sabato, Dicembre 21, 2024
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Smart working e genere: ambivalenze da una ricerca sul campo

di Sandra Burchi

 

Le premesse della ricerca

Da quando, durante i mesi della pandemia, attraverso vari decreti il governo ha esteso l’applicazione della modalità di lavoro agile “ad ogni rapporto di lavoro subordinato per tutta la durata dell’emergenza”, in Italia si è cominciato a parlare di lavoro da casa, da remoto, a distanza come non era mai stato fatto. Molte persone, abituate alla vita d’ufficio, si sono trasformate in remote workers, allestendo postazioni lavorative più o meno mobili all’interno delle proprie abitazioni e attrezzandosi per attivare nuovi canali di comunicazione con le organizzazioni di riferimento. Canali che hanno assunto presto anche una funzione di controllo.

L’assimilazione collettiva dello smart working è passata attraverso un sistema di aggiustamenti e semplificazioni che ha spinto gli ambienti domestici a trasformarsi in nodi iperconnessi e produttivi. Tale processo, complice l’urgenza che lo ha caratterizzato, ha condotto a sottostimare differenze e diseguaglianze tra lavoratrici e lavoratori, connesse alle condizioni materiali, metri quadrati e dotazioni tecnologiche comprese. Molte di queste disuguaglianze riguardano il diverso modo in cui uomini e donne – in maniera trasversale alle condizioni sociali [1] – sono stati coinvolti da questi processi: l’esperienza dello smart working si è rivelata per molte donne particolarmente faticosa, non semplice da organizzare e da conciliare con il resto delle cose da fare [2].

Nel corso di una ricerca promossa da Ires Toscana e realizzata grazie alla collaborazione del Coordinamento Donne Cigl Toscana, orientata proprio a comprendere le modalità di attuazione del lavoro agile durante la pandemia, ho trovato molti dati relativi a queste difficoltà. Le interviste realizzate a oltre 60 lavoratrici dipendenti attive in Toscana, di un’età compresa fra i 28 e i 62 anni, incontrate a più riprese dal maggio 2020 al marzo 2022, hanno fatto emergere con forza i disagi portati da uno smart working organizzato di fretta e in condizione di emergenza. Difficoltà sperimentate sia nella gestione della vita quotidiana in uno spazio-casa sovraccarico di funzioni e abitato h24 da tutti i componenti familiari, sia nella remotizzazione di prestazioni lavorative normalmente gestite in presenza.

Il dato interessante è che, nonostante l’intensificazione dei problemi, questo modello lavorativo è entrato a far parte delle aspirazioni di molte, soprattutto nella modalità sperata, quella che sarebbe specifica del lavoro agile, cioè per fasi alternate tra distanza e presenza. Per la maggior parte delle donne che ho incontrato nel corso della ricerca, le complicazioni di una conciliazione lavoro/famiglia, sperimentata nella condizione estreme del lockdown o del susseguirsi di quarantene, non impedivano un interesse verso forme più flessibili e individualizzate dell’orario lavorativo [3]. In questo articolo vorrei soffermarmi su quest’ultimo aspetto, che può sembrare un’ambivalenza, se non addirittura una contraddizione.

 

Rischi e potenzialità del « lavoro agile »

La «rivoluzione» più profonda apportata dalla Legge 22 maggio 2017 n. 81 sul lavoro agile consiste nell’avere sganciato l’organizzazione del lavoro dipendente dalle misure ordinarie di tempo e spazio, per ricalibrarle su compiti e obiettivi. La situazione che si è creata con l’emergenza ha portato a una sperimentazione di lavoro agile così estesa e improvvisa da richiedere una serie di aggiustamenti e semplificazioni, non solo negli adempimenti ma anche nella realizzazione pratica. In generale, i dati raccolti dalle numerose ricerche compiute su smart working e pandemia restituiscono un modello di lavoro che potremmo definire “ibrido”, che mescola i tratti del lavoro agile con quelli del telelavoro. Il lavoro agile, infatti, riconosce ai dipendenti la possibilità di scegliere quando e dove lavorare, di gestire i tempi di lavoro e di non rendere conto di una postazione fissa su cui il datore ha facoltà di controllo. Questo modello prevede un’organizzazione che tiene conto degli «obiettivi» da realizzare, affidandone la gestione ai dipendenti secondo un piano di lavoro concordato.

La discussione portata avanti dal tavolo di lavoro voluto dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, confluita nel Protocollo Nazionale sul lavoro in modalità agile (7 dicembre 2021), è servita ad accompagnare il ricorso massivo a questo modello lavorativo, migliorandone la definizione e le condizioni di utilizzo. La partecipazione di studiosi, giuristi e parti sociali ha avuto una particolare efficacia nel difendere il tema della volontarietà, della ricerca di un equilibrio tra tempo di lavoro e raggiungimento degli obiettivi indicati (si pensi al tema della “disconnessione”) e ha fissato nella contrattazione lo strumento per individuare regole chiare e condivise. Le cose sono ancora in evoluzione. Riprendendo la disciplina di riferimento, il Protocollo chiarisce che «il lavoro agile o smart working non è una diversa tipologia di lavoro bensì una particolare modalità di esecuzione della prestazione di lavoro subordinato introdotta al fine di incrementare la competitività e di agevolare la conciliazione dei tempi di vita e lavoro». Sono questi due termini, « competitività» e «conciliazione »,  pensati in correlazione, che invitano a riflettere.

Anche prima della pandemia, gli studi su lavoro agile e smart working mettevano in evidenza potenzialità e rischi di un lavoro dipendente che si sviluppa, anche se parzialmente, in autogestione. Le potenzialità di un uso del tempo individualizzato, con tanto di risparmio sugli spostamenti (risparmio particolarmente alto nelle grandi città o in caso di pendolarismo), l’agio portato dalla possibilità di lavorare in solitudine, in un ambiente scelto senza le interferenze della vita di ufficio,  erano già stati messi in relazione con i rischi di una difficile organizzazione dei tempi di esecuzione del lavoro e alla difficoltà di concentrazione in ambienti in molti casi abitati da altre persone, con propri ritmi e bisogni [4]. Queste stesse difficoltà sono emerse con forza nel dibattito pubblico e nelle rilevazioni fatte in questi anni, difficoltà intensificate dall’aver sperimentato in epoca di quarantene un modello di lavoro che prevede flessibilità spaziale.

 

Smart working e carichi di cura

La metodologia utilizzata per la ricerca mi ha permesso di verificare alcune dinamiche in trasformazione, sia relativamente alla vita di casa che in relazione alla sperimentazione di forme di lavoro a distanza. La condivisione dei carichi di cura tra uomini e donne – un problema persistente nel nostro paese – è parsa poco significativa ma non per questo inesistente: in alcune famiglie si sono sperimentati nuovi equilibri e le necessità portate dalla condizione di emergenza hanno contribuito in alcuni casi a rimodellare i ruoli di genere, anche se non a neutralizzare le aspettative il più delle volte naturalmente rivolte alle donne. È stato interessante incontrare donne di età diverse e con famiglie diverse, alle prese con  problemi  analoghi e con la necessità di ridistribuire, in maniera più o meno conflittuale, compiti domestici e attività di cura, riuscendo solo in pochi casi a ottenere piena collaborazione. Le donne single con figli piccoli sono quelle che hanno sofferto di più una situazione che, durante la quarantena, le ha viste da sole a sostenere un sovraccarico di cose da fare per sé, per il lavoro, per la famiglia. Durante la pandemia, quindi, il lavoro agile non si è dimostrato un modello che agevola la possibilità di conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, e forti riserve si nutrono sul fatto che lo potrà divenire fuori dall’emergenza. Ciò, stanti soprattutto le carenze del sistema di cura, soprattutto per la primissima infanzia.

Queste difficoltà, di cui le partecipanti alla ricerca avevano piena e ragionata consapevolezza, non ha impedito loro di guardare, in prospettiva, alla possibilità di utilizzare una forma di lavoro agile soddisfacente. Solo una piccolissima parte delle donne incontrate ha dichiarato la propria assoluta contrarietà, individuando nella possibile sovrapposizione di casa e lavoro un elemento regressivo, un ritorno a una forma di domesticazione superata proprio grazie alla crescita e alla normalizzazione del lavoro extradomestico per le donne. Per la maggior parte delle presenti, invece, una buona organizzazione, tutta da studiare, sostenuta dalla volontarietà e dalla reversibilità dell’accordo individuale, potrebbe migliorare l’uso del tempo e assecodare il bisogno di invertire l’accelerazione e il senso di fretta che domina la vita di tutti e tutte. Mi sembra un dato da guardare con interesse, soprattutto in relazione alle misure che in questi mesi stanno rendendo sempre più difficile l’accesso al lavoro agile, progressivamente interpretato come misura eccezionale, rivolta ai lavoratori fragili o in difficoltà personale.

 

La «correzioni» al sistema aziendale

A livello sistemico non può dirsi che si stia procedendo a un adeguamento sostanziale e migliorativo dello smart working, né che si stiano risolvendo le contraddizioni che si sono aperte con l’ibridarsi del modello. Si pensa piuttosto a ipotesi di uso alternativo del modello, soprattutto nel settore pubblico. Negli scorsi mesi, ad esempio, alcune città hanno proposto, anche come soluzione alla crisi energetica, una sorta di settimana corta, incoraggiando i dipendenti pubblici a chiedere come giornata di lavoro agile il venerdì (è successo a Firenze e a Milano). La scelta è lasciata ai dipendenti ma la necessità di chiudere interamente alcuni uffici comporterebbe l’uso di postazioni in spazi aperti al pubblico per chi decide di lavorare in presenza. Un modo creativo di fare uso di uno strumento che andrebbe migliorato in termini di sostenibilità organizzativa e che, ancora una volta, viene pensato in termini di responsabilizzazione individuale. Ai dipendenti è lasciata la possibilità di  «portare fuori» o svolgere da casa, parte del lavoro d’ufficio; resta da capire con quali adeguamenti strutturali, in termini di aggiornamento tecnologico, digitale e organizzativo.

Nello smart working, lo svolgimento della prestazione lavorativa lontano dai suoi spazi ordinari e condivisi diventa un processo da gestire in solitaria, che non sempre presenta dei vantaggi. Parlandomi di quello che stavano sperimentando (essendo lavoratrici dipendenti, molte stavano facendo esperienza del lavoro fuori ufficio per la prima volta) molte hanno paragonato le proprie giornate a quello di amiche o conoscenti impegnate in lavori autonomi o precari, abituate a un’organizzazione “fai da te”. Ciò non è strano: lo smart working introduce nel lavoro dipendente alcune modalità organizzative tipiche del lavoro indipendente, in primis quelle relative alla gestione del tempo.

A meno di non introdurre forme sempre più capillari di controllo in un’organizzazione che poco si scosta dal telelavoro (cosa che sta avvenendo in molti contesti), l’introduzione di un lavoro per obiettivi comporta una gestione del tempo affidata ai singoli e alle singole, cui è chiesto di trovare degli standard esecutivi, possibilmente (ma si tratta, appunto, di una sfida) coerenti con gli orari previsti dai contratti. Se per alcune delle lavoratrici questo apre contraddizioni insanabili, motivate soprattutto dalla sensazione di isolamento o dal disagio portato dalla sovrapposizione di spazi di vita e spazi di lavoro, o ancora di più dall’alienazione derivante da un’intensificazione delle cose da fare in un tempo che sfugge al controllo dell’orologio, per la maggior parte delle donne intervistate la possibilità di rivedere il proprio orario settimanale, e di introdurre alcune giornate di lavoro a distanza, resta un obiettivo cui guardare. Alcune delle lavoratrici che ho incontrato nella seconda fase della ricerca, nel marzo 2020, stavano apportando in autonomia alcune “correzioni” al sistema organizzato dalle aziende di riferimento, reinterpretando la prescrizione degli obiettivi individuali da raggiungere a distanza, attraverso forme di digitali di cooperazione con i colleghi. È solo un esempio, ma significativo dell’investimento portato da alcune lavoratrici a questo modello lavorativo.

 

Conclusioni

I dati raccolti nella mia ricerca non sono isolati: la stessa ambivalenza tra rischi e opportunità è stata confermata da altre ricerche realizzate su questo tema [5]. Nonostante le difficoltà sperimentate sia nella gestione del sistema di interferenze vita di casa – vita lavorativa, sia nell’esecuzione delle proprie mansioni, la possibilità di adottare un modello di lavoro agile, che prevede forme di autogestione, sembra rientrare nelle prospettive di molti lavoratori e lavoratrici dipendenti.

Studiando il fenomeno delle cosiddette “grandi dimissioni” (un fenomeno soprattutto statunitense ma presente anche nel nostro paese), Francesca Coin [6] dice qualcosa che può essere utile anche a interpretare il  “desiderio di smart working” verificato dalle ricerche: il fenomeno delle dimissioni, così come il tentativo di rimodulare le giornate di lavoro in presenza, sono da leggere secondo l’autrice all’interno di un movimento ampio, globale e multiforme di presa di distanza da un sistema che appare irriformabile, quali punti di rottura del modello che si è costruito nel tempo attraverso la richiesta di disponibilità, fedeltà, identificazione con il proprio lavoro. Coin riconduce tale fenomeno a una crisi profonda del modello produttivo che ha progressivamente preteso di più dai singoli, erodendo le infrastrutture sociali di protezione e di tutele.

Certo, relativamente al lavoro agile, la cosa è controversa. Lavorare per obiettivi, infatti, può avere il controeffetto di produrre – nonostante l’alternanza di presenza e distanza – un’adesione più forte e pervasiva all’ideale di produttività, lasciando i singoli individui ancora più soli nell’individuazione degli standard d’efficienza utili per promuovere una conciliazione vita-lavoro, che rischia di rimanere solo potenziale. La tensione verso un migliore uso del tempo rischia di risolversi in una intensificazione del tempo di lavoro, una forma di sfruttamento sottile e autoimposto suscettibile di essere invisibilizzato dalla ricerca di una maggiore autonomia. Durante le interviste ho ascoltato molte lavoratrici alla ricerca di una buona organizzazione del lavoro remotizzato assumersi la responsabilità della percezione di una inattesa fatica: “mi sembra che le giornate di lavoro a casa non finiscano mai, ma forse sono io…”.

 

Sandra Burchi è ricercatrice indipendente, attualmente borsista presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Firenze per una ricerca sulle condizioni di lavoro dei low wage workers. Ha scritto vari volumi e saggi sulle forme e le esperienze del lavoro delle donne, in particolare sull’esperienza del lavorare a/da casa.

 

Note

[1] CNR – IRPPS, Indagine sullo Smart Working e questioni di genere negli enti di ricerca italiani durante l’emergenza Covid19, 2020, p. 61 IRPPS Working papers 120/2020.

[2] Poggio, B. (2020), Se il virus non è democratico. Squilibri di genere nella pandemia, in «Sociologie» 1(1), 37-50; Burchi, S., Samuk, S. (2021), Being a nomad in one’s home: The case of Italian women during Covid-19, in «Cambio. Rivista sulle trasformazioni sociali», 11(22), 83-95. Carreri, A., Dordoni, A. (2020), Academic and Research Work from Home during the COVID-19 Pandemic in Italy: A Gender Perspective, in «Italian Sociological Review», 10(3S), 821-845; Magneschi, C. (2021), Il lavoro femminile ai tempi del Covid-19: un’analisi a partire dall’etica di cura, in «Sociologia del diritto».

[3] La ricerca si colloca prevalentemente a livello micro, in quanto costituito da 10 focus group che hanno coinvolto oltre 60 persone che si sono trovate a lavorare da casa durante l’emergenza sanitaria, 10 di loro sono state coinvolte in un secondo momento – dopo il parziale ritorno al lavoro in presenza – attraverso un’intervista in profondità. Dal punto di vista della condizione occupazionale, la totalità delle intervistate aveva un contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato nel settore pubblico e in quello privato. Questo dato non deve stupire perché è noto che in Italia il lavoro da remoto, soprattutto nelle prime fasi dell’emergenza, è stato implementato soprattutto dalle organizzazioni medio-grandi (Istat 2020, Osservatorio Smart working 2020) e dai lavoratori dipendenti a tempo indeterminato. I risultati del lavoro di ricerca sono stati raccolti in Burchi S., Due anni di smart working. L’esperienza delle donne in Toscana, Working Paper Ires_Toscana 2022

[4] Chiaro G., Prati G., Zocca M., Smart working: dal lavoro flessibile al lavoro agile, in «Sociologia del lavoro», n. 138/2015; M. Nereri (2017) (a cura di), Smart Working: una prospettiva critica, in «Quaderno del programma di ricerca “L’officina di organizzazione”», Bologna: Tao Digital Library.

[5] Fullin G. Pacetti V. Pacetti (2020), Il lavoro da casa durante l’emergenza. Tecnologie, relazioni, controllo, in L. Cigna (a cura di) Forza Lavoro! Ripensare il lavoro al tempo della Pandemia, Fondazione Feltrinelli, Milano; Cgil FdV, (maggio 2020) Indagine Quando lavorare da casa è… smart?.

[6] Coin F. (2023), Io mi licenzio, Einaudi, Torino.