L’Europa e la guerra: rileggendo La montagna incantata di Thomas Mann
di Andrea Panzavolta
Il sogno d’un giovane soldato nella Grande Guerra
Come ha riconosciuto la critica più avveduta, sulla scorta di quanto lo stesso Thomas Mann ha dichiarato in una conferenza del 1942, La montagna incantata potrebbe non essere altro che un sogno: un lungo sogno fatto dal giovane protagonista – l’ingegnere navale, e ora soldato, Hans Castorp – arruolatosi volontario nell’esercito tedesco per combattere la Grande Guerra. Un sogno bruscamente interrotto dall’ennesimo colpo di artiglieria.
Nelle ultime pagine del romanzo, pubblicato nel 1924, l’autore ci fa entrare in un paesaggio boschivo sconvolto dalla furia bellica. Dove siamo? Che cos’è questo? Dove ci ha sbalestrati il sogno? Penombra, pioggia e fango, rossi bagliori d’incendio nel cielo grigio che rimbomba senza posa di tuoni e boati, riempiendo l’aria umida, lacerata da sibilanti ronzii, dall’arrivo di furiosi latrati da cane infernale che terminano il loro percorso fra schegge, spruzzi, schianti e fiammate, da gemiti e gridi, da squilli d’una tromba che sta per scoppiare, da rulli d’un tamburo che spinge, spinge ad andare più veloce…
Thomas Mann ci precipita nel bel mezzo di una sortita tedesca, affidata a dei giovani volontari, tra i quali l’autore riconosce lo stesso Castorp. Devono passare, i tremila ragazzi febbricitanti, sono di rinforzo. Con le loro baionette devono decidere le sorti dell’assalto alle trincee davanti e dietro la linea dei colli e ai villaggi in fiamme, appoggiare l’avanzata fino a un determinato punto, indicato nell’ordine che il loro comandante tiene in tasca. […]. Ed ecco il nostro conoscente, ecco Hans Castorp! […]. È tutto bagnato e arde, come tutti. Corre coi piedi appesantiti dalle zolle, bilanciando il fucile nella mano abbassata. Ecco, calpesta la mano di un camerata caduto, con lo stivale chiodato preme quella mano dentro al terreno pantanoso, coperto di rami scheggiati.
Una grossa granata lo ha quasi preso. Il prodotto d’una scienza abbrutita, carico del peggio, affonda nel terreno a trenta passi di fianco a lui come il diavolo in persona, ed esplode laggiù con orrenda potenza, sollevando nell’aria una fontana alta come una casa di terriccio, fuoco, ferro, piombo e brani di carne umana. Là infatti stavano coricati due amici, si erano buttati giù insieme nel pericolo: ora sono mischiati e scomparsi.
Sembra incredibile ma nella tempesta di fuoco e di sangue che lo avvolge, Castorp si fa strada cantando. Canta a fior di labbra una famosissima canzone popolare tedesca, ripresa da Franz Schubert nel Lied Der Lindenbaum (Il tiglio): «Ho intagliato nella sua corteccia / così tante parole d’amore». «E i suoi rami frusciavano / come per dirmi…». Come per dirgli cosa?
È un attimo. Castorp sparisce alla vista dell’autore e del lettore, prima di poter cantare le ultime strofe della canzone: quelle che evocano la quiete, la pace a cui lo invitano le fronde del tiglio. Non sappiamo se la pace sia quella della tomba o quella che porrà fine alla guerra. Addio,… che tu sopravviva o muoia! Le tue probabili sorti sono brutte; la mala danza nella quale sei trascinato durerà ancora qualche anno, e noi non ci sentiamo di scommettere molto che tu ne uscirai salvo.
Un romanzo di formazione in forma di fiaba
I sette anni trascorsi da Hans Castorp al sanatorio Berghof di Davos, in Svizzera, sarebbero dunque in realtà soltanto pochi minuti: tanti quanti è durato il suo sogno.
In fondo, che senso ha parlare ancora ancora di “anni”, “giorni” o “minuti”, quando ci si aggira nei territori dell’interiorità? È impossibile misurare lo scorrere del tempo attraverso queste convenzioni umane, così come attraverso gli orologi o i calendari, anche perché la Grande Guerra ha introdotto una frattura epocale nella storia d’Europa.
Se la storia di Castorp, avverte Thomas Mann nella Premessa del romanzo, è così largamente passata, lo deve al fatto di svolgersi “prima” di un certo termine, di una crisi che frastagliò a fondo la vita e la coscienza… Si svolge o, per evitare a bella posta ogni presente, si svolse e si è svolta in giorni remoti, nel mondo che precedette la grande guerra, dal cui principio sono cominciate tante cose che forse non hanno ancora cessato di cominciare.
Il titolo stesso del romanzo, Der Zauberberg, ossia la montagna incantata o, come sarebbe letteralmente più corretto dire la montagna magica, autorizza a leggere la storia di Castorp come una fiaba, in cui il tempo storico è sospeso.
Come ogni fiaba, anche questa possiede un profondo valore pedagogico, che sfida il passare del tempo aspirando a valere da sempre e per sempre. Il valore pedagogico del Zauberberg consiste in una radicale riflessione sui demonî che dilaniano l’Europa contemporanea e sulla possibilità, se non proprio di sconfiggerli, almeno di riconoscerli e di affrontarli a viso aperto.
Molti sono i mostri che tentano di divorarci, ma ve ne è uno di cui nessun altro può essere stimato più mostruoso, che profana i legami più sacri, che si accanisce in particolare sui giovani, che avanza sanguinario tra cupi rimbombi di tuono prodotti da una tecnologia degenerata: il mostro che chiamiamo guerra.
Se è vero che La montagna incantata è il sogno del soldato Castorp, la guerra è il mostro dormiente in cui ci imbattiamo fin dalle prime righe del romanzo. Non ci inganni il paesaggio da cartolina attraversato dal treno su cui viaggia Castorp per raggiungere Davos e far visita (in principio per sole tre settimane!) al cugino Joachim Zimmsenn, militare di carriera ricoverato per tubercolosi nel locale sanatorio.
Anche se si mimetizza con abilità, alcuni dettagli tradiscono la presenza del mostro: il pulviscolo di carbone che, prodotto dalla locomotiva, entra nello scompartimento imbrattando la copertina del libro che il giovane protagonista sta leggendo; i tunnel neri come la pece; gli abissi che si spalancano ai lati della ferrovia; il concierge del sanatorio che Castorp scambia per un «reduce di guerra per via della sua camminata zoppicante» e soprattutto il «tempo umano bistrattato», di cui subito gli parla il cugino Joachim.
Ma non basta. Ben presto ci accorgiamo che il mostro ha la sua tana proprio nel sanatorio Berghof, più precisamente nella grande sala da pranzo e nel seminterrato, dove si trovano il gabinetto radioscopico del primario Behrens, e l’ambulatorio del suo assistente, il dottor Krokowski, soprannominati rispettivamente Radamanto e Minosse, come i mitologici giudici infernali.
Una sala da pranzo litigiosa, metafora dell’Europa
La guerra che Castorp sta combattendo nelle ultime pagine del romanzo è già in corso nella sala da pranzo del Berghof, dove per cinque volte al giorno i pazienti si ritrovano a consumare sontuosi pasti. È una guerra che ci è mostrata in controluce, grazie alla capacità del sogno di indicare l’essenza delle cose attraverso immagini simboliche e metafore.
Gli ospiti del sanatorio, provenienti da tutte le regioni d’Europa, consumano i pasti divisi in sette tavoli organizzati su basi nazionali, culturali o di affinità. L’intero continente vi è ritratto in modo umoristico e impietoso. I vari protagonisti sfogano la noia e la propria disillusione in atti pieni di litigiosità e insofferenza al minimo dissenso.
La penna di Mann registra, nell’atmosfera rarefatta del sanatorio, una generale tendenza al battibecco velenoso, a crisi di rabbia che potevano addirittura sfociare in colluttazioni: «liti accanite, alterchi insolenti e fuori controllo esplodevano tutti i giorni, sia tra i singoli che tra i gruppi».
Paradigmatico è lo «spettacolo abominevole e desolante» offerto da due pazienti, Wiedemann e Sonneschein. Il primo, acceso antisemita, solito a punzecchiare velenosamente chiunque gli si trovasse a tiro, aveva a tal punto preso di mira il secondo, un uomo cortese e dall’indole scherzosa, che questi, esasperato, un giorno aveva reagito aggredendolo: «Si azzuffarono come due ragazzini, ma con la disperazione degli adulti ridotti a un punto di non ritorno. Si sfregiavano il viso con le unghie, si afferravano l’un l’altro al naso e alla gola, e intanto se le davano di santa ragione, si rotolavano per terra con terribile e profonda serietà, e schiumando di rabbia si sputavano addosso, si davano calci, pugni, strattoni e spinte».
Un’educazione sentimentale segnata dalla malattia
Come in altri sui romanzi e racconti, Thomas Mann dedica grande attenzione alle tematiche della “decadenza” e della “malattia”, da intendere sempre in senso anche metaforico, e al rapporto tra esistenza umana ed esperienza della morte.
Il primario del sanatorio sostiene apertamente che la vita stessa non sia che una forma di morte o, comunque, una lunga preparazione a essa: «vivere è morire, inutile indorare la pillola… une distruction organique […]. La vita odora di morte. Se ci sembra diverso, è solo perché il nostro giudizio è corrotto». Dopo aver scattato una radiografia al torace e alla mano di Joachim Zimmsen, il dottore gli mostra la sua stessa morte: non quella che un giorno verrà, ma quella che alberga già oggi nel suo giovane corpo.
In omaggio alla diade amore/morte, declinata spesso in termini parodistici, Mann fa incontrare al giovane Castorp l’affascinante Clawdia Chauchat: un’incantevole dama russa anch’essa affetta da tubercolosi, che dona al giovane quale pegno e memoria d’amore…la propria radiografia! La seducente figura femminile dai tratti kirghisi è una chiara epifania di quell’éros che, nella visione romantica in cui ancora si dibatte l’ingenuo protagonista, forma un’unione indissolubile con thánatos.
La stessa bellezza di Madame Chauchat è come sfregiata, sia dal suo modo di vestire sciatto e dimesso, sia da una sua costante mal creanza, che consiste nell’entrare nella sala da pranzo facendo sbattere rumorosamente le porte, irritando in principio lo stesso Castorp. E la donna, non a caso, viene evocata dall’autore ora come una dea ctonia (Persefone), ora come una maga dalle micidiali arti incantatorie (Circe), ora come un demone notturno (Lilith).
Le anime di un’Europa in guerra con se stessa
La formazione di Castorp non è solo sentimentale ma anche intellettuale. Mann dedica pagine memorabili agli scontri ideologici e retorici che contrappongono due dotti ospiti del sanatorio: Lodovico Settembrini e Leo Naphta. I due si contendono, in qualche modo, il compito di istruire il giovane Castorp sul significato profondo dell’esistenza e sul senso della Storia.
Settembrini è un’allegoria del lógos europeo. Il suo motto, che non si stanca mai di ripetere, è placet experiri o, per dirla col suo amato Dante, l’ardore [..] a divenir del mondo esperto. Le sue origini sono rivelatrici: egli è italiano, figlio di un padre che «era venuto al mondo nell’Ellade». La Grecia e l’Italia evocano l’Umanesimo o, se si preferisce, una mente inquieta, una curiosità mai appagata, una tensione indomita a percorrere nuove strade, un amore per la parola quale formidabile mezzo per trionfare sul caotico e sull’informe, un culto della ragione spinto fino alla superbia: «ma la hybris della ragione contro le potenze oscure è indice di sublime umanità, e se essa provoca la vendetta degli dèi invidiosi facendo, per esempio, naufragare e colare a picco la più lussuosa delle arche, si tratterebbe pur sempre di una fine onorevole».
La difesa di Prometeo, titano ribelle a Zeus per amore degli esseri umani, rientra perfettamente nel personaggio, portavoce degli ideali modernisti di una borghesia liberale convinta di essere artefice e vertice della Storia umana: anche quella impresa mitologica è stata un atto di hybris, ma «la tortura che gli fu imposta sulle rupi del Caucaso è per noi il più sacro dei martiri».
Leo Naphta, gesuita ed eccellente professore di lettere classiche, è dotato di un acuminato e lucido raziocinio, ma di segno totalmente opposto a quello di Settembrini: «la sua forma è ascrivibile alla logica, ma la sua essenza è la confusione» dice quest’ultimo, per attaccarlo.
Il gesuita Naphta non fa che negare ciò che il suo antagonista Settembrini afferma, in un’opera di costante distruzione della ragione. La tradizione mediterranea, classico-umanistica, per lui non è altro che un guscio vuoto; la scuola è uno strumento della dittatura borghese; il Medioevo, riconoscendo il superiore diritto della Chiesa rispetto a quello dello Stato, è da preferire all’Illuminismo francese.
I valori di cui Naphta si fa promotore sono quelli del conservatorismo radicale: «autorità assoluta, impegno inderogabile, disciplina di ferro, sacrificio, rinnegamento dell’io, coercizione violenta della volontà». In questo scenario, la sola pedagogia valida è il terrore.
Thomas Mann ha più simpatia per l’illuminista, ma si diverte a presentare queste due voci come espressioni della stesso demone che agita l’Europa del suo tempo: un demone essenzialmente fondamentalista, che può assumere forme razionali o irrazionali, ma che alla radice resta affetto da una medesima visione unilaterale, destinata al fallimento e all’autodistruzione.
Come scrive Nietzsche in un passo del Crepuscolo degli idoli: «La più cruda luce diurna, la razionalità a ogni costo, la vita chiara, fredda, prudente, cosciente, senza istinti, in contrasto agli istinti, [è] essa stessa soltanto una malattia diversa – e in nessun modo un ritorno alla ‘virtù’, alla ‘salute’, alla ‘felicità’».
Il senso di una storia ermetica
La montagna incantata non è certo un libro facile. L’autore vi fa sfoggio di una prosa scintillante e variegata, con cui sostiene una mirabile polifonia di voci contrastanti, che finiscono spesso per stordire e sviare il lettore.
Alla fine, però, occorre essere capaci di dipanare la trama delle metafore e dei discorsi, per provare a decifrare il senso più autentico della storia di Castorp. Nelle ultimissime pagine del romanzo, Mann la definisce una storia ermetica: non solo perché il suo senso non è immediato ma va faticosamente decifrato, ma anche perché il suo senso si manifesta sotto il segno di Ermes.
Definito dagli antichi il migliore amico degli uomini fra gli dèi e il più ricco dispensatore di doni, Ermes ha a che fare con la notte e di conseguenza col regno degli inferi, dove conduceva, offrendo una valida scorta, le anime dei morti. Ma dagli inferi egli pure libera, come attestano i miti di Persefone e di Euridice. Nella stessa montagna incantata, a una discesa nelle zone più limacciose dell’inconscio e delle sue pulsioni di morte, segue una risalita che consiste in una più profonda e piena conoscenza di sé.
Non solo. Ermes costruisce relazioni tra gli opposti, mettendo in guardia da ogni visione unilaterale, incapace di accettare la limitatezza di ogni punto di vista e la necessità di ricucirne i costanti conflitti. Il magistero ermetico, eluso dai protagonisti del romanzo, consiste dunque nel fare i conti coi propri mostri interiori e con la guerra che questi mostri, se non compresi ed esorcizzati, scatenano dentro di ognuno e, di riflesso, nella società.
Secondo Thomas Mann (nei primi anni del conflitto acceso sostenitore della Germania imperiale), l’Europa è corsa nel precipizio della Grande Guerra anche per non aver compreso la propria anima plurale e per non aver accettato la crisi dei fondamenti assoluti: della religione come della scienza, dei valori come degli ideali. Il percorso di formazione affrontato dal giovane protagonista nel sanatorio di Davos rispecchia, in tono minore, il doloroso processo di maturazione vissuto dallo stesso autore negli anni della guerra e del primo dopoguerra.
Le ultime parole del romanzo sono rivolte a Castorp, già scomparso tra i lampi della battaglia veloce come ne era apparso, e alludono alla necessità di imparare dalla Grande Guerra. Emerge la fragile speranza che non sia necessaria un’altra catastrofe del genere per riconoscere la nostra comune umanità e l’insensatezza di ogni volontà di potenza.
Avventure della carne e dello spirito che hanno potenziato la tua semplicità, ti hanno permesso di superare nello spirito ciò che difficilmente potrai sopravvivere nella carne. Ci sono stati momenti in cui nei sogni che governavi sorse per te, dalla morte e dalla lussuria del corpo, un sogno d’amore. Chi sa se anche da questa mondiale sagra della morte, anche dalla febbre maligna che incendia tutt’intorno il cielo piovoso di questa sera, sorgerà un giorno l’amore?
Andrea Panzavolta è giornalista pubblicista. Collabora alla rubrica “Film in discussione” di Iride. Filosofia e discussione pubblica, e ad alcune riviste di critica cinematografica. Dal 2014 è il direttore artistico della rassegna concertistica forlivese “Passioni in musica”.