Russia-Ucraina: la situazione dopo nove mesi di guerra
di Raffaele Crocco
Una specie di scricchiolio si è sentito il giorno dell’annunciata “mobilitazione parziale” in Russia. È stato in quel momento, tra il 19 e il 20 settembre 2022, che al mondo è parso chiaro che per Vladimir Putin l’invasione dell’Ucraina era stato un pessimo affare.
Quanto meno, un affare partito da presupposti sbagliati e probabilmente destinato a creargli problemi inattesi anche in casa. La nuova fase della guerra – quella iniziata il 24 febbraio del 2022, per capirci – si sta rivelando un buco nero, che mangia risorse, uomini e mezzi. Tutto questo, giunti al mese numero nove di combattimenti, sembra mettere sempre più in discussione il consenso attorno al capo del Cremlino.
La cosa certa, filtrata nonostante i blocchi all’informazione, è che giovani russi non hanno voglia di andare a morire in Ucraina, per una guerra che – al di là della retorica patriottica e antinazista del capo – non capiscono. Doveva finire in 72 ore, quella “operazione speciale” contro Kiev, e invece rischia di trasformarsi in una lunga agonia nel freddo dell’inverno alle porte.
Che il dissenso interno sia reale lo dimostrano i dati sulla fuga verso l’estero nei giorni successivi alla “mobilitazione”. Il decreto firmato da Putin è diventato subito operativo. Prevede che i cittadini mobilitati vengano trattati come “truppe a contratto”, cioè con salari superiori alla media e di durata indefinita. A essere esentati sono solo i troppo giovani o i malati. Secondo il Ministero della Difesa, i riservisti dovrebbero diventare 300.000 e andare a rimpolpare l’armata devastata dalla resistenza ucraina.
La reazione è stata istantanea: in poche ore, migliaia di giovani e meno giovani sono saliti in macchina e sono andati verso un qualsiasi confine. L’espatrio è sembrato a molti l’unica via per evitare il fronte. I numeri sono stati talmente consistenti da portare il governo finlandese – erano i primi di ottobre – a chiudere la frontiera, per evitare il collasso. I paesi europei, per altro, hanno reagito in modo differente, senza una strategia comune. Lettonia ed Estonia hanno, ad esempio, annunciato che non avrebbero concesso alcuna protezione internazionale a chi era in fuga dalla Russia. La Germania, al contrario, ha aperto le sue porte ai potenziali richiedenti asilo. La ministra dell’Interno tedesca, Nancy Faeser, in un’intervista alla Frankfurter Allgemeine Zeitung, ha spiegato che “chi si contrappone coraggiosamente al regime di Putin, e per questo motivo è in grande pericolo, può chiedere asilo per persecuzione politica in Germania. Da mesi la Germania accoglie russi dissidenti che sono perseguitati e minacciati”. Partito Liberale Democratico (Fdp) e Verdi hanno chiesto al governo di accogliere i disertori russi e il ministro della Giustizia, Marco Buschmann, della Fdp, ha preso posizione: “molti russi lasciano la loro patria. Chi odia la via scelta da Putin e ama la democrazia è benvenuto di cuore in Germania”.
Tutto questo accadeva mentre Putin si affannava a spiegare le ragioni della sua “chiamata alle armi”, sperando di smussarne gli effetti. La mobilitazione, ha dichiarato, si è resa necessaria “perché l’Occidente ha superato ogni limite, fornendo armi sofisticate all’Ucraina. Vuole – ha continuato – indebolire, dividere e distruggere la Russia” Il ministro della Difesa, Sergej Shoigu, ha aggiunto che “le condizioni sul campo sono difficili. Non stiamo combattendo contro l’Ucraina, ma contro l’Occidente”. Un impianto ideologico forte, quindi, quello messo in campo dalla propaganda del Cremlino, che doveva in qualche modo convincere i russi. Non c’è riuscito.
Ai disertori – che rischiano a questo punto sino a 10 anni di carcere – si sono aggiunti i tanti che protestano in strada. Quanti? Il numero, dicono gli osservatori, non è quantificabile. Sappiamo che le proteste nelle ore immediatamente successive alla mobilitazione sono state numerose e diffuse. Spesso si è trattato di manifestazioni silenziose, prive di manifesti o slogan, addirittura con le persone distanziate per non dare l’idea di essere in un corteo. Comunque sia, almeno 700 persone sono finite in carcere. Si aggiungono alle migliaia già imprigionate in questi mesi, tutte perché contrarie alla guerra.
A dispetto del regime e della rigidità di leggi e controlli di polizia, c’è dissenso in Russia. Putin, capace in questi anni di limitare le opposizioni e “ammorbidire” la mancanza di democrazia reale con il sogno di una “prosperità economica individuale”, ora pare avere armi spuntate. La propaganda di guerra gioca sul sentimento patriottico, richiamando continuamente alla “guerra contro il nazismo” vinta nel 1945 e alla resistenza contro un Occidente “corrotto e che vuole distruggere la Russia”. In parte funziona, ma le crescenti difficoltà economiche, i troppi morti al fronte e la mancanza di rapporti con l’estero stanno facendo crescere il fronte antagonista.
La fragilità economica della Russia si sta rivelando il peggior nemico per Putin. Già prima della guerra, il paese era considerato un “gigante militare e un nano economico”, con un prodotto interno lordo inferiore ai 1.500 miliardi di dollari l’anno. Dall’invasione dell’Ucraina le cose appaiono peggiorate. Trovare indicatori certi è come cercare un igloo in una tempesta di neve: quasi impossibile. Da febbraio 2022, Banca centrale russa (Cbr) e Istituto nazionale di statistica hanno evitato di pubblicare qualsiasi dato. Contemporaneamente, le organizzazioni internazionali hanno ritirato i loro ricercatori, così come le banche d’affari. In breve, è calata la nebbia più totale sull’economia russa. E nella nebbia si sono scatenate le ipotesi. Putin e i suoi sostenitori continuano a mostrare dati che dimostrerebbero come le sanzioni internazionali e la guerra non abbiano minimamente intaccato il “benessere del popolo russo”. Dall’altra parte, gli osservatori assicurano che Putin utilizza dati parziali, che nascondono il crollo verticale dell’economia.
C’è una verità dimostrabile? Al momento pare di no. Quello che sappiamo è che in questi mesi il rublo ha perso oltre un quarto del suo valore rispetto al dollaro e che moltissime aziende europee e statunitensi hanno lasciato il paese. La conseguenza è stata il crollo e la sospensione delle trattive alla Borsa, con una revisione al ribasso delle previsioni sul prodotto interno lordo. Si è passati, per il 2022, da un +2,5% a un -10%.
Il paese è stato spinto alla recessione dagli alti tassi di interesse introdotti in primavera per resistere alla svalutazione del rublo. A peggiorare il tutto c’è stata la crescita dell’inflazione, ora al 13,5% e il rischio che le fabbriche si svuotino di lavoratori. Anche questa, dicono gli economisti, è una delle conseguenze della guerra e della mobilitazione voluta da Putin. I lavoratori richiamati alle armi non saranno facilmente sostituiti e, quindi, le fabbriche si troveranno in emergenza occupazionale. Qualche punto di Pil in meno, a fine anno, potrebbe arrivare anche da questo fenomeno. Altro motivo di crisi è che molte città russe fondano la loro economia su un solo settore industriale: colpite dalle sanzioni, stanno affondando. Così, sono in molti a trasferire le loro risorse fuori dal paese. Nel primo trimestre del 2022, gli stranieri avrebbero portato via investimenti diretti per circa 15 miliardi di dollari. Lo dimostra un dato: nel maggio 2022, il valore in dollari delle rimesse russe in Georgia è stato dieci volte più alto rispetto all’anno precedente.
Ma a questi dati negativi, secondo alcuni analisti, corrispondono elementi positivi. Ad esempio, la produzione industriale, in questi mesi, è calata solo dell’1,8%. Il tasso di disoccupazione è fermo al 3,9% e se è vero che il crollo del rublo e la fuga delle aziende occidentali ha portato a un aumento dei prezzi, è anche vero che i russi non subiranno la spinta inflattiva nata dall’aumento del costo del gas.
Quindi luci e ombre, che offrono a Putin la possibilità di insistere, nonostante tutto, in questa guerra. Anche il fronte del dissenso politico resta difficile da individuare. Si sa che esistono organizzazioni contrarie alla guerra e che le manifestazioni contro l’invasione dell’Ucraina sono state numerose e represse duramente. Secondo i dati di Amnesty International, tra il 24 febbraio e il 7 aprile 2022 sarebbero stati arrestati almeno 15.413 manifestanti. Solo il 6 marzo, circa 5.000 persone sono state arrestate in 69 diverse città russe e il 13 marzo oltre 900 persone sono state arrestate in 39 città. Secondo OVD-Info, una ong russa per la difesa dei diritti umani, dal 24 febbraio la polizia avrebbe arrestato anche 113 minorenni. La cosa peggiore, però, è che la voce dei pacifisti e dei contrari alla guerra fatica a farsi sentire anche in Europa e negli Stati Uniti. Governi e opinione pubblica appaiono più interessati alle analisi geopolitiche o alle notizie dal fronte. Così, chi è contrario alla guerra diventa poco più di un acufene nel fragore della battaglia.
Eppure, nelle settimane prima della crisi, fra novembre 2021 e febbraio 2022, erano stati molti i movimenti che da Russia e Ucraina avevano cercato di far sentire la loro voce. Tentativi oscurati dalla cronaca e dalla politica di guerra. In Russia c’è chi tiene nota precisa di quanto si sta facendo contro la guerra e contro il regime. Se ne occupa il Movimento per l’obiezione di coscienza russo. Raccoglie ogni singola azione, si tratti di iniziative individuali o di manifestazioni collettive. Vengono documentate anche le azioni di persone piuttosto note o celebri, come le dimissioni nel febbraio 2022 della direttrice del Teatro Statale di Mosca, Elena Kovalskaya, e del direttore del Teatro Bolshoi di Mosca, Tugan Sokhiev. Tra i tanti appelli e le tante petizioni spiccano quello dell’attivista per i diritti umani Lev Ponomarev, sottoscritto da quasi 1.200.000 persone, e la Lettera aperta a Putin inviata dall’Università di Mosca, precisamente dal Moscow State Institute of International Relations (MGIMO) del Ministero degli Affari Esteri, sottoscritta da circa 300 persone: “Noi studenti, laureati e docenti dell’Istituto Statale di Relazioni Internazionali, Università di Mosca, firmando questa lettera condanniamo inequivocabilmente le azioni militari della Federazione Russa sul territorio dell’Ucraina”.
Come ha scritto in Italia il sito Peacelink, punto di riferimento per il pacifismo italiano, si tratta di un lungo elenco di “scelte coraggiose, che testimoniano con l’esistenza di una pluralità di resistenze, che l’opzione militare e armata non è l’unica, che sono in atto diverse azioni di lotta e di resistenza civile nonviolenta all’invasione russa che dovrebbero essere maggiormente conosciute e diffuse dai media, oltre ad essere riconosciute e sostenute dai vari governi nazionali e dagli organismi internazionali, che finora hanno concentrato la loro attenzione quasi esclusivamente sulla difesa militarizzata e sugli ulteriori investimenti necessari per alimentarla ed incrementarla. All’enfasi sulla risposta armata, infatti, si deve rilevare come non corrisponda eguale attenzione sulle prospettive di pace, sulle possibilità della diplomazia, sulle proteste in Russia, sulla difesa civile non armata e sulla resistenza nonviolenta all’invasione”. Se a Mosca accade questo nel silenzio generale, anche a Kiev i pacifisti sono in azione da subito e sono altrettanto oscurati. Sono state documentate le immediate azioni di “resistenza non violenta” messe in atto da cittadini comuni, che sceglievano di mettersi disarmati davanti ai carri armati russi o di cambiare i cartelli stradali per disorientare gli invasori.
Secondo Yurii Sheliazhenko, portavoce del Movimento Pacifista Ucraino e membro dell’European Bureau of Conscientious Objection, di tutto questo governi e opinione pubblica europea hanno tenuto poco conto. In un’intervista da Kiev, nel marzo 2022, ha ricordato come “il sostegno all’Ucraina da parte dell’Occidente sia principalmente militare, con l’aggiunta delle dolorose sanzioni economiche alla Russia. Ed è non meno deludente assistere al tipo di reporting che va per la maggiore: si concentra sulla guerra e per lo più ignora la resistenza nonviolenta alla guerra”. Sheliazhenko ha parlato anche della Russia, di chi in quel paese è contrario alla guerra e lo manifesta apertamente, nonostante la pesante repressione. “Ammiro le massicce manifestazioni contro la guerra in Russia – ha detto – con i coraggiosi cittadini pacifisti che si oppongono in modo nonviolento alla macchina da guerra di Putin sotto le minacce di arresto e punizione”.
Nell’intervista, interessante è il modo in cui Sheliazhenko chiarisce il rapporto fra pacifismo e coraggio, spesso messo in discussione da chi pensa alla resistenza armata come unica forma di lotta possibile contro chi invade. “Come pacifista io penso che non sia giusto fuggire, e quindi resto qui, con l’Ucraina pacifista. E spero fortemente che l’Ucraina pacifista non venga distrutta da questo mondo sempre più polarizzato e militarizzato”.
Nelle stesse settimane, a Kiev e in Ucraina veniva da intellettuali e docenti un manifesto contro la guerra. Nel documento, poco diffuso in Europa, chiedevano di non aiutare il loro paese riarmandolo, ma dotandolo della necessaria protezione e legittimità internazionale, appoggiandolo nella ricerca di una soluzione pacifica.
Il rifiuto a prendere le armi, quindi, senza abbandonare l’idea di resistere. È quello che ha spiegato Andre Kamenshikov, direttore ucraino di Nonviolence International. “Credo che ci siano moltissimi modi in cui le persone, gli ucraini e le ucraine, possano resistere in modo nonviolento all’attuale aggressione – ha dichiarato – e, in effetti, questo sta accadendo in molti luoghi invasi dalle truppe russe. Vediamo una fortissima resistenza dei militari ucraini contro l’invasione, ma vediamo anche una resistenza generale della popolazione. Ogni giorno sempre più persone, la gente comune, i cittadini e le cittadine ucraine, trovano il modo di resistere in modo nonviolento”.
Questa la situazione dopo nove mesi di guerra. Difficile immaginare che un cessate il fuoco possa arrivare in queste condizioni. Il presidente ucraino Zelensky sa che deve conquistare sul campo il “miglior risultato possibile” per arrivare al tavolo negoziale da un punto di forza. Le opzioni di soluzioni pacifiche per questa guerra si erano esaurite ben prima del giorno dell’invasione, il 24 febbraio scorso, nelle incertezze della non applicazione del protocollo di Minsk del 2014 – quello che tentava di tracciare una rotta di pace fra governo centrale e indipendentisti russi – e nelle mancate riforme costituzionali per concedere l’autonomia alle regioni del Donbass. Lo stesso vale per Putin. Ritirarsi ora significherebbe ammettere di avere perso e questo, probabilmente, segnerebbe la fine del suo potere a Mosca. Continueranno, quindi, a parlare le armi, a dispetto delle crisi economiche, della morte di migliaia di persone, della distruzione di città, culture, vite.
La voce dei pacifisti e di chi si oppone al massacro rimarrà sullo sfondo, praticamente inascoltata, mentre le grandi e medie potenze continueranno a mostrare i muscoli e a riposizionarsi sulla scacchiera mondiale. Da questa ormai lunga guerra usciremo tutti sconfitti. Il mondo sarà davvero diverso da prima.
Raffaele Crocco, giornalista, è ideatore e direttore dell’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo e presidente dell’Associazione 46° Parallelo. Ha lavorato per quotidiani, televisioni, settimanali, radio, siti web dedicando particolare attenzione alle guerre nell’ex Jugoslavia, in America Centrale, nel Vicino Oriente.