sabato, Novembre 23, 2024
Diritti

Nel 2020 record di respingimenti dall’Italia verso la Slovenia

Nel 2020 l’Italia si è resa protagonista di un elevato numero di respingimenti di migranti verso la Slovenia, che a suo volta li ha respinti verso la Bosnia-Erzegovina. Quest’ultima si ritrova attualmente a gestire una situazione umanitaria molto difficile, a causa dell’inverno e della pandemia. Duccio Facchini, per Altreconomia, ha analizzato i dati messi a disposizione dal Ministero dell’Interno: ne emerge una dura politica di respingimenti, soprattutto a seguito di una Circolare ministeriale firmata dal segretario di Gabinetto, resa nota alla stampa solo recentemente. Nella attuale crisi umanitaria in Bosnia, dunque, una parte di responsabilità è anche in capo al governo italiano.

 

di Duccio Facchini

 

La polizia di frontiera di Trieste e Gorizia ha “riammesso” 1.240 migranti e richiedenti asilo tra gennaio e metà novembre (il 420% in più rispetto al 2019). Diversi di loro sono stati respinti a catena fino in Bosnia, dove la situazione è precipitata: in migliaia sono abbandonati al gelo, nei boschi. I dati del Viminale ottenuti da Altreconomia.

Mentre in Bosnia ed Erzegovina precipita la condizione di migliaia di persone migranti lungo la “rotta balcanica” -abbandonate al freddo, senza cibo e acqua, in particolare dopo la chiusura del campo di Lipa-, emergono le responsabilità in capo all’Italia per i respingimenti condotti al confine sloveno con sempre maggior intensità dalla primavera di quest’anno.

Tra il primo gennaio e il 15 novembre 2020 il nostro Paese ha infatti “riammesso” in Slovenia 1.240 persone, a loro volta respinte a catena fin verso il territorio bosniaco. Si tratta di numeri impressionanti, specie se confrontati con quanto accaduto nello stesso periodo del 2019, quando furono “solo” 237 (significa più 423%). I dati aggiornati sono stati trasmessi il 28 dicembre 2020 ad Altreconomia dal ministero dell’Interno dopo un accesso civico generalizzato e riguardano come detto le “riammissioni attive” effettuate dalla polizia di frontiera a Trieste e a Gorizia a danno dei migranti e richiedenti asilo.

Da metà maggio, con il pretesto del Covid-19, le autorità italiane hanno intensificato le “riammissioni” in forza di precise direttive del governo contenute in una circolare (mai trasmessa alla stampa) a firma di Matteo Piantedosi, già capo di gabinetto del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese (e prima di Matteo Salvini), nominato nuovo prefetto di Roma nell’agosto di quest’anno. Anche i richiedenti asilo sono oggetto dei rintracci e delle riammissioni, come dichiarato da Achille Variati, sottosegretario del ministero dell’Interno, e rimasto agli atti parlamentari del 24 luglio scorso durante la sua risposta a un’interrogazione del deputato Riccardo Magi. L’avvocata Anna Brambilla dell’Asgi, parte della rete “RiVolti ai Balcani”ha inoltre documentato su questo giornale il caso di Ahmed, fermato a Trieste dalla polizia italiana nel luglio 2020, identificato senza la possibilità di formalizzare domanda di protezione internazionale e poi riammesso in Slovenia e infine in Croazia in un susseguirsi di violenze.

I numeri comunicati dal Viminale mostrano gli effetti della “circolare Piantedosi”, implementata dalla Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere: nei primi sei mesi del 2020 le “riammissioni attive” a Trieste e a Gorizia sono state 377, interessando in particolare cittadini del Pakistan (144), Afghanistan (66), Marocco (47), ma anche Nepal (11), Somalia (tre), Siria (due). Dal primo luglio al 15 novembre c’è stato il salto: 863, a danno di pakistani (395), afghani (246), bangladesi (97), turchi (30), eritrei (27) e poi ancora siriani (tre). Dinamica simile ma non così pronunciata per i “rintracci a terra” di persone in posizione “irregolare” in entrata nel territorio nazionale a Trieste e Gorizia. Nel primo semestre erano stati 1.754. Dal primo luglio a metà novembre 2.294.

Quanti dei respinti dall’Italia si ritrovino oggi catapultati nei boschi bosniaci al gelo, tra la vita e la morte, è un dato difficile da ricostruire, se non “impossibile”, osserva Silvia Maraone, project manager della Ong Ipsia (Istituto Pace Sviluppo Innovazione ACLI). “Dalle testimonianze raccolte sul campo -spiega- mi sono fatta l’idea che siano uno su dieci di coloro che tentano il ‘game’ a piedi”.

 

Fonte: Altreconomia, 28 dicembre 2020