lunedì, Aprile 29, 2024
Cultura

L’ultima vittima di Hiroshima e la nostra coscienza atomica

di Andrea Panzavolta

«Il sapere non è sapienza» («tó sophón d’ou sophía»), affermano le seguaci di Dioniso nelle Baccanti di Euripide (v. 395). Questo verso, dall’indiscutibile sapore gnomico, potrebbe figurare in apertura del carteggio intercorso tra il filosofo tedesco Günther Anders (pseudonimo di Günther Stern) e Claude Eatherly, il pilota dell’U.S. Army Air Force che il 6 agosto 1945 a bordo dello Straight Flush precedette su Hiroshima l’Enola Gay, dando il via libera al lancio di «Little Boy»: la prima bomba atomica della storia. Il carteggio è stato ripubblicato da Mimesis, dopo l’edizione Einaudi degli anni ’60, con il significativo titolo L’ultima vittima di Hiroshima.

L’epistolario prende le mosse dal vivo interesse di Anders per l’affaire Eatherly, da lui definito il «caso Dreyfus» del ventesimo secolo. Per quale motivo, iniziò a domandarsi il filosofo leggendo i fatti di cronaca riguardanti il pilota statunitense, Eatherly, dopo aver aspramente biasimato quella missione che segnò la fine della guerra e insieme quella di miglia di innocenti, e dopo aver commesso piccoli e maldestri delitti, fu rinchiuso in un reparto psichiatrico e lì trattenuto con ogni sorta di pretesti da parte dell’autorità militare, con la connivenza dei familiari? Perché soltanto lui, unico tra tutti i cosiddetti Victory Boys, rifiutò qualsiasi riconoscimento al valore militare, precludendosi così la possibilità di ottenere cospicui vantaggi?

Sparigliando le carte e facendo ciò che un filosofo degno di questo nome dovrebbe fare, vale a dire ragionare e cercare di noscere per causas, Anders giunse alla conclusione che se vi era un uomo sano di mente e degno di essere appellato ‘maestro’ questi era proprio Claude Eatherly, per il semplice fatto di non essere sfuggito dinanzi alla propria coscienza o, il che è lo stesso, per aver avuto il coraggio di giudicare i fatti con la propria testa e di svincolarsi, così, da una rassicurante omologazione.

Agli occhi di Anders Eatherly è l’esatto opposto di colui sul quale in quel medesimo scorcio di tempo si appuntava l’interesse dell’opinione pubblica mondiale dopo la sua rocambolesca cattura da parte del Mossad: Adolf Eichmann. Pur con tutte le differenze del caso (il primo era un soldato impegnato in regolari operazioni belliche, il secondo, invece, un burocrate chiamato a presiedere il buon funzionamento della “soluzione finale”), un dato li accomuna: quello di essere stati, entrambi, un ingranaggio del sistema, una delle innumerevoli rotelle dell’apparato, una piccola vite di un complesso meccanismo.

«Ho soltanto obbedito agli ordini» si ostinava a ripetere Eichmann durante il processo a Gerusalemme. Lo stesso argomento avrebbe potuto pronunciarlo anche Eatherly, pure lui costretto a dare esecuzione a ordini impartitegli dai superiori. Ma se per il primo proprio questa frase era un valido salvacondotto per non essere giudicato colpevole, per il secondo invece essa era la prova schiacciante della propria responsabilità. Se il primo ravvisa nel «castello» – non suoni peregrino il riferimento all’omonimo romanzo di Kafka – un formidabile tranquillante per narcotizzare la coscienza, il secondo al contrario scorge in esso una paurosa minaccia alla propria integrità morale. Se il primo per ben quindici anni (tanto durò la sua latitanza in Argentina) non sentì il minimo pungolo a costituirsi (spia di una totale sordità alle «voci di dentro»), il secondo dal giorno stesso in cui autorizzò lo sgancio della bomba atomica decise di ascoltare coloro che in un istante furono inceneriti.

Forse non è possibile comprendere pienamente queste osservazioni se non si considera l’esecrabile novitas inaugurata della macchina di stermino nazista, quella cioè di aver annullato la responsabilità personale all’interno di un corpo mistico chiamato ‘sistema’. Se ai demoni dostoevskijani si poteva almeno imputare una cattiva coscienza e l’uso consapevole della menzogna, ai demoni del Novecento, seduti alla scrivania con la svastica alle spalle, neppure questo può più essere eccepito.

Ma se così stanno le cose, forse non si può pensare nulla di più mostruoso. Come afferma Anders, Eichmann, e con lui milioni di volenterosi carnefici, pur non avendo agito direttamente ad Auschwitz, hanno tuttavia lavorato per Auschwitz. Terribile e nefanda novitas davvero, sotto il cui segno trascorre l’epoca che stiamo ancora vivendo: quella della tecnocrazia (con pulsioni tecno-totalitarie) nella quale l’operatore – termine anodino che comprende una massa di persone che va dal semplice manovale al dirigente – nulla sa circa l’esito ultimo della propria azione: per questo non possiamo non dirci tutti «figli di Eichmann», per riprendere il titolo di un altro celebre lavoro di Anders.

Ma c’è di più. La Shoah e Hiroshima hanno mostrato in modo irrefutabile come le «ridotte capacità della nostra immaginazione» siano ormai irriducibili ai «possibili effetti delle azioni umane». L’abnorme progresso della tékne, infatti, ha segnato il ritorno di Epimeteo, il titano che comprende-dopo, che alle trionfanti scoperte del fratello Prometeo risponde con un mesto sospiro. Ma è proprio questo gemito il «monstrum» con cui dobbiamo fare i conti e che invece siamo portati, proprio perché infandum, ‘indicibile’, a dimenticare. Scrive Anders: «Tendiamo a considerare come inesistente tutto ciò che non siamo in grado di classificare». E anche quando si tenta di farlo rientrare all’interno di una definizione, ecco che si presenta un rischio non meno insidioso, quello di impiegare parole che ne sminuiscono la minaccia: «Non dovresti permettere che l’oggetto il cui effetto supera ogni immaginazione sia classificato in modo falso con un’etichetta schiocca o minimizzante». Chiamare «Little Boy» e «Fat Man» le bombe che distrussero rispettivamente Hiroshima e Nagasaki non è soltanto una questione di pessimo gusto: significa violentare le parole e quindi offendere la ragione e quindi profanare lo spirito.

Claude Eatherly ebbe il coraggio di fissare gli occhi sul mostruoso e questo fece di lui un autentico eroe tragico, anche se la società si adoperò per sottrargli proprio ciò che fonda il Tragico, e cioè la coscienza, maturata «tó páthei» ossia «attraverso la sofferenza», di aver commesso una colpa. Scrive con impressionante lucidità Eatherly: «La verità è che la società non può accettare il fatto della mia colpa senza riconoscere al tempo stesso la sua colpa ben profonda». Se per il sentire comune il lancio delle due bombe atomiche sul Giappone fu una scelta inderogabile, per Eatherly, invece, esso fu l’inizio di una nuova epoca che avrebbe richiesto una prudenza e soprattutto una capacità di analisi e di giudizio quale mai prima di allora era stata richiesta all’umanità. Il pilota americano prese una decisione che agli occhi dei più fu giudicata stolta, se non addirittura scandalosa: egli non solo considerò la propria azione una ferita inferta all’Umano, ma rinunciò altresì a lenire la colpa da cui si sentiva torturato, finché questa, scrive Anders, non si trasformò in un grido che ha il timbro dell’imperativo categorico: «Non deve accadere mai più».

Quando nell’esistenza terrena irrompe «l’atto mostruoso» («das Ungeheure», la citazione è da Schiller) ecco che le normali categorie di pensiero escono dai cardini e occorre pensarne di nuove. In tempi eccezionali è necessario, allora, essere a-normali. Scrive a riguardo Anders: «[…] se Claude, nonostante l’esperienza che ha fatto, avesse continuato a vivere come prima, avrebbe dato prova di superficialità morale. La sua ‘malattia’ testimonia della sua sensibilità morale. Non ci si può attendere allegria o indifferenza da chi è passato attraverso tanta miseria, e non è lui ad essere anormale, ma l’esperienza che ha fatto; mentre sarebbe anormale reagire in modo perfettamente ‘normale’ a un’esperienza come quella».

Il soggetto responsabile in tempi eccezionali non si domanda ‘come posso uscire dalla distretta’, bensì ‘cosa posso fare ora affinché alle generazioni future sia risparmiato l’Inumano’. Il soggetto responsabile, ancora, non delega ai posteri, ma si sente delegato. Non cerca una facile scappatoia immediata, ma avverte l’obbligo di rispondere alle cataste di morti che quegli stessi tempi eccezionali hanno eretto.

Delega si intitola una poesia di Primo Levi, altro testimone ineffabile della nequitia temporum. I versi che la suggellano recitano: «Abbiamo / pettinato la chioma delle comete, / decifrato i segreti della genesi, / calpestata la sabbia della luna, / costruito Aushwitz e distrutto Hiroshima. / Vedi: non siamo stati inerti. / Sobbarcati, perplesso; / non chiamarci maestri». Ecco l’ammonimento che per Eatherly divenne carne della sua carne: «Sobbarcati, perplesso», fatti carico di ciò che è accaduto e bada, come scrive Bertolt Brecht nella Vita di Galileo, che «ad ogni nostro éureka non [risponda] un grido di dolore universale». Il sapere, infatti, è cosa diversa dalla sapienza.

In una fase storica in cui il monstrum atomico pare essersi risvegliato e scuotere pericolosamente le catene che lo tenevano avvinto, la figura di Eatherly, «l’ultima vittima di Hiroshima», assume contorni quasi consolanti.

Andrea Panzavolta è giornalista pubblicista. Collabora alla rubrica “Film in discussione” di Iride. Filosofia e discussione pubblica, e ad alcune riviste di critica cinematografica. Dal 2014 è il direttore artistico della rassegna concertistica forlivese “Passioni in musica”.