sabato, Novembre 23, 2024
CulturaDiritti

La Musa del cinema, tra guerra e pace

di Andrea Panzavolta
  

Il canto delle Muse 

Secondo un antico adagio inter arma silent Musae: quando parlano le armi, le Muse tacciono. Tutte le Muse: non solo le nove del canone classico, ma anche la loro sorella moderna, vale a dire il cinema. 

Che al cinema debba essere riconosciuto lo statuto di decima Musa lo suggerisce l’assunto, ormai condiviso dai più, secondo cui lo specifico di quest’arte è la sua “a-specificità”: un film, qualunque sia la sua intrinseca qualità, è un “testo” plurimo che consente, anzi esige di essere interpretato all’interno di un ampio orizzonte culturale, se davvero lo si vuole comprendere, sottraendolo all’alternativa dicotomica che lo vuole o ‘bello’ o ‘brutto’. L’ultima nata tra le Muse sembra aver ricevuto in dono dalle sorelle anche l’abilità di raccontare una storia mobilitando una varietà di mezzi espressivi, dalla letteratura alla musica, fino alle arti figurative. 

Tuttavia, il cinema condivide con le altre Muse un’eloquenza che diviene ancora più potente quando l’oggetto del suo canto è la guerra. Pertanto, l’adagio da cui siamo partiti non risponde a verità: non soltanto perché un elevato numero di film possono esser rubricati sotto il genere bellico, ma anche perché alcuni di essi sono stati realizzati proprio inter arma. 

Ma cosa sono le Muse stesse? Cosa le rende tali? È impossibile rispondere senza richiamare i grandi miti e l’etimologia del termine. Anzi: le etimologie, perché diverse sono le ipotesi circa l’origine del nome Muse. Secondo alcuni esso deriverebbe da mons, ‘monte’, con evidente allusione alla loro dimora abituale che erano i monti Parnaso ed Elicona, dai quali sgorgavano fonti. Secondo altri, invece, l’etimo deriverebbe proprio da mous, ‘sorgente’, sia perché le Muse prediligevano le sponde lacustri, sia per un’evidente allusione alla forza sorgiva del loro canto. Ma il termine Musa potrebbe anche connettersi alla radice che ricorre in verbi quali manthánein (apprendere), mósthai (investigare), e in sostantivi quali mnéme (memoria) e mens (mente), termine a sua volta collegabile a ménos (forza, furore) e manía (follia, delirio). 

A questo punto si può abbozzare una prima risposta: le Muse sono potenza del pensiero. Un pensiero, tuttavia, non “meridiano” che tutto rischiara per tutto comprendere e definire, bensì un pensiero obliquo e inquieto. Sono esse stesse a proclamarlo all’inizio della Teogonia di Esiodo: «Noi sappiamo dire [légein] molte menzogne uguali al vero, ma sappiamo anche, quando lo vogliamo, cantare cose vere [alethéa]». Ecco allora un altro prezioso indizio per ricostruire l’essenza delle Muse: quando parlano, emettendo semplici lógoi, possono essere menzognere; quando cantano, invece, dalle loro labbra escono solo aléthea, ‘cose vere’.  

Quest’ultima nozione ci permette di compiere un ulteriore, e forse decisivo, passaggio. Alethé, la ‘cosa vera’, è ciò che non lanthánein, che ‘non si nasconde’, che è sottratto a léthe, all’oblio. Esiodo, non a caso, racconta che le Muse sono figlie di Mnemosyne, la dea Memoria, salvo però aggiungere: «[Mnemosyne] le generò perché fossero oblio dei mali e riposo degli affanni». Una precisazione che sembra sconfessare quanto finora detto, o forse no. Le «cose simili al vero» non potrebbero essere quelle di cui quotidianamente facciamo esperienza, non potrebbero riferirsi all’inganno dell’apparenza? E l’apparenza, coprendo il vero, non è forse una male? Se le cose stanno così, è bene che ‘le cose simili al vero’ cadano nella dimenticanza. Dobbiamo, allora, accettare l’invito delle Muse ad andare oltre le apparenze per esercitare meglio non tanto la vista, quanto piuttosto l’udito, in modo da cogliere ‘le cose vere’ che esse dicono quando cantano, inclusa la decima Musa del cinema. 

All’inizio del nostro percorso facciamo nostra la preghiera che Pindaro rivolge alle Muse: «Prego Memoria e le sue figlie di concedere una felice riuscita, perché sono cieche le menti degli uomini che senza le Muse cercano la via profonda della sapienza». 

 

Il mito della guerra: funesta, ineluttabile, persino razionale 

Cosa rivela la decima Musa quando affronta il tema della guerra? Se è vero, come abbiamo udito da Pindaro, che senza le Muse è vano trovare la via che conduce alla sapienza, alla sophía, qual è il discorso filo-sofico che la decima Musica sviluppa intorno alla guerra? 

Si potrebbero citare centinaia di frammenti cinematografici. Ma pochi hanno la forza evocativa dei primi, impressionanti, minuti di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. All’alba dell’umanità la nostra specie non vive un peccato originale di tipo biblico, ma scopre e sperimenta la fascinazione ambivalente per la violenza armata, esercitata sugli animali non umani ma anche sui propri simili. 

La violenza, il conflitto armato, la guerra: che ruolo svolgono nella storia dell’umanità? Per provare a rispondere – e comprendere lo statuto massimamente filosofico dei fotogrammi di Kubrick – è utile richiamare l’apertura di uno dei testi fondativi del pensiero politico occidentale: le Leggi di Platone. 

Il dialogo è ambientato a Creta (scelta non casuale perché, nell’antichità greca, la costituzione di quello Stato godeva di larga fama) e si svolge tra tre personaggi: il cretese Clinia, lo spartano Megillo e un anonimo Ateniese (nel quale è possibile riconoscere lo stesso Platone), in cammino lungo la via che da Cnosso porta al tempio di Zeus.  

Nelle prime battute del dialogo Clinia compie un’affermazione che oggi suonerebbe a dir poco scandalosa. Buona va definita quella legislazione che si ispira a ciò che per uno Stato è più importante: assicurarsi la vittoria sugli altri in guerra (pólemos). Così argomenta Clinia: «Mi sembra che il legislatore abbia, con questo, condannato la scemenza [ánoia] della maggioranza che non vuol capire come ogni Stato sia sempre, finché vive, in continua guerra con tutti gli altri». E aggiunge: «quella che la maggioranza chiama pace, è tale solo di nome [mónon ónoma]: di fatto ogni Stato, per sua stessa natura, si trova sempre con tutti gli altri in una guerra non dichiarata»; anzi, rincara il Cretese, «nella dimensione politica tutti sono nemici di tutti, e in quella privata ciascuno lo è di sé stesso». 

In questa visione ‘polemocentrica’, la pace non può che essere una breve e precaria tregua. E non viene proprio da qui il titolo scelto da Primo Levi per uno dei suoi libri più riusciti, La tregua? E uno dei suoi personaggi, soprannominato «il Greco», non pronuncia forse una frase che ha la forza di una sentenza antica: «Guerra è sempre»? E proprio nel segno della perenne ineluttabilità della guerra si chiude il libro: «Risalimmo sui vagoni col cuore gonfio. Non avevamo provato alcuna gioia nel vedere Vienna sfatta e i tedeschi piegati: anzi, pena; non compassione, ma una pena più ampia, che si confondeva con la nostra stessa miseria, con la sensazione greve, incombente, di un male irreparabile e definitivo, presente ovunque come una cancrena nei visceri dell’Europa e del mondo, seme di danno futuro». 

Sbaglieremmo, però, se cogliessimo nelle parole del cretese Clinia quel senso di mestizia che spira dalle pagine di Levi: il suo sguardo non è affatto mesto, bensì disincantato. Per comprendere meglio le sue affermazioni dobbiamo porle in relazione con quella tradizione “realista” del pensiero occidentale che guarda alla guerra non solo come male necessario, ma come dispositivo “razionale” indissolubilmente legato alla natura stessa della politica. 

Lo stesso Platone non è stato estraneo a questa tradizione, che godrà di fortuna inalterata fino alla Prima guerra mondiale. Se nelle Leggi il filosofo affida all’Ateniese la confutazione di Clinia, affermando che una legislazione giusta non tende alla guerra ma alla pace ed alla benevolenza, coltivando nei cittadini non solo la virtù del coraggio, ma anche la saggezza e la temperanza, nel Protagora Platone definisce il pólemos come «parte» della politica e, per certi aspetti, come destino della stessa. Nel Secondo Libro della Repubblica la guerra è individuata come l’esito quasi inevitabile dell’aumento dei bisogni e della crescita delle comunità umane, animate dalla passione del possesso “che è per gli Stati e per i privati il più funesto flagello che possa toccare”. Al tempo stesso, la capacità di fare la guerra costituisce il tratto distintivo di una delle tre “classi”, quella dei guerrieri, di cui la pólis ideale non può fare a meno; così come l’arte della guerra e la virtù del coraggio costituiscono elementi indispensabili della paidéia, ossia della formazione dei cittadini e delle cittadine (Platone è tra i pochi filosofi dell’antichità a riconoscere una certa parità di genere). 

Ma c’è dell’altro. In quanto contrappone e separa, pólemos forgia le identità, produce forme sociali, plasma ordinamenti politici: non è solo un elemento di disgregazione e distruzione. L’aspetto politico fondativo della guerra trova la sua massima espressione nell’età moderna, con la nascita degli Stati nazionali e con l’inclusione del diritto di fare la guerra tra gli attributi della sovranità: sia nelle guerre coloniali di conquista, che le grandi potenze europee avviano ai danni del resto del mondo, sia nelle guerre che le grandi potenze conducono tra loro. Mutano solo le “forme” della violenza bellica, in parallelo con la diffusione delle armi da fuoco: violenza sregolata quando si tratta di conquistare mari e terre fuori dall’Europa; violenza “regolata” quando le potenze europee si scontrano tra loro. 

Questo aspetto, della regolazione razionale della guerra intra-europea, è ben rappresentato dalla scena della battaglia campale tra Inglesi e Francesi tratta da Barry Lyndon di Kubrick. 

Siamo nella Guerra dei Sette anni che, come è noto, alla metà del Settecento a cambiato l’equilibrio di potere in Europa e nelle colonie extraeuropee, consolidando il dominio mondiale britannico a discapito della Francia. I due eserciti sono schierati in perfetto odine l’uno difronte all’altro. I Granatieri inglesi avanzano compatti e neppure le perdite subite a ogni nuova scarica della fucileria francese riescono a incrinarne la geometria, giacché i caduti sono immediatamente rimpiazzati dai commilitoni delle file retrostanti. L’impressione che se ne ricava è quella di una partita a scacchi, il cui gioco si svolge nel rispetto di regole ben precise che hanno tuttavia come fine la morte dell’avversario (non dimentichiamo che ogni partita termina con l’annuncio «scacco matto», traduzione del persiano «shāh māt», «il re è morto»).  

L’assunto di questa sequenza, che ancora scorge nella guerra una ben precisa ratio, collassa con la Prima guerra mondiale: per la sua dimensione «totale» e per l’impiego di armi di distruzione di massa, la Grande guerra segna una novitas inaudita nella storia umana e fa sorgere, forse per la prima volta, l’idea di una messa al bando della violenza bellica come strumento di politica internazionale. 

 

L’irrazionalità della guerra contemporanea 

Se nell’ordinata battaglia tra Inglesi e Francesi è ancora possibile scorgere il mito della guerra come dramma eroico e persino razionale, con lo scoppio della Grande guerra questo mito si rivela illusorio e la razionalità bellica una follia. Ancora una volta è Kubrik, in Orizzonti di gloria, a mettere in scena l’assurdità conclamata della guerra contemporanea, soprattutto nella sua versione di guerra di trincea.

L’attacco lascia inalterata la situazione di partenza, nonostante le enormi perdite subite dal 701° reggimento francese. L’assalto è condotto contro una piazzaforte tedesca soprannominata il Formicaio, ma non una sola volta la macchina da presa inquadra il nemico, di cui si vedono e sentono soltanto i colpi esplosi contro gli assalitori. L’ordine del generale di sparare sui propri soldati che si rifiutano di uscire dalle trincee viene contestato dall’ufficiale in comando, nonostante la minaccia di finire davanti a una corte marziale.  

Queste e altre scelte narrative suonano come la negazione radicale del realismo polemologico che riconosceva alla guerra una propria razionalità, per quanto funesta e luttuosa. Non è tanto l’atrocità della guerra a sconvolgere adesso gli animi, quanto piuttosto il riconoscimento della sua assoluta inutilità. La guerra è soltanto nuda potenza distruttrice, puro gioco a somma zero: essa non decide più nulla, rendendo impossibile distinguere tra vincitori e vinti. 

 

La pace come alternativa a una guerra sempre fratricida 

Se così stanno le cose, che ne è della pace? Se pólemos è negazione della pace, occorre capire qual è il vero oggetto di questa negazione. Ancora una volta può soccorrerci la mitologia greca.  

Sempre nella Teogonia esiodea si legge che Eiréne (Pace) è figlia di Zeus e di Themis e che ha quali sorelle Dike (Giustizia) ed Eunomia (la Buona legge). Themis è l’Ordine ordinante, è Giustizia compiuta, inconcussa, universale e inalterabile. Dike, invece, non crea la giustizia ma indica cosa è giusto (conformemente alla sua etimologia, che deriva dal verbo greco deíknymi, ‘additare’) e, nel momento in cui lo indica, anche lo dice. Ma il suo dire sarà sempre interpretante, incerto, enigmatico, mai definitivo. Ciò che chiamiamo nómoi, ‘leggi’, non sono che interpretazioni di Themis da parte di Dike. Quest’ultima appare divisa e in lotta con sé stessa, perché le sue diverse interpretazioni danno vita a un pluralismo inevitabilmente conflittuale di nómoi, dunque in profonda tensione con l’esistenza stessa di Themis, di una Giustizia valida per tutti e per sempre. 

Possono i distinti nómoi farsi eunomía? Ci può essere d’aiuto la Storia? Certo che no: essa si limita a vedere (historía da historéin, ‘vedere’ e, vedendo, ‘conoscere’) come le opere e i giorni degli uomini si svolgano sotto il segno della violenza e della prepotenza, che mirano alla conquista del potere, all’annientamento o comunque alla sconfitta dell’avversario, dunque all’affermazione esclusiva della propria parte, dimenticando totalmente l’Intero. Per questo la storia è «bíaios didáskalos», «maestra di violenza», secondo l’icastica definizione di Tucidide. 

È da qui, allora, che occorre ripartire: occorre fare memoria dell’Intero, dell’Uno-che-siamo. Ma non è proprio questo che fanno le Muse? Rileggiamo i versi di Esiodo da cui siamo partiti: «Noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando lo vogliamo, cantare cose vere». Da questo punto di vista, Dike sarà tanto più fedele interprete di Themis quanto più sarà capace di restare nella verità. La stessa pace consiste nel dimorare di Dike, della giustizia, nella verità. Ma qual è questa verità? 

Nei frammenti cinematografici evocati finora la decima Musa ha parlato per invitarci ad andare oltre l’apparenza delle cose, per prepararci al suo canto. Nella scena finale di Orizzonti di gloria, una delle sequenze più poetiche della cinematografia di sempre, la parola cede, letteralmente, spazio al canto, additando una verità che potrebbe essere universalmente condivisa e, quindi, indicando anche la strada da percorrere verso la pace. 

La giovane prigioniera tedesca, introdotta dall’oste in una sala di svago per i soldati francesi, viene svillaneggiata e fatta oggetto di grevi apprezzamenti. Quando inizia a cantare nella propria lingua, che i soldati riconoscono come quella del nemico, il frastuono diviene assordante. Ma dopo poco la dolcezza della melodia, cantata con le lacrime agli occhi dalla ragazza, ha il sopravvento e annulla le distanze: quel canto finisce per coinvolgere tutti perché da tutti è avvertito come una sorta di rivelazione. Cosa rivela, quel canto? Che siamo tutti figli del caso e della pena, carichi di dolori e di affanni. E se tutti siamo figli, tutti siamo anche fratelli. Ecco, allora, in che cosa consiste in ultima istanza la rivelazione: ogni guerra è fratricida.  

Per comprendere meglio la profondità non banale di questa idea è bene ricorrere, ancora una volta, alle sottigliezze della lingua greca che distingue tra pólemos e stásis. Scrive Platone nella Repubblica: «Intendo con queste due cose da una parte il familiare e il congenere, dall’altra l’alieno e l’estraneo. Si usa quindi la denominazione di stásis quando c’è inimicizia col familiare, e pólemos quando c’è l’inimicizia con l’alieno». 

La stásis è quella che, con i romani, abbiamo iniziato a chiamare guerra civile, bellum civile: una guerra che si scatena all’interno della comunità stessa, dissolvendone i legami fondativi. Ma quando una guerra merita di essere definita civile, dipende da dove si segna il confine della propria comunità rispetto alle altre. Platone, divenuto adulto sul finire della Guerra del Peloponneso, ha vissuto la guerra civile ateniese del 404/403 a.C.: sarà anche per queste esperienze che inizia ad avvertire come inaccettabile la guerra intestina fra Greci, membri di una medesima civiltà, di una medesima koiné: per questo tende ad associare la guerra tra le póleis a una forma di stásis. Pólemos, invece, la guerra vera e propria, dovrebbe a suo avviso essere riservata solo ai bárbaroi, i totalmente stranieri, coloro che con la Grecia non avevano a che fare, né per nascita, né per consuetudini, né per lingua, né per leggi. 

Platone resta figlio del suo tempo: non gli si può rimproverare di avere una visione etnocentrica, non universale, di umanità. Bisognerà attendere l’ellenismo e i filosofi stoici perché la cultura greca elabori una prima visione della kosmopolis, della Terra come dimora comune dell’umanità. Oggi, che questa visione è condivisa, se non da tutti, almeno dai più a buon diritto possiamo intendere ogni guerra come stásis, come lotta fratricida. 

Se si vuole la pace, occorre assumere come prospettiva un’idea di giustizia a sua volta fondata sulla richiesta di riconoscimento e compassione che ciascun essere umano porta impressa sul proprio volto, come un sigillo. Nulla di banalmente sentimentale in questa affermazione. Anzi, si deve udire in essa un timbro severo e drammatico. È possibile raggiungere questa giustizia solo attraverso una massima attenzione, dal verbo ad-tendere, ‘rivolgersi verso qualcuno’ ma anche ‘prendersi cura di qualcuno’. Bisogna imparare a essere attenti per poter essere giusti. Così, nelle immagini conclusive di Orizzonti di gloria, solo quando prestano attenzione al canto della prigioniera tedesca i soldati francesi smettono di deriderla e denigrarla e iniziano a riconoscerla non più come una nemica, ma come una di loro). 

Scrive nei suoi Quaderni Simone Weil: «È impossibile evitare il bene se non distogliendo da esso la propria attenzione. Se gli si presta un’attenzione sufficiente e per un tempo sufficientemente lungo, non ci si può più difendere: si è presi. Al contrario, si è presi dal male quando non vi si dirige la propria attenzione». È questa attenzione che oggi dobbiamo richiedere più che mai oggi alla politica, pericolosamente ripiegata nel culto della parte a discapito dell’Intero 

Prestate attenzione: questo canta la decima Musa negli ultimi minuti di Orizzonti di gloria. E questo canta anche nell’ultimo filmato che proponiamo, il cortometraggio 1943-1997 di Ettore Scola.

«Solo i morti hanno visto la fine della guerra» recita un adagio attribuito a Platone. Ma potremmo riformularlo così: la guerra finisce ogniqualvolta scorgiamo nel volto dell’altro la sua richiesta di non essere ucciso e ad essa ri-spondiamo, facendocene re-sponsabili.

Andrea Panzavolta è giornalista pubblicista. Collabora alla rubrica “Film in discussione” di Iride. Filosofia e discussione pubblica, e ad alcune riviste di critica cinematografica. Dal 2014 è il direttore artistico della rassegna concertistica forlivese “Passioni in musica”.