Accoglienza e architettura: sull’ospitalità dei migranti in Italia
di Sonia Paone
È stata inaugurata a Scanzano Jonico, il 24 maggio scorso, l’Abitazione della Pace progettata e donata dallo studio “Mario Cucinella Architects”. Si tratta di un edificio inserito in un’area agricola, immerso nel verde e la cui copertura s’ispira alla morfologia delle ali delle farfalle, rappresentando così la rinascita.
Il progetto viene da lontano. Infatti, la struttura è stata voluta dalla Fondazione Città della Pace per i Bambini Basilicata con l’obiettivo di delineare una nuova prospettiva di sviluppo in un territorio che, a inizio anni Duemila, era stato scelto come sede del deposito nazionale di scorie nucleari, quindi come discarica. Progettata per l’accoglienza di famiglie di rifugiati, l’Abitazione della Pace è uno spazio di vita che si pone l’obiettivo di rovesciare l’immagine del vuoto e della sterilità associata alla discarica. Realizzata con il sostegno degli imprenditori Nicola Benedetto e Pasquale Natuzzi, la struttura accoglie già da novembre scorso i rifugiati del corridoio umanitario della Caritas, in collaborazione con la Parrocchia della Santissima Annunziata, mentre nelle ultime settimane è stata inoltre messa a disposizione per ospitare profughi ucraini.
Il valore simbolico di questa architettura, che prova a risignificare un territorio promuovendo i valori della solidarietà e dell’inclusione, è altissimo. L’Abitazione della Pace rappresenta cioè un nuovo seme in un contesto, come quello dell’accoglienza dei migranti, in cui il progetto architettonico è praticamente assente.
Dopo le prime strutture di emergenza previste dalla cosiddetta “Legge Puglia” del 1995, i centri di accoglienza in Italia sono stati istituiti dalla legge Turco-Napolitano del 1998. Collocati in aree marginali e periferiche, in edifici abbandonati come ex ospedali, ex fabbriche e caserme, o composti da container e roulotte poggiati su aree ferroviarie e aeroportuali dismesse, si caratterizzavano per un estremo denudamento materiale e relazionale. I migranti vi erano letteralmente “depositati”, senza nessun rapporto con il contesto locale e presi in carico solo dalle logiche dell’assistenza umanitaria.
Da allora non molto è cambiato, nonostante la maggiore complessità del sistema di accoglienza che distingue di fatto, ormai da diversi anni, fra prima e seconda accoglienza. La prima accoglienza è svolta, innanzitutto, in centri di grandi dimensioni dove i migranti appena arrivati in Italia vengono identificati e possono avviare, o meno, la procedura di domanda di asilo: questa funzione è svolta, oggi, dai cosiddetti hotspot dove i migranti ricevono le prime cure mediche, vengono sottoposti a screening sanitario, vengono identificati e fotosegnalati, possono richiedere la protezione internazionale, ovvero possono essere espulsi. Terminate le procedure di identificazione e foto-segnalamento, i migranti che hanno manifestato la volontà di chiedere asilo in Italia vengono trasferiti presso le strutture di accoglienza di primo livello, ove permangono in attesa della definizione della domanda di protezione internazionale. Coloro che non fanno richiesta di protezione internazionale, o non ne hanno i requisiti, sono invece indirizzati ai Centri di permanenza per il rimpatrio. Come nei primi centri, istituiti negli anni Novanta, ritroviamo nelle attuali strutture di prima accoglienza la stessa “liminarità”: spazi allestiti spesso in maniera precaria in container o tensostrutture e circondati da reti metalliche e recinzioni, distanti da tutto e tutti.
La seconda accoglienza è realizzata attraverso il coinvolgimento dei territori, più nello specifico dei Comuni i quali, aderendo alla rete Sistema di protezione per richiedenti asilo (SPRAR), oggi ribattezzata SAI (Sistema Accoglienza e Integrazione), possono realizzare progetti di accoglienza integrata. Tale sistema ha l’obiettivo dell’inserimento, dell’inclusione e dell’autonomia dei richiedenti asilo. Nonostante la presa in carico da parte dei territori, l’implementazione di un sistema di seconda accoglienza non ha significato l’inizio di un coinvolgimento del sapere architettonico nella definizione degli spazi e, di conseguenza, non si è generato un pensiero che abbia fatto dell’accoglienza un’occasione per la valorizzazione dei territori anche attraverso la progettazione dello spazio, come prova invece a fare oggi l’Abitazione della Pace.
Inoltre, da quando il sistema di seconda accoglienza è stato costituito, i progetti presentati dai comuni sono sempre stati pochi rispetto al numero degli aventi diritto. Per sopperire a ciò, nel 2012 sono stati istituiti i Centri di accoglienza straordinaria (CAS), che rappresentano quindi un ripiegamento verso soluzioni emergenziali. Infatti, gli spazi da adibire a CAS sono individuati dalle Prefetture che stipulano convenzioni con associazioni, cooperative e strutture ricettive, una volta sentito l’ente locale in cui il soggetto gestore è localizzato. Si tratta quindi di soluzioni emergenziali che, come si sa, sono sempre povere di senso urbano. Non a caso, le strutture che ospitano CAS sono molto spesso del tutto inadeguate: come, ad esempio, residence in zone turistiche abitate solo in estate, oppure edifici sotto-standard dal punto di vista igienico sanitario e/o collocati in zone periferiche, vuoti che si riempiono.
Il carattere di provvisorietà e di precarietà a gradi e in modi differenti finisce per connotare tutti gli spazi di accoglienza, ledendo in molti casi anche la dignità dei migranti. Nonostante l’immigrazione sia ormai un fenomeno strutturale nel nostro Paese, la persistenza di una logica emergenziale nella gestione dei flussi e la costruzione politico-mediatica delle migrazioni come pericolo – che ha anche ostacolato la diffusione di una presa in carico dei migranti a livello locale – hanno impedito la promozione di una cultura architettonica dell’accoglienza. La logica emergenziale ha sottratto alla riflessione architettonica temi centrali per la disciplina, come quelli dell’ospitalità e delle nuove forme dell’abitare.
Il progetto dell’Abitazione della Pace indica una strada da seguire e testimonia la straordinaria valenza architettonica delle sfide poste dalle migrazioni. L’auspicio è che non rimanga una magnifica eccezione.
Una prima versione di questo articolo è stata pubblicata sul Giornale dell’Architettura.
Sonia Paone è Professoressa Associata in Sociologia dell’Ambiente e del Territorio presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa, membro del CISP e Presidente dei Corsi di Laurea in Scienze per la Pace: Cooperazione Internazionale e Trasformazione dei Conflitti.