venerdì, Marzo 14, 2025
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La sfida più grande della Siria: reinsediare milioni di rifugiati e sfollati

La recente dissoluzione del regime di Bashar al-Assad e la presa del potere da parte dei “ribelli” di Ahmed al-Sham ha acceso speranze di pace per il futuro della Siria: il presidente ad interim ha firmato, il 13 marzo 2025, una costituzione temporanea valida per cinque anni, che ribadisce l’obbligo che il capo di Stato sia musulmano e l’adozione della legge islamica come principale riferimento giuridico, includendo garanzie per la libertà di espressione e di stampa, oltre ai diritti sociali, politici ed economici delle donne. Tuttavia, la situazione interna è ancora molto tesa: nelle scorse settimane sono state uccise oltre 1.000 persone, per lo più civili, nelle regioni costiere di Tartus e Lakatia dove vivono comunità storicamente legate agli Assad. Tra le enormi sfide che la nuova Siria si trova a gestire, una delle più significative riguarda il rientro nel paese dei rifugiati all’estero e del ritorno degli sfollati interni nei territori di provenienza. Il tema è stato affrontato, nei suoi vari aspetti, su Foreign Affairs. Almeno 6 milioni di persone, costrette a fuggire dal conflitto, vivono in condizioni precarie all’estero e almeno altrettante sono sfollate all’interno del paese. Il rientro di così tante persone rischia di mettere a dura prova le fragili risorse economiche e logistiche della Siria. A ciò si aggiungono le pressioni dei paesi ospitanti affinché i rifugiati siriani ritornino “a casa loro” e le difficoltà di ingresso e distribuzione degli aiuti internazionali nel paese. Per garantire un ritorno sostenibile, è necessaria una strategia coordinata tra il governo di transizione, le Nazioni Unite e gli attori internazionali. La ricostruzione del paese, la protezione dei diritti dei rimpatriati e la stabilizzazione sono passaggi cruciali: senza un approccio equilibrato, il rischio è che la Siria scivoli nuovamente nel caos, vanificando gli sforzi per una pace duratura.

 

di Jesse Marks e Hazem Rihawi

L’inattesa e fulminea caduta del regime di Bashar al-Assad a opera dei “gruppi ribelli” guidati da Hayat Tahrir al-Sham ha suscitato un’ondata di ottimismo dentro e fuori il paese. Ma il futuro della Siria post-Assad è tutt’altro che sicuro. Gli ostacoli alla ricostruzione del paese sono enormi. Il principale è la questione dei rifugiati costretti a lasciare la Siria durante la decennale guerra civile. Il ritorno di questi rifugiati potrebbe diventare la più grande operazione di rimpatrio degli ultimi decenni, con oltre sei milioni di rifugiati siriani all’estero e sette milioni di sfollati interni. Centinaia di migliaia di siriani sono già tornati in patria, spinti dal desiderio di riprendere possesso dei beni di proprietà che avevano lasciato, di sfuggire alla povertà e alle discriminazioni nei paesi ospitanti, di ricongiungersi con i familiari o di partecipare al prossimo capitolo della storia del paese.

Tuttavia, la Siria in cui stanno tornando i primi rifugiati è profondamente diversa da quella che hanno lasciato. La distruzione di abitazioni e di infrastrutture critiche, la scomparsa dei propri cari, la povertà diffusa, il rischio di una recrudescenza delle violenze e l’incertezza sui nuovi leader del paese, oltre alla crisi umanitaria degli ultimi dieci anni, hanno reso la vita insostenibile per milioni di persone ancora presenti nel paese. Altre centinaia di migliaia di siriani potrebbero ritornare nei prossimi mesi. Così facendo, però, rischiano di aggravare una situazione già disastrosa. Un ritorno di massa mal gestito potrebbe mettere a dura prova le già limitate risorse del paese, esercitando un’intensa pressione sulle autorità di transizione, sulle agenzie delle Nazioni Unite e sulla società civile saffinché rispondano alle esigenze della cittadinanza in modo da favorire la stabilità e la ripresa.

Il futuro della Siria dipende anche dal successo di questa operazione storica: facilitare il ritorno dei rifugiati alle loro case in un paese ancora in subbuglio, soddisfacendo al contempo le esigenze di chi non ha lasciato le proprie abitazioni. L’imperativo è ora quello di mettere a punto un adeguato coordinamento delle operazioni. I paesi vicini, le organizzazioni internazionali e il nuovo governo di transizione siriano dovrebbero collaborare per creare un programma di rimpatrio dei rifugiati, proteggere i diritti dei gruppi vulnerabili, risolvere le dispute legali sulla terra e ricostituire la società siriana del dopoguerra. Allo stesso tempo, il governo di transizione e le organizzazioni non governative nazionali e internazionali devono collaborare, nonostante i sospetti reciproci, per rispondere ai bisogni umanitari più immediati della popolazione che non ha mai lasciato il paese. Concentrarsi sui rifugiati di ritorno trascurando di prestare sufficiente cura ai residenti potrebbe creare le condizioni per una crisi che metterebbe a repentaglio la ricostruzione e la pacificazione interna. Questo può essere un momento di speranza per la Siria, ma il lavoro di ricostruzione è appena iniziato.

 

La prospettiva del ritorno in Siria

Il 2024 ha visto un cambiamento significativo nel numero di rifugiati che ritornano in Siria. Dal 2020, il numero di siriani che rientravano annualmente era rimasto in genere al di sotto dei 51.000, meno dell’1% dei 6,8 milioni di rifugiati siriani nel mondo, che comprendono più di un quarto della popolazione siriana prebellica. Nell’agosto 2024, si stimava che fossero tornati 34.000 rifugiati, ma dopo l’invasione del Libano da parte di Israele nell’ottobre 2024, altri 350.000 sono fuggiti dal Libano per tornare in Siria e sfuggire a quel nuovo conflitto. Con altri 125.000 rientrati dopo la caduta di Assad all’inizio di dicembre, il numero totale di rimpatriati nel 2024 ha raggiunto quasi il mezzo milione. Secondo i dati delle Nazioni Unite, altri 125.000 sono già tornati nel 2025. A loro potrebbero presto aggiungersi decine di migliaia di siriani espulsi anche con la forza dai paesi vicini, che potrebbero usare la fine del regime di Assad come un pretesto per revocare l’accoglienza.

Non tutti i ritorni sono permanenti. Molti siriani tornano per controllare le loro proprietà, per valutare le condizioni economiche e di sicurezza dopo il crollo del regime o per ricongiungersi con la famiglia. Per altri, il ritorno è l’unica opzione per sfuggire al peggioramento delle condizioni di vita nei paesi ospitanti, dove le difficoltà economiche e le opportunità limitate hanno reso l’esistenza sempre più insostenibile. Se la Siria si stabilizzerà e le condizioni economiche miglioreranno con il nuovo governo, il numero di rimpatriati permanenti potrebbe crescere in modo significativo.

I rifugiati siriani all’estero sono esposti da tempo a crescenti pressioni per rientrare nel paese, compresa la minaccia di una vera e propria deportazione: i paesi limitrofi sono sempre più restii a ospitare grandi numeri di rifugiati, anche perché si trovano loro stessi ad affrontare crisi economiche, pressioni politiche e, nel caso del Libano, le conseguenze di un’invasione da parte di Israele.

Tra le forme più comuni di pressione, i siriani riparati all’estero si vedono negare la residenza e lo status di rifugiato, vivono gravi restrizioni nell’accesso ai diritti e ai servizi di base. Ad aggravare il problema contribuisce il significativo calo dei finanziamenti da parte dei donatori internazionali ai paesi ospitanti e ai programmi di reinsediamento dei rifugiati: negli ultimi cinque anni, si è avvertita una crescente “stanchezza” dei donatori, spesso giustificata col rallentamento dell’economia mondiale post-CoVID-19, che ha limitato le risorse destinate agli aiuti umanitari globali.

La pressione sui governi, già in difficoltà nel provvedere ai propri cittadini, ha alimentato le crescenti richieste di “re-migrazione” dei rifugiati siriani. Dal 2022 il Libano e la Turchia hanno già espulso molti di loro, costringendoli a tornare nel paese anche quando la guerra civile infuriava ancora. Future espulsioni di massa potrebbero minare proprio la stabilità che gli Stati ospitanti hanno cercato di raggiungere in Siria.

Nel frattempo, però, la maggior parte dei rimpatriati non avrà in Siria un posto sicuro dove tornare e avrà risorse limitate con cui ricostruirsi una vita. Vaste zone del paese rimangono inabitabili a causa delle macerie della guerra, con interi quartieri di grandi città come Aleppo, Damasco e Raqqa che giacciono ancora in rovina e con numerosi villaggi rasi al suolo.

L’economia siriana si è contratta di oltre l’80% dall’inizio della guerra nel 2011. La disoccupazione diffusa e l’inflazione dilagante hanno portato a un tasso di povertà del 90%. La mancanza di infrastrutture di base, acqua potabile, elettricità, assistenza sanitaria e scuole complica la possibilità di una reintegrazione di massa. Molti rimpatriati hanno trovato le loro case occupate da altri o interamente distrutte, con conseguenti dispute su alloggi, terreni e proprietà. In assenza di organismi ufficiali di mediazione, queste rimostranze irrisolte rischiano di innescare tensioni e di minare ulteriormente le speranze di ricostruzione emerse dopo la caduta di Assad.

 

Un piano coerente e coordinato per governare il ritorno

In Siria, come in qualsiasi paese che esce da un lungo conflitto armato, il ritorno volontario dei rifugiati non si limita al loro rientro fisico: esso richiede un miglioramento complessivo delle condizioni politiche e socioeconomiche del paese d’origine. Il rimpatrio, pur essendo un processo complesso e continuo, è spesso relegato in secondo piano dagli attori statali che danno priorità alla ricostruzione della macchina statale, alla stabilizzazione interna, alla ripresa economica e alla ricostruzione. Di conseguenza, i rimpatri rischiano di avvenire in modo caotico, senza alcuna pianificazione né organizzazione, lasciando i rimpatriati più vulnerabili e con maggiori difficoltà di integrazione ai margini delle politiche di sostegno alla popolazione residente.

Per evitare di cadere in questa trappola, la Siria ha bisogno di un piano di rimpatrio coerente e ben organizzato, per garantire che i rimpatriati siano integrati nello sviluppo a lungo termine del paese e non compromettano il processo di ripresa. Il governo di transizione siriano potrebbe istituire un quadro di cooperazione impegnandosi con l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e con i paesi vicini, tra cui Giordania, Libano e Turchia, per gestire efficacemente i rimpatri e garantire che tutte le parti interessate a livello regionale rispettino i loro impegni e si astengano da rimpatri forzati.

I paesi ospitanti dovrebbero permettere all’UNHCR di guidare un processo di ritorno volontario, graduale e pianificato, ma dovrebbero anche consentire ai siriani che scelgono di tornare temporaneamente in Siria, effettuando “visite di controllo” per valutare le condizioni di un possibile rientro, il diritto di rientrare nel paese ospitante. L’UNHCR e la comunità internazionale dovrebbero incentivare gli Stati a mantenere questi impegni, vincolando gli aiuti umanitari e i contributi alla ricostruzione al rispetto dei piani stabiliti. Il pacchetto di aiuti allo sviluppo dell’UE per il Libano per il 2024 e gli 1,2 miliardi di dollari in aiuti umanitari e cooperazione allo sviluppo che la Giordania riceve annualmente dagli Stati Uniti potrebbero essere utilizzati in questo senso, come incentivo all’adozione e al rispetto di politiche eque di rimpatrio.

Anche altri donatori, in particolare gli Stati arabi del Golfo, potrebbero essere coinvolti in questa dinamica di cooperazione allargata, finalizzata a rendere sostenibile il ritorno dei profughi siriani nel paese, tenendo conto dell’effettivo miglioramento delle condizioni economiche e di sicurezza in Siria. Se la Siria dovesse ripiombare nel conflitto, i rimpatri prematuri o forzati non farebbero altro che innescare nuovi spostamenti: stabilire un approccio chiaro e coordinato aiuterà a evitare una pericolosa spinta al rientro di massa prima che il paese effettivamente sia pronto.

Il governo provvisorio siriano sarà responsabile della gestione dei rimpatri su larga scala, ma dovrà rafforzare la propria capacità istituzionale per essere in grado di assumersi i propri compiti in modo efficace. La ricostruzione delle istituzioni statali è fondamentale per riprendere l’erogazione dei servizi pubblici e ricostruire le infrastrutture fondamentali, anche se tale processo richiederà tempo. Il governo provvisorio avrà anche la responsabilità di affrontare le numerose sfide che i rimpatriati dovranno affrontare, tra cui garantire la loro protezione, sostenere la loro reintegrazione nelle comunità locali, ripristinare i loro diritti alla casa, alla terra e alla proprietà, ma anche costruire nuovi alloggi per i siriani di ritorno che ne sono privi. Il governo dovrà anche rimettere in funzione e aggiornare l’anagrafe dei residenti, istituire meccanismi legali trasparenti per risolvere le controversie su terreni e proprietà, fornire protezione e sostegno ai gruppi vulnerabili, tra cui minoranze etico-religiose, donne, bambini e persone con disabilità.

Il governo non può e non deve intraprendere questo imponente sforzo da solo. L’UNHCR dovrebbe fin da ora monitorare le intenzioni dei rifugiati, a documentare i flussi di ritorno e a garantire che i rimpatriati abbiano accesso ai servizi pubblici fondamentali. L’Agenzia potrebbe anche sostenere gli sforzi del governo provvisorio per rivedere le leggi nazionali affinché siano allineate agli standard legali internazionali in materia di sfollati. Essa potrebbe anche sostenere gli sforzi del governo per rendere più efficiente il rilascio dei documenti di viaggi e di identità per i siriani sfollati all’interno e all’esterno della Siria, come ha fatto durante le crisi dei rifugiati in Iraq e Afghanistan.

 

Servizi di assistenza domiciliare

La gestione del rimpatrio dei siriani dipenderà dal raggiungimento di un livello di stabilità di base da parte del governo di transizione e dalla capacità locale di affrontare le numerose sfide umanitarie già esistenti. Il rischio di un nuovo conflitto civile rimane elevato, e gli sfollamenti interni sono continuati anche dopo la caduta di Assad, a causa degli scontri in corso tra gruppi sostenuti dalla Turchia e le Forze Democratiche Siriane (FDS), appoggiate dagli Stati Uniti e guidate dai curdi, nel nord-est del paese. Un eventuale ritiro degli Stati Uniti dalla Siria potrebbe aggravare ulteriormente queste difficoltà. Inoltre, il congelamento degli aiuti esteri statunitensi e lo smantellamento di USAID da parte dell’amministrazione Trump hanno messo a rischio i programmi umanitari e di sviluppo in tutto il Paese, compresi i finanziamenti all’UNHCR, proprio in un momento in cui milioni di siriani dipendono ancora dagli aiuti internazionali. Per migliorare le condizioni sul campo e favorire un eventuale ritorno su larga scala dei siriani, è essenziale mantenere e rafforzare la risposta umanitaria, anche ampliando il ruolo dei gruppi della società civile che attualmente la guidano.

Dall’esperienza del conflitto siriano gli attori umanitari hanno imparato che, per garantire l’accesso a tutto il territorio nazionale durante le crisi, è fondamentale mantenere aperte le rotte di aiuto dai paesi vicini. In caso di ripresa del conflitto, le agenzie delle Nazioni Unite e gli operatori umanitari potranno così continuare a raggiungere le persone bisognose attraverso i confini. L’approccio “Whole of Syria”, promosso a partire dal 2015 dall’Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) delle Nazioni Unite allo scopo di gestire gli interventi umanitari nel paese, si è rivelato il più efficace per fornire assistenza. Questo sistema, che si avvale di una rete di uffici ONU in Giordania e Turchia per coordinare gli aiuti transfrontalieri e monitorare le condizioni sia all’interno che all’esterno della Siria, dovrebbe essere preservato. I principali hub delle agenzie ONU ad Amman, in Giordania, e a Gaziantep, in Turchia, dotati delle infrastrutture e delle capacità necessarie per facilitare operazioni transfrontaliere su larga scala, devono rimanere operativi. Questi centri sono cruciali per la distribuzione degli aiuti e per le missioni di monitoraggio, specialmente nelle aree con i bisogni umanitari più urgenti e dove è probabile che si reinsedino numerosi rimpatriati, sostenendo così gli sforzi di reintegrazione.

Le ONG siriane dovrebbero assumere un ruolo più ampio, sia nella risposta ai bisogni umanitari immediati sia negli sforzi di recupero a lungo termine. Durante tutto il conflitto, questi gruppi sono stati la spina dorsale della risposta umanitaria nel paese. Grazie alla loro profonda conoscenza del territorio, alle reti consolidate e alla flessibilità operativa, sono in grado di lavorare efficacemente anche nelle aree dove lo Stato è assente. Le organizzazioni della società civile rappresentano inoltre attori neutrali, capaci di mediare tra i cittadini siriani e le autorità provvisorie, specialmente nelle comunità diffidenti verso il governo o a rischio di tensioni settarie. La fiducia che queste organizzazioni godono a livello locale riduce il rischio di conflitti dovuti a sfiducia o percezioni errate.

Per massimizzare la loro efficacia, il governo provvisorio dovrebbe stabilire linee guida legali e politiche chiare che indirizzino le ONG a colmare le lacune critiche nei servizi, garantendo al contempo che questi gruppi siano ritenuti responsabili del loro operato. Durante la guerra civile, le ONG hanno svolto un ruolo di leadership de facto nel settore pubblico in assenza dello Stato. Con la maturazione del nuovo governo, dovrebbero gradualmente trasferire la gestione di un settore pubblico rivitalizzato alle autorità statali, continuando a fornire supporto e servizi alle comunità locali. Comitati congiunti composti da autorità locali, ONG e rappresentanti del settore privato potrebbero garantire che gli sforzi di recupero siano inclusivi e rispondano alle esigenze specifiche di ciascuna comunità.

La comunità internazionale guarda alle organizzazioni della società civile siriana con maggiore favore rispetto al governo provvisorio, i cui leader erano fino a poco tempo fa classificati come terroristi in molti paesi. Sebbene la Licenza Generale 24 del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, che autorizza transazioni in Siria per facilitare gli aiuti umanitari, preveda alcune deroghe alle sanzioni per lo Stato siriano, le ONG rimangono un canale sicuro per i donatori internazionali per finanziare la risposta umanitaria, nonostante le sanzioni più ampie rimangano in vigore. Tuttavia, la comunità internazionale non dovrebbe affidarsi alle ONG come sostituti permanenti del governo, indipendentemente dai disaccordi ideologici con gruppi come Hayat Tahrir al-Sham e altre fazioni armate. Per una ripresa sostenibile, è essenziale che il governo riesca ad affermarsi e sia percepito come legittimo e, come tale, in grado di gestire la ricostruzione del paese.

 

Il futuro della Siria dipende dal ritorno sicuro dei rifugiati

La mancanza di coordinamento nel rientro dei rifugiati siriani avrà gravi conseguenze non solo per la Siria, ma anche per i Paesi ospitanti vicini e per gli stessi rifugiati. La stabilità della Siria dipende da una ripresa nazionale sostenibile, e un’ondata di rimpatri non organizzata potrebbe travolgere il governo nascente, minando la già fragile stabilità del paese. Anche gli Stati ospitanti rischierebbero di subire gravi ripercussioni se rimpatri caotici provocassero una nuova crisi in Siria, spingendo migliaia di rifugiati a cercare nuovamente rifugio oltre confine. Per i rifugiati siriani, un ritorno prematuro o non coordinato potrebbe significare ricadere in condizioni di estrema povertà, affrontare ulteriori sfollamenti o, nel peggiore dei casi, perdere la vita, proprio quando la situazione sembrava avviarsi verso un miglioramento.

Al contrario, un processo di rimpatrio e reintegrazione ben organizzato potrebbe permettere alla Siria di raggiungere una stabilità economica e politica duratura, senza sovraccaricare le istituzioni statali, la società civile o le agenzie umanitarie. Sebbene i processi di rimpatrio siano spesso complessi, esperienze come quelle in Iraq e Afghanistan dimostrano che un coordinamento efficace può migliorare la protezione delle comunità sfollate e ridurre il rischio di ulteriori spostamenti al momento del ritorno. Ad esempio, l’accordo tripartito del 2003 tra i governi di Afghanistan, Pakistan e l’UNHCR ha creato un quadro di riferimento a lungo termine per garantire i diritti dei rifugiati rimpatriati e monitorare il processo di rimpatrio volontario. In Iraq, la continua collaborazione tra il governo e l’UNHCR ha permesso di fornire protezione e sostegno a milioni di iracheni sfollati, sia all’interno che all’esterno del Paese, molti dei quali sono poi tornati a casa nonostante il conflitto in corso. La lezione per la Siria è chiara: l’integrazione degli sforzi tra paese d’origine, Stati ospitanti e UNHCR non eliminerà completamente i rischi e gli oneri del rimpatrio, ma rappresenta il modo più efficace per gestire le numerose complicazioni che possono sorgere.

Il futuro della Siria dipende dal ritorno sicuro e dignitoso dei rifugiati, che saranno fondamentali per ricostruire una nazione devastata da anni di guerra. I siriani, in collaborazione con le Nazioni Unite e la comunità internazionale, devono cogliere questa opportunità per gettare le basi di una pace duratura. In caso contrario, la Siria rischia di sprofondare in un’instabilità ancora più profonda, lasciando milioni di rimpatriati bloccati in un paese incapace di sostenerli. La finestra di opportunità si sta chiudendo rapidamente e il costo dell’inazione potrebbe perseguitare i siriani per generazioni.

 

Fonte: Foreign Affairs,11 febbraio 2025 (traduzione, con modifiche, di Chiara Crivellari e Federico Oliveri)