Cambiamento climatico e conflitti: dall’analisi nei nessi agli scenari futuri

a cura della redazione
Il 6 novembre scorso si è tenuto il webinar del programma e-COST PEACE dal titolo Peace & Climate: Bridging Science & Policy, con Halvard Buhaug del Peace Research Institute di Oslo e Caitriona Dowd dell’University College di Dublino come speakers, e con Gianluca Brunori, direttore del Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace dell’Università di Pisa come moderatore. Per restituire i contenuti principali del webinar, riportiamo la sintesi di un articolo di Halvard Buhaug che ha costituito la base del suo intervento.
Il cambiamento climatico è spesso descritto come una minaccia per gli ecosistemi, la salute e l’economia globale. Ma secondo una crescente evidenza scientifica, esso rappresenta anche una sfida profonda per la pace e la sicurezza internazionale. In un articolo pubblicato nel 2023 su Climate Risk Management, un gruppo di ricercatori guidati da Halvard Buhaug ha analizzato in modo sistematico i rischi per la pace connessi al clima nel corso del XXI secolo.
Il lavoro parte da una constatazione: il clima non causa guerre in modo diretto, ma può moltiplicare i fattori di instabilità già presenti in una società. Gli autori propongono un quadro concettuale e tre scenari futuri per comprendere come gli impatti climatici e le risposte sociali possano generare conflitti, dalle tensioni locali fino ai rischi geopolitici globali.
Cinque vie attraverso cui il clima può minare la pace
L’articolo individua cinque principali meccanismi di connessione tra crisi climatica e violenza:
-
Conflitti per le risorse naturali. La diminuzione di acqua, suoli fertili o pascoli può innescare scontri tra agricoltori, allevatori o comunità locali, soprattutto dove le istituzioni sono deboli.
-
Crisi economiche e perdita dei mezzi di sussistenza. Disastri climatici e siccità riducono redditi e occupazione, minando la stabilità sociale e alimentando il malcontento verso i governi.
-
Aumenti dei prezzi alimentari. Shock climatici nei principali paesi produttori possono far impennare i prezzi del cibo, provocando proteste urbane e rivolte, come accadde durante le rivoluzioni arabe.
-
Migrazioni forzate e mobilità. La perdita di terre abitabili o coltivabili costringe milioni di persone a spostarsi, talvolta generando tensioni con le comunità ospitanti.
-
Fattori tattici e logistici. Gli eventi meteorologici estremi possono influenzare la pianificazione militare, i tempi dei conflitti o le opportunità di attacco.
Questi meccanismi non agiscono isolatamente, ma si intrecciano con fattori sociali e politici: governance fragile, disuguaglianze economiche, esclusione politica e bassa capacità istituzionale. In altre parole, il clima non crea guerre dove regna la buona governance, ma aggrava situazioni già precarie.
Quando le soluzioni diventano nuove minacce
Un aspetto innovativo dell’articolo riguarda i rischi generati dalle stesse risposte al cambiamento climatico. Le misure di mitigazione e adattamento, pur necessarie, possono avere effetti collaterali destabilizzanti:
-
La corsa ai minerali critici per le tecnologie verdi (cobalto, litio, terre rare) può alimentare nuove forme di “resource curse”, corruzione e competizione geopolitica.
-
La riconversione dei terreni per bioenergie o grandi progetti idrici rischia di espropriare comunità locali e popoli indigeni, generando conflitti sociali.
-
I tagli ai sussidi per i combustibili fossili o l’aumento delle tasse sul carbonio possono provocare proteste popolari, come i “gilet gialli” in Francia o le rivolte contro il caro carburante in Africa e America Latina.
-
Infine, la mancata o scarsa azione climatica può erodere la fiducia dei cittadini verso i governi, alimentando ondate di protesta e radicalizzazione.
Tre scenari per il futuro della pace
Gli autori del saggio delineano tre possibili scenari di evoluzione delle società e del clima fino al 2100.
Lo scenario A è caratterizzato da una bassa mitigazione e da una limitata azione di adattamento. Il mondo continua a dipendere dai combustibili fossili e non riesce a contenere gli impatti del riscaldamento, che supera i +2,8°C. L’aumento di eventi estremi, carestie e migrazioni genera instabilità politica e crisi umanitarie, specialmente in Africa, Asia e America Latina.
Lo scenario B è caratterizzato da una forte attività di adattamento ma da bassa mitigazione. Le società investono massicciamente nell’adattamento, ma continuano a emettere CO₂. La resilienza cresce, ma si allarga il divario tra paesi e gruppi sociali, con tensioni dovute ai costi crescenti e alla percezione di ingiustizia.
Lo scenario C prevede, infine, un’alta mitigazione e un’alta capacità di adattamento. È lo scenario più virtuoso, coerente con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Le emissioni si riducono rapidamente, ma la transizione verde genera nuovi conflitti economici e geopolitici: calo delle rendite nei paesi petroliferi, concorrenza per i minerali critici e tensioni sociali per l’aumento dei costi energetici.
Oltre il rischio: costruire una pace sostenibile
Il messaggio centrale dello studio è che il cambiamento climatico agisce come moltiplicatore di instabilità, ma non come destino inevitabile. I conflitti non sono una conseguenza automatica del riscaldamento globale: dipendono da come le società reagiscono.
Per evitare un futuro di crisi, gli autori invocano politiche inclusive, cooperazione internazionale, governance trasparente e giustizia climatica. Solo affrontando insieme le cause sociali e ambientali delle vulnerabilità sarà possibile trasformare la crisi climatica in un’opportunità di pace duratura e di resilienza globale.


