioni sono stati impiegati per la creazione e l’addestramento delle forze militari e di sicurezza della Repubblica Islamica dell’Afghanistan (Tabella 1) che, successivamente, si sono sciolte come neve al sole, lasciando campo libero all’avanzata finale talebana sferrata ai primi di agosto.
Le legittime richieste di chiarezza, attraverso la realizzazione di un bilancio della presenza italiana in Afghanistan, sollevate negli ultimi mesi dalla parte più attenta dell’opinione pubblica, al momento non hanno trovato ascolto da parte delle istituzioni e del ceto politico. Eppure gli stessi Stati Uniti, principali promotori dell’avventura militare in Afghanistan iniziata con l’operazione Enduring Freedom il 7 ottobre del 2001, sembrano intenzionati a fare luce sulla loro ventennale permanenza militare nel paese. Già il 13 settembre 2021, infatti, il segretario di Stato Antony Blinken era stato sottoposto a quattro ore di incalzanti domande da parte della Commissione per gli affari esteri della Camera dei rappresentanti, sullo scomposto ritiro dall’Afghanistan di fine agosto. Inoltre, mercoledì 15 dicembre 2021, il Senato ha approvato, a larga maggioranza, l’istituzione di una Commissione d’inchiesta indipendente composta da 16 membri, equamente suddivisi fra le due tradizionali forze politiche, alla scopo di analizzare “gli errori e l’eredità di vent’anni di guerra in Afghanistan”, di gran lunga la più duratura della storia statunitense.
Tabella 1: Costo della missione italiana in Afghanistan 2001-2021 (Osservatorio sulle spese militari italiane, aprile 2021)
Secondo le stime del Watson Institute della Brown University del Rhode Island, l’elevato costo totale della ventennale esperienza militare statunitense ammonterebbe a circa 2.300 miliardi di dollari (Figura 2). Oltre a questo, l’aggravarsi della crisi afghana, deve aver probabilmente spinto i senatori statunitensi a cercare di venire incontro alle richieste dell’opinione pubblica che, dopo anni di disinformazione, sta prendendo atto dell’effettiva gravità della situazione in Afghanistan.
Come aveva denunciato, già da settembre, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP): “l’Afghanistan vacilla sull’orlo della povertà universale a causa dell’inevitabile peggioramento della situazione che, in mancanza di significativi interventi esterni, a metà del 2022 porterà la percentuale dei poveri addirittura al 97% con l’economia dell’Afghanistan si sta disfacendo davanti ai nostri occhi“.
Figura 2: Costo della missione statunitense in Afghanistan
Anche il recente grido d’allarme di Malalai Joya, giovane afghana attivista per i diritti delle donne, non sembra lasciar spazio a equivoci rispetto alla situazione attuale e allo sconforto degli afghani: “trascorsi vent’anni dall’inizio dell’invasione e della guerra lanciati dagli Usa, il popolo del mio paese, che soffre da molto tempo, è di nuovo al punto di partenza. Dopo aver speso migliaia di miliardi di dollari e aver provocato centinaia di migliaia di morti e sfollati, la bandiera talebana torna a sventolare sull’Afghanistan. Come più giovane donna eletta al Parlamento dell’Afghanistan nel 2005, la mia esperienza riflette il fallimento della guerra degli Stati Uniti e della NATO – una politica che ha usato i diritti delle donne come pretesto per l’occupazione, ma è riuscita solo a rafforzare le forze più corrotte della nostra società“.
Nel tentativo di riportare la crisi umanitaria in corso al centro dell’attenzione politica italiana, le associazioni 45mo Parallelo e Afghana hanno organizzato a Trento, il 15 dicembre scorso, il convegno “Afghanistan il futuro negato” al quale è stata invitata, come interlocutrice principale, la Vice Ministra per gli Affari Esteri Marina Sereni, oltre ad attori della cooperazione italiana in Afghanistan e dell’UNESCO. Nel corso dell’incontro, come riporta sul proprio sito web l’Atlante delle guerre e dei conflitti, sono stati trattati temi cruciali come le riserve monetarie afghane bloccate negli Stati Uniti e i 150 milioni di euro in aiuti umanitari da utilizzare, secondo le intenzioni del governo, come strumento per “ammorbidire” le posizioni dei Talebani sui diritti umani. Inoltre, è stata elaborata una strategia negoziale con l’Emirato Islamico d’Afghanistan, senza procedere al riconoscimento politico di quest’ultimo.
Un’iniziativa importante, quella di Trento, che dirada le nebbie mediatiche calate sul paese centroasiatico e che ha affrontato l’impellente questione della crisi umanitaria esplosa dopo il ritiro NATO, alla quale, tuttavia, dovranno seguirne altre che favoriscano l’apertura di un dibattito politico in Parlamento, oltre che a uno pubblico nel paese, che tracci un bilancio sulla nostra permanenza militare e, in generale, sulla disastrosa strategia delle “guerre umanitarie”.
La spinta verso questo indispensabile momento di riflessione collettiva, doveroso per una democrazia matura, probabilmente dovrà provenire, ancora una volta, dalla società civile, visto l’immobilismo della classe politica in questi ultimi mesi: tale mancato attivismo deriva, molto probabilmente, dal fatto che tutte le forze politiche attualmente presenti in Parlamento, in questi ultimi vent’anni, hanno votato il rifinanziamento delle missioni militari in Afghanistan.
Un passo utile in tale direzione potrebbe essere il coinvolgimento del Ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, in un convegno che abbia come fine ultimo la richiesta di un’analisi politica ufficiale in Parlamento e di una riflessione approfondita nel contesto dei paesi atlantisti in merito all’avventura militare in Afghanistan. Tutto ciò sulla scorta del contenuto delle dichiarazioni del rappresentante della politica estera italiana sulla crisi afghana e sui suoi sviluppi, rilasciate davanti alle Commissione riunite Affari esteri e Difesa di Camera e Senato il 23 agosto scorso: “A tempo debito, non potremo e non dovremo esimerci – come Occidente, come Europa, come NATO – da una riflessione approfondita sulle lezioni da apprendere. Una riflessione che deve partire dal riconoscimento obiettivo delle nostre responsabilità, ma anche dalla consapevolezza di non essere stati in Afghanistan invano“. Il Ministro Di Maio ha, inoltre, aggiunto che “la fragilità delle istituzioni afghane, la liquefazione istantanea delle forze armate locali, l’inaffidabilità delle previsioni sulla loro tenuta sono sotto gli occhi di tutti. Ma è anche vero che in questi vent’anni abbiamo contribuito a mantenere la stabilità regionale, contrastare il terrorismo, favorire più istruzione, diritti e libertà per il popolo afghano. È proprio questa consapevolezza a spronarci a fare il possibile affinché quei diritti non vengano ora brutalmente cancellati“. Dichiarazioni che, se da un lato dovrebbero essere rilanciate per quanto riguarda l’apertura di una riflessione sullo strumento della guerra e sulle nostre responsabilità, dall’altro lasciano spazio a perplessità rispetto alla valutazione dei risultati ottenuti con la nostra missione militare, nello specifico rispetto ai benefici apportati alla popolazione civile.
In base ai dati forniti dal World Factbook 2021 della CIA, rileviamo come l’Afghanistan, già prima del ritorno dei Talebani, fosse caratterizzato da una condizione sociale disastrosa, con i peggiori valori a livello mondiale sia per quanto riguarda la mortalità infantile, salita al 106,75 x 1.000 nel 2021, che per la speranza di vita media, ferma a soli 53,3 anni e con la povertà passata dal 22% del 2002 al 54,5% del 2020. Per quanto riguarda la condizione femminile, si è registrato un miglioramento solamente nelle aree urbane, che però raccolgono a oggi solo il 26% della popolazione, mentre nel resto del paese la situazione è rimasta sostanzialmente invariata, visto che il tasso di occupazione femminile dal 35% del 2003 è salito solo al 35,7% del 2018. Anche dal punto di vista macroeconomico il paese è progredito in misura ridotta rispetto ad altri paesi che, prima dell’intervento militare statunitense, avevano condizioni simili o addirittura più critiche: il PIL pro capite è appena quasi raddoppiato passando da 280 $ del 1998 ai 545 $ del 2018 mentre, nello stesso arco di tempo, in Ruanda è triplicato e in Etiopia addirittura cresciuto di 8 volte e mezzo.
Il quadro impietoso della situazione economica e sociale lasciata dalla NATO e il fallimento militare e politico della missione militare costituiscono elementi prioritari dell’ineludibile dibattito pubblico che auspichiamo sugli errori commessi in Afghanistan, sulla falsa retorica della guerra umanitaria, sul nostro grado di autonomia in politica estera e sulla subordinazione, tramite l’appartenenza alla NATO, all’interventismo militare statunitense.
Probabilmente, se invece di destinare allo sviluppo sociale solo una cifra stimata fra il 5 e il 10% degli 8,7 miliardi di euro spesi dall’Italia nel corso dell’occupazione militare, avessimo seguito l’esempio indicato da Gino Strada che, tramite Emergency negli ultimi 40 anni ha costruito in Afghanistan tre ospedali e curato gratuitamente quai 8 milioni di persone, oggi la situazione sarebbe molto diversa sia per il popolo afghano, vittima di una gravissima emergenza umanitaria (Figura 3), che per l’Occidente.
Figura 3. I numeri della crisi umanitaria in Afghanistan
Illuminanti, in tal senso, le dichiarazioni dello stesso Gino Strada contenute nel suo ultimo articolo, uscito su La Stampa il 13 agosto 2021, proprio il giorno della sua scomparsa. Nel testo vengono ripercorsi gli ultimi vent’anni di guerra, cercando di tracciarne un bilancio: “Ho vissuto in Afghanistan complessivamente 7 anni: ho visto aumentare il numero dei feriti e la violenza, mentre il paese veniva progressivamente divorato dall’insicurezza e dalla corruzione. Dicevamo 20 anni fa che questa guerra sarebbe stata un disastro per tutti. Oggi l’esito di quell’aggressione è sotto i nostri occhi: un fallimento da ogni punto di vista. Oltre alle 241 mila vittime e ai 5 milioni di sfollati, tra interni e richiedenti asilo, l’Afghanistan oggi è un paese che sta per precipitare di nuovo in una guerra civile, i talebani sono più forti di prima, le truppe internazionali sono state sconfitte e la loro presenza e autorevolezza nell’area è ancora più debole che nel 2001. E soprattutto è un paese distrutto, da cui chi può cerca di scappare anche se sa che dovrà patire l’inferno per arrivare in Europa. E proprio in questi giorni alcuni paesi europei contestano la decisione della Commissione europea di mettere uno stop ai rimpatri dei profughi afgani in un paese in fiamme. Per finanziare tutto questo, gli Stati Uniti hanno speso complessivamente oltre 2 mila miliardi di dollari, l’Italia 8,7 miliardi di euro. Le grandi industrie di armi ringraziano: alla fine sono solo loro a trarre un bilancio positivo da questa guerra. Se quel fiume di denaro fosse andato all’Afghanistan, adesso il paese sarebbe una grande Svizzera. E peraltro, alla fine, forse gli occidentali sarebbero riusciti ad averne così un qualche controllo, mentre ora sono costretti a fuggire con la coda fra le gambe“.
Andrea Vento è tra i fondatori del Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati (GIGA) e insegna geografia nell’Istituto “A. Pacinotti” di Pisa. E-mail: andreavento2013@gmail.com