venerdì, Dicembre 6, 2024
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Verso una democrazia della cura: quando?

InGenere ha pubblicato un nuovo intervento-appello in cui si richiama l’attenzione sui diritti e le tutele da garantire alle lavoratrici e ai lavoratori domestici e di cura, chiamati a dare il loro contributo essenziale alle famiglie in un momento particolarmente complesso come quello della pandemia. Lo scorso anno inGenere aveva pubblicato un analogo intervento, promosso dallo stesso gruppo di ricercatori che, dopo aver analizzato il decreto “Cura Italia”, avevano messo in evidenza la mancata o carente tutela per colf, assistenti familiari e babysitter. In quella occasione era stata affermata l’urgenza di intervenire, a livello governativo innanzitutto, per far fronte a questa situazione discriminatoria e contribuire a costruire una vera “democrazia della cura”. A un anno dall’appello, il decreto “Rilancio” e lo stesso Piano nazionale di rilancio e resilienza (PNRR) sembrano andare nella direzione auspicata. Restano, tuttavia, molte criticità.

 

di Claudia Alemani, Lucia Amorosi, Beatrice Busi, Emanuela Loretone, Raffaella Maioni, Sabrina Marchetti, Luciana Mastrocola, Giamaica Puntillo, Raffaella Sarti, Clorinda Turri, Olga Turrini, Francesca Alice Vianello, Gianfranco Zucca, Acli-Colf, Filcams-Cgil 

Verso una democrazia della cura, con questo titolo un anno fa pubblicavamo su inGenere un appello reso pubblico qualche giorno dopo anche in inglese. L’appello nasceva da un moto di sdegno: il decreto “Cura Italia”, nonostante il nome, escludeva chi svolge lavoro di cura professionalmente. Per colf, assistenti familiari (“badanti”) e babysitter non era prevista la cassa integrazione né il divieto di licenziamento; quelle con figli/e non avevano diritto al bonus baby-sitter, né erano previste per loro indennità specifiche.

Appariva un paradosso, tanto più alla luce della ratifica, da parte dell’Italia, della convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro n.189 del 2011, che impegna gli stati firmatari a garantire alle lavoratrici e ai lavoratori del settore domestico un trattamento non discriminatorio rispetto ad altre categorie.

L’appello sollecitava allora un ripensamento, chiedendo di includere lavoratrici e lavoratori del settore nei provvedimenti presi per far fronte all’emergenza pandemica. Allungava e allargava poi lo sguardo, suggerendo interventi di medio e lungo periodo finalizzati a superare le discriminazioni delle lavoratrici e dei lavoratori domestici, in primis quelle relative alla copertura salariale in caso di malattia, garantita solo per 8, 10 o 15 giorni (in base all’anzianità di servizio) e pagata direttamente dal datore di lavoro, non dall’Inps.

In questo senso, l’appello sottolineava la necessità di far emergere il lavoro sommerso presente nel settore, di integrare il lavoro di cura svolto in ambito domestico alle dipendenze delle famiglie nelle reti socio-assistenziali e assistenziali, di passare da un modello di cura basato sull’ospedalizzazione a un modello basato sulla presa in carico comunitaria delle persone vulnerabili, di integrare le assistenti familiari in tale modello, di sviluppare al contempo un deciso intervento pubblico volto a risolvere le disparità dovute al ricorso all’assistenza privata, inevitabilmente condizionato dalle disponibilità individuali, a superare le profonde differenze nell’offerta di servizi nelle diverse regioni del paese e a favorire una maggiore integrazione europea.

L’appello guardava a nuovi orizzonti, in cui il lavoro di cura da preoccupazione privata e familiare assurgesse a questione pubblica, cruciale per il benessere collettivo. Premessa indispensabile di tale trasformazione appariva la rivalutazione tanto del lavoro misconosciuto delle persone che si prendono cura quotidianamente, gratis, dei propri familiari, amici, vicini; quanto del lavoro di chi svolge tali attività professionalmente, in qualità di colf, assistente familiare (“badante”), babysitter. Si suggeriva, quindi, di creare nuove sinergie, capaci di superare le contrapposizioni tra pubblico e privato, famiglie e istituzioni, in vista di un maggior benessere individuale e collettivo. Si trattava di elaborare nuove forme di democrazia, in cui la cura – delle persone, delle relazioni e dell’ambiente – fosse un aspetto cruciale: insomma una vera democrazia della cura (caring democracy).

Inviato ai presidenti della Repubblica, del Senato, della Camera, del Consiglio dei ministri, e ai ministri e ministre del lavoro e delle politiche sociali, dell’economia e delle finanze, della salute, per le pari opportunità e la famiglia, per gli affari regionali e le autonomie, per il sud e la coesione territoriale, per gli affari europei, l’appello è stato sottoscritto da centinaia di persone e da una ventina tra associazioni, sindacati, enti. Ha avuto una certa eco mediatica, e non sono mancati feedback positivi da parte di alcune policy maker. 

A circa un anno di distanza dall’appello, si impone una valutazione di quanto è stato fatto e di che cosa è attualmente previsto nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, considerando che l’emergenza pandemica ha accresciuto la sensibilità collettiva per i temi della salute, del benessere, dell’assistenza alle persone malate, del rapporto tra la cura e l’assistenza in casa e quelle in strutture collettive (socio-assistenziali, assistenziali, ospedaliere). L’esperienza generalizzata del cosiddetto smart working ha peraltro permesso (o costretto) molte persone a esperire le implicazioni (positive e negative) del lavoro nella sfera domestica, riproponendo in termini nuovi l’antico problema della conciliazione tra lavoro familiare e lavoro professionale e della disparità di genere.

Non c’è dubbio che, nel corso dell’anno, di cura e di cure si sia molto parlato. Per quanto riguarda in particolare le persone che svolgono lavoro di cura professionale nella sfera domestica i provvedimenti, tuttavia, sono stati molto limitati.

Il decreto rilancio ha previsto l’uso dei dispositivi di protezione (mascherine) anche per le lavoratrici e i lavoratori domestiche/ci (art. 66), senza tuttavia chiarire chi dovesse fornirli. Per quanto riguarda il sostegno al reddito, ha introdotto una indennità di 500 euro per “i lavoratori domestici” (art. 85) limitata ai non conviventi impiegati per più di 10 ore a settimana e per i soli mesi di aprile e maggio: il mese di marzo non è stato recuperato e l’indennità è stata più bassa di quella degli altri lavoratori e lavoratrici, con un trattamento ancora una volta differenziale.

L’art.103 ha inoltre previsto l’emersione del sommerso, sia per rapporti di lavoro con stranieri privi di documenti di soggiorno, sia per rapporti di lavoro non denunciati con italiani o stranieri legalmente presenti in Italia. Il 15 agosto 2020 si è conclusa la procedura di emersione. Il totale delle domande ricevute dal portale del ministero dell’Interno ammonta a 207.542, di cui circa l’85% riguardanti lavoro domestico e di assistenza alla persona (176.848).

Un numero molto inferiore alla stima dei rapporti irregolari, verosimilmente anche a causa della formulazione restrittiva delle persone aventi diritto a presentare domanda. A marzo 2021, solo 1.480 erano giunte nella fase conclusiva. Si tratta di un panorama deprimente. Ma se anche la regolarizzazione avesse funzionato si sarebbe pur sempre trattato di un provvedimento ‘una tantum’, laddove appare invece necessario prevedere politiche che consentano l’ingresso legale delle/dei migranti e la loro effettiva e stabile inclusione nel tessuto sociale.

Se si è parzialmente ovviato alla mancanza di copertura per malattia considerando il contagio da coronavirus come infortunio sul lavoro coperto dall’Inail, il problema è rimasto però irrisolto. Anzi, è stato esacerbato dalle difficoltà della pandemia. E questo nonostante le istanze avanzate congiuntamente anche dalle parti sociali, che hanno chiesto che venga riconosciuto ai lavoratori domestici un trattamento economico di malattia a carico dell’Inps analogo a quello riservato alla generalità dei lavoratori dipendenti (e che vengano estese al settore tutte le tutele della maternità e paternità godute da altri lavoratrici e lavoratori, visto che colf, “badanti” e babysitter soffrono di discriminazioni anche in questo ambito).

Il Piano nazionale di rilancio e resilienza che il governo ha appena trasmesso al parlamento afferma che “Il lavoro di cura deve essere una questione di rilevanza pubblica mentre oggi nel nostro paese è lasciato sulle spalle delle famiglie e distribuito in modo diseguale fra i generi”.[1] Considera inoltre “la casa come primo luogo di cura” e mira a potenziare l’assistenza domiciliare, migliorando le prestazioni offerte alle persone vulnerabili e disabili, anche attraverso il ricorso a nuove tecnologie (telemedicina, domotica, digitalizzazione). Prevede pertanto un potenziamento dei servizi domiciliari, un nuovo modello di prevenzione, assistenza e cura con diversi presidi territoriali (farmacie, centrali operative territoriali, case della comunità, ospedali di comunità). Presta inoltre attenzione al genere in tutte le “missioni” previste, anche se non sempre in modo convincente. 

Tuttavia, nulla si dice delle persone che svolgono lavoro di cura professionalmente alle dipendenze delle famiglie: non si chiarisce se e come queste figure – oggi essenziali soprattutto per l’assistenza agli anziani – potrebbero o dovrebbero venir integrate nel nuovo modello proposto. Non se ne parla perché il previsto sviluppo dei servizi pubblici sarà tale da garantire una completa presa in carico delle persone bisognose di assistenza? Perché la questione è lasciata alla nuova programmazione 2021-2027 del Fondo sociale europeo? Oppure non se ne parla perché queste lavoratrici e questi lavoratori – moderne incarnazioni di Cenerentola – sono state/i ancora una volta dimenticate/i? Peraltro non sono previste neppure misure relative all’immigrazione e all’inclusione delle persone immigrate, altro fatto che stupisce. 

A un anno dall’appello si prospettano dunque all’orizzonte alcune riforme che sembrano andare nella direzione indicata. Tuttavia restano molte criticità: l’inclusione di cui molto si parla nel piano sembra essere ancora parziale. Pertanto non ci si può che augurare che si sviluppi un dibattito pubblico in merito, che ci siano margini per apportare correzioni e superare questi limiti, riorientando il piano stesso e muovendosi più decisamente verso una vera “democrazia della cura”.

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Fonte: inGenere, 27 aprile 2021.