venerdì, Aprile 26, 2024
ConflittiEconomia

Droni armati in Africa: il ruolo della Turchia

a cura di Marika De Marco, Siria Mendicino e Daniele Risaliti

 

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan punta sui droni armati per espandere l’influenza di Ankara nel continente africano, dove Stati Uniti e Cina hanno finora controllato la maggior parte del mercato di queste armi autonome. Il 21 dicembre 2022 Mopti, in Mali, è diventata la quarta base dell’Africa occidentale a dotarsi del micidiale TB-2. Da quando i droni turchi sono stati testati in Libia, nel 2019, il governo Erdogan ha individuato in questo settore un asse strategico per promuovere la sua visione “neo-ottomana”, a rischio di entrare in conflitto con Pechino, Washington e Tel Aviv, suoi principali concorrenti in questo mercato della guerra automatizzata. Quali stati africani hanno droni? Da chi li acquistano? Quali sono i droni che equipaggiano gli eserciti africani? Un recente articolo pubblicato da Jeune Afrique risponde a queste e altre domande, anche attraverso alcune infografiche che riproponiamo qui.

L’Africa è diventata in pochi anni un laboratorio per questi velivoli senza pilota destinati alla sorveglianza, alla ricognizione e agli attacchi “mirati”, sia che svolgano missioni per un esercito regolare, una ONG o addirittura un gruppo terroristico come Boko Haram che, dal 2018, ha utilizzato questi dispositivi per monitorare i movimenti delle truppe nigeriane. Questa proliferazione solleva seri interrogativi, in primo luogo perché il pilota sferra i colpi da uno schermo, a distanza. In secondo luogo i criteri di identificazione del target – tipo di abbigliamento, misure, colore della pelle – lasciano ampi margini di errore e provocano molte “vittime collaterali”. Lo scorso luglio sette persone sono state uccise da un drone nel nord del Togo: le autorità, che avevano appena ricevuto dei modelli di droni turchi, si sono scusate per aver “purtroppo” confuso dei bambini con una colonna di jihadisti.

Washington ha fatto dei droni un mezzo fondamentale della sua “guerra globale al terrorismo”, in seguito agli attacchi dell’11 settembre. Gli “errori” commessi dai modelli di droni statunitensi Predator e Reaper sono stati ampiamente documentati, dall’Afghanistan alla Somalia passando per lo Yemen e la Libia. Ciò non ha però impedito agli Stati Uniti – così come alla Francia, che ormai fa ampio uso di droni nel Sahel – di intensificare il loro dispiegamento per combattere il terrorismo.

Dall’inizio degli anni 2000, tutti gli Stati del continente africano hanno cominciato a dotarsi di droni di sorveglianza, per lo più israeliani, anche se alcuni, come il Marocco, hanno iniziato a investire nella costruzione di propri dispositivi. Le aziende militari occidentali hanno voluto mantenere il controllo esclusivo dei droni armati evitando, però, abusi e potenziali violazioni dei diritti umani – così almeno affermano da Parigi e Washington. Queste motivazioni sono state considerate, da molti stati africani, come condiscendenti, paternalistiche e persino neocolonialiste.

Ma queste azioni di controllo hanno permesso l’ampliamento delle quote di mercato dei produttori turchi, cinesi, emirati e iraniani, che stanno guadagnando dal mercato africano dei droni armati offrendo attrezzature meno costose. Dopo Pechino, Ankara ha così conquistato la fiducia di diversi governi del continente con la vendita del suo TB-2, progettato dall’azienda Baykar, di cui uno dei fondatori è il genero di Erdogan, Selçuk Bayraktar.