sabato, Novembre 23, 2024
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Nei territori zapatisti del Chiapas durante la pandemia

Lo Stato messicano del Chiapas è uno dei più poveri del paese: il 76% della popolazione vive in condizione di povertà e la sanità pubblica è carente. Dall’insurrezione armata del 1994, l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) ha costruito in questo territorio un sistema sanitario, di governo, di giustizia e di educazione totalmente autonomi dalla Stato. L’EZLN, contrariamente alle istituzioni messicane, ha dichiarato l’allerta rossa per rispondere all’emergenza sanitaria sin dalle prime fasi dell’epidemia, quando in Messico si contavano solo 82 persone positive al Coronavirus. Questo articolo pubblicato su Altreconomia è un reportage dal cuore della Selva Lacandona, tra i promotores de salud zapatisti che hanno raggiunto gli ambulatori più remoti del paese: qui solo nel 16% dei casi sono presenti medici, per evitare il diffondersi del contagio nelle comunità contadine e indigene.

 

di Orsetta Ballani

 

Il dottor Joel Heredia guida sulla strada che dalla città di Ocosingo, nello Stato meridionale del Chiapas, in Messico, porta al villaggio di Las Tazas, nel cuore della Selva Lacandona. Porta una mascherina e ha il bagagliaio pieno di brochure sul nuovo Coronavirus che Sadec (Salud y desarrollo comunitario), la ong che ha fondato, ha preparato per i promotores de salud, zapatiste e zapatisti che curano con le erbe e con la medicina occidentale. È il 19 maggio e sta accompagnando il suo collega Luis Enrique Fernández Máximo alla clinica autonoma zapatista di Las Tazas per iniziare il suo turno di venti giorni nell’unica comunità in cui Sadec sta lavorando, visto che con la dichiarazione di allerta rossa della Comandancia General dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), la maggior parte dei medici sono stati invitati ad uscire dal territorio zapatista.

L’EZLN ha dichiarato l’allerta rossa il 16 marzo 2020, quando in Messico c’erano solo 82 persone positive al nuovo Coronavirus: “Considerando la mancanza di informazione veritiera ed opportuna sulla portata e gravità del contagio, così come l’assenza di un piano reale per affrontare la minaccia, considerato il compromesso zapatista nella nostra lotta per la vita; abbiamo deciso di decretare l’allerta rossa nei nostri villaggi, comunità e quartieri ed in tutte le istanze organizzative zapatiste”.

Nel comunicato il subcomandante insurgente Moisés definiva “frivolo” l’atteggiamento del presidente messicano López Obrador, che in quei giorni invitava le famiglie a non smettere di andare a mangiare fuori, e raccomandava la chiusura dei Caracoles e dei Centri di Resistenza e Disobbedienza zapatisti, sedi del governo autonomo zapatista.

Quando nel 1994 insorse in armi, l’EZLN tolse ai latifondisti più di 150 mila ettari di terra per distribuirli ai contadini, dove costruì un sistema di governo, uno di giustizia, uno di educazione e uno sanitario che sono totalmente autonomi dallo Stato. Lo ha fatto con l’aiuto di collettivi ed organizzazioni non governative come Sadec, che dal 1995 nelle aree rurali dei Municipi di Palenque ed Ocosingo organizza corsi di formazione per i promotores de salud,

“Nella facoltà di medicina ci insegnano che la salute è ‘assenza di malattia’, ma dai promotores de salud ho imparato che la salute è molto più di questo: ha a che vedere con lo stare bene con gli altri e con sé stessi, con aver voglia di fare cose e di scherzare”, spiega Heredia.

Racconta che parallelamente alla dichiarazione di allerta rossa, l’EZLN ha ordinato ai promotores de salud di lasciare le cliniche autonome presenti nei Caracoles, che sono quelle più grandi ed attrezzate, per tornare alle loro comunità di origine, dove esistono dei piccoli ambulatori zapatisti. “La strategia dell’EZLN è restringere la possibilità di movimento all’interno del territorio zapatista per evitare la propagazione del virus, e avere però la capacità di ricevere i pazienti localmente, in ogni punto in cui c’è un promotor de salud”, continua il dottore. I promotores sono stati istruiti sulle misure di prevenzione al Covid-19 e sono tornati ai loro villaggi, anche quelli più remoti, per spiegarle alla popolazione. “L’EZLN ha deciso di mettere da parte il lavoro assistenziale e concentrarsi su quello preventivo. È una strategia che comporta dei costi, ad esempio non si stanno occupando di persone che hanno altri tipi di malattie”, conclude.

Entriamo in una strada sterrata che ci porterà a Las Tazas. Ai suoi bordi cartelli colorati, con stelle rosse e disegni di volti coperti da passamontagna, ci ricordano che siamo in territorio zapatista, “dove il popolo comanda e il governo ubbidisce”. Nell’area del Chiapas sotto influenza dell’EZLN, però, non vivono solo zapatisti, ma anche persone che non fanno parte dell’organizzazione. Per questo gli zapatisti non hanno potuto bloccare totalmente l’entrata ai propri villaggi per isolarsi dal virus, come hanno fatto altre comunità indigene messicane.

La preoccupazione più grande è rappresentata dalle persone che sono migrate negli Stati Uniti o in altre regioni del Messico, come le fabbriche del Nord o le zone turistiche dei Caraibi, e che tornano al villaggio dopo aver perso il loro impiego a causa del lockdown. A Las Tazas sono 150 i migranti ritornati.

La strategia dell’EZLN nei confronti dei propri migranti di ritorno è chiara: metterli in quarantena. “Sappiamo che in alcune comunità i fratelli che vengono da fuori sono stati isolati e hanno incontrato le loro famiglie dopo 15 o 30 giorni. Questo tipo di precauzioni che state prendendo sono corrette”, dice il comandante Tacho in un messaggio vocale che è girato su Whatsapp tra i civili zapatisti.

Arriviamo alla clinica autonoma di Las Tazas. “Riceviamo una decina di pazienti al giorno, che vengono anche dalle comunità vicine, nessuno di loro aveva sintomi di Covid-19”, afferma Juan Carlos Martínez Vásquez, medico che incontriamo al nostro arrivo. Dice che la difficoltà più grande che trova a Las Tazas è la comunicazione in tzeltal, la lingua indigena che si parla in questa zona del Chiapas, ma la promotora de salud che lavora nella clinica autonoma lo aiuta con la traduzione allo spagnolo. Da lei il giovane medico ha imparato quello che non gli hanno insegnato all’università: occuparsi del paziente invece che della malattia, avvicinarsi alle persone in modo umano.

La clinica di Las Tazas esiste 25 anni, ma i murales che la adornano sono nuovi. Un cartello plastificato appeso al muro spiega che cos’è il nuovo Coronavirus e come si può prevenire. All’interno della clinica è presente una farmacia -le visite mediche sono gratuite, ma i medicinali hanno un costo-, un consultorio dentale e uno medico con una apparecchiatura per la terapia a ultrasuoni.

Il suo servizio è fondamentale per la popolazione, sia zapatista sia non, visto che l’ambulatorio pubblico di Las Tazas apre solo tre giorni alla settimana, e nelle ultime tre settimane ha aperto solo due giorni. L’ospedale pubblico più vicino e che riceve i casi gravi, eventualmente anche quelli di Covid-19, si trova ad Ocosingo, a quasi tre ore di distanza.

In Chiapas circa il 76% della popolazione vive in condizione di povertà e la sanità pubblica soffre di grandi carenze, soprattutto nelle comunità contadine ed indigene in cui, da quando è arrivato il virus, solo nel 16% dei casi sono presenti dei medici. Secondo il ministero della Sanità, tra il 28 febbraio e il 15 giugno in tutto il Messico 1.760 indigeni sono risultati positivi al Covid-19 e 327 sono morti. Dati ufficiali mostrano che a causa della marginalizzazione e della discriminazione strutturale in cui vivono da secoli, gli indigeni hanno il 70% in più di possibilità di morire a causa del nuovo Coronavirus rispetto a una persona non indigena.

Paradossalmente nei municipi di Ocosingo e Palenque la situazione è migliorata con l’arrivo dell’epidemia. “Prima non esistevano reparti di terapia intensiva in nessuna delle due città, visto che chi ne aveva più bisogno erano le donne indigene che avevano complicazioni durante il parto, di cui a nessuno importa”, dice Joel Heredia. “Ora che anche il sindaco o un deputato possono avere bisogno della terapia intensiva hanno aperto i reparti. Una cosa terribile di questa pandemia è che ha messo in luce la vulnerabilità di tutti gli esseri umani”.

Lasciamo il dottor Luis Enrique Fernández a Las Tazas per iniziare il suo turno nella clinica autonoma e partiamo. I suoi occhi che spuntano dalla mascherina sorridono e ci saluta con un cenno della mano. “Invitiamo a non perdere il contatto umano e a cambiare temporalmente i modi di saperci compagne e compagni”, ha scritto l’EZLN nel suo comunicato del 16 marzo. “La parola e l’ascolto, con il cuore, hanno molte strade, molti modi, molti calendari e molte geografie per incontrarsi. E questa lotta per la vita può essere una di queste”.

 

Fonte: Altraeconomia, 22 giugno 2020.