venerdì, Aprile 26, 2024
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di Mariella Robertazzi

 

Somiglianze

“Nella quale mortalità avendo renduta l’anima a Dio l’autore della cronica nominata la Cronica di Giovanni Villani cittadino di Firenze […] propuosi nell’animo mio fare alla nostra varia e calamitosa materia cominciamento a questo tempo, come a uno rinovellamento di tempo e secolo”.

Chi scrive è Matteo Villani, fratello del cronista medievale Giovanni Villani, il quale a distanza di anni dalla morte di quest’ultimo ne continuò l’opera riprendendo la stesura della Cronica dal punto in cui era rimasta interrotta. La Nuova Cronica è un resoconto della storia di Firenze a partire dall’antichità sino agli anni quaranta del Trecento. Perché riportare le parole di un cronista che fa riferimento alla peste che colpì Firenze nel 1348? Innanzitutto, perché si riferisce ad un evento talmente traumatico da aver determinato un punto di rottura così netto tra la realtà precedente e quella successiva da porsi quale “rinovellamento di tempo e di secolo”. Ebbene, tale rinovellamento richiama l’attualità che stiamo vivendo, l’inevitabilità di adottare nuove modalità di conduzione dell’esistenza che riguardano non solo i singoli e la quotidianità sociale ma anche le istituzioni, le forme religiose e i cosiddetti costumi.

 

I cittadini di Tournai seppelliscono le vittime della peste nera, 1353ca, miniatura di Pierart dou Tielt per il Tractatus quartus di Gilles

Seriate (BG). Personale medico sanitario dell’Esercito bonifica le bare nella chiesa di San Giuseppe, marzo 2020

Se un cambiamento inimmaginabile tra il modo di affrontare la vita prima e poi accomuna la peste al COVID-19 quanto agli effetti, ad apparentare le due epidemie è altresì l’origine: si tratta, in entrambi i casi, di zoonosi. Con il termine zoonosi si fa riferimento alle malattie infettive che possono trasmettersi dagli altri animali all’essere umano. Sebbene alcune zoonosi siano note sin dall’antichità e abbiano accompagnato la storia dell’uomo, “sono le nostre interazioni con quel rischio che devono essere cambiate” sostiene Brian Bird, virologo e ricercatore alla University of California Davis, presso il One Health Insitute della School of Veterinary Medicine.

Nel 2008 un gruppo di ricercatori coordinati da Kate Jones, docente di ecologia e biodiversità presso l’University College of London, ha individuato 335 malattie comparse tra il 1960 e il 2004, di cui almeno il 60% proveniva da animali. Saremmo di fronte, afferma ancora Jones, ad una “minaccia crescente e molto significativa per la salute, la sicurezza e le economie globali”. David Quammen nel suo Spillover, libro a metà tra saggio scientifico e reportage, narra il “salto di specie”; lo spillover, appunto, il decisivo momento del passaggio degli agenti patogeni da una specie ospite ad un’altra. Ma quali sono le motivazioni che si ritrovano alla base delle recenti zoonosi?

 

Le cause manifeste

Le comunità scientifiche sottolineano come il COVID-19 rientri nelle cosiddette “malattie emergenti” (come, ad esempio, SARS o Ebola), le quali mostrano numerosi elementi in comune. Già nel 2007 lo studio “Severe Acute Respiratory Syndrome Coronavirus as an Agent of Emerging and Reemerging Infection”, pubblicato su Clinical Microbiology Rewiews da un team dell’università di Hong Kong, affermava che “la presenza di un grande serbatoio di virus simili alla Sars-CoV nei pipistrelli ferro di cavallo, insieme alla cultura del consumo di mammiferi esotici nella Cina meridionale è una bomba a orologeria”.

Al bracconaggio e al traffico illegale di fauna selvatica (secondo l’annuale “World Wildlife Crime Report” pubblicato dall’Unodc – United Nations Office on Drugs and Crime – il traffico illegale di fauna selvatica è sempre più riconosciuto sia come un settore in crescita della criminalità organizzata, che come una significativa minaccia per molte specie di animali) si affianca la nota realtà dei wet markets. Si tratta di mercati di prodotti alimentari freschi, come frutta verdura, carne e pesce, dove tuttavia, talvolta illegalmente, vengono venduti anche selvaggina e animali esotici, genericamente definiti bushmeat. Il contesto di vendita è spesso caratterizzato dall’assenza di condizioni igieniche e da situazioni di promiscuità tra gli animali vivi, le carcasse e l’essere umano. In tal senso, va precisato come non vi sia una perfetta sovrapponibilità tra i mercati di fauna selvatica e i wet market, che infatti sono stati definiti nel 2016 dall’Oxford English Dictionary semplicemente “un mercato per la vendita di carne, pesce e prodotti freschi”, senza particolare riferimento alla fauna selvatica. Tuttavia, sebbene il consumo di bushmeat abbia rappresentato un’importante fonte proteica per milioni di persone in Asia, Africa occidentale e centrale e Sud America, recentemente il suo commercio ha subito un forte incremento anche nelle aree urbane, laddove il prezzo elevato rappresenta un ulteriore fattore che rende arduo contrastarne il crescente sfruttamento.

Nonostante la pericolosità fosse già stata trattata come argomento di discussione in tema di salute mondiale, l’emergenza COVID-19 ne ha riportato alla ribalta i rischi, evidenziando come ignorare tali realtà implichi una grande responsabilità a livello globale. Tuttavia, i wet market rappresentano solo uno dei risvolti di una problematica che affonda le proprie radici in una causa che potremmo definire di più recente origine: le modalità con cui l’umanità contemporanea ha deciso di relazionarsi all’ambiente e alle altre specie viventi. La trasmissione di malattie dalla fauna selvatica a noi esseri umani rappresenta, come afferma ancora Kate Jones, “un costo nascosto dello sviluppo economico e dell’urbanizzazione”. In tal senso, il COVID-19 ha sollevato interrogativi che oramai non è più possibile trascurare: esiste una relazione tra le scelte geo-politiche e socio-economiche e la crisi sanitaria che stiamo attraversando? L’inquinamento atmosferico rende alcuni soggetti più vulnerabili nei confronti di determinate malattie?

Su queste domande si è misurato lo studio “Sustainable development must account for pandemic risk”, pubblicato sulla rivista PNAS da ricercatori dell’Università la Sapienza di Roma e del CSIRO (Commonwealth Scientific and Industrial Research Organisation). Il team di studiosi evidenzia come l’origine delle ultime epidemie sia da associarsi a comportamenti di natura antropica (deforestazione e relativa perdita di habitat, commercio di fauna selvatica, incremento dell’allevamento di bestiame in aree ad alta biodiversità) e che, di conseguenza, sia “necessario riconoscere che esistono dei compromessi tra obiettivi di sviluppo economico (come la produzione di cibo e di energia), l’impatto che questi hanno sull’ambiente e sulla biodiversità e i rischi che tali cambiamenti comportano in termini di insorgenza di pandemie”. Dunque, le alterazioni ecologiche realizzate dall’essere umano con sempre maggior frequenza e invasività e lo spostamento a grandi velocità di individui e merci, creano le condizioni ideali perché si riducano le barriere naturali tra gli animali ospiti – nei quali il virus è naturalmente presente – e gli uomini stessi. A tal proposito, sostiene Quammen: “Tagliamo gli alberi; uccidiamo gli animali o li mettiamo in gabbia e li mandiamo ai mercati. Distruggiamo gli ecosistemi e liberiamo i virus dai loro ospiti naturali. Quando ciò accade, hanno bisogno di un nuovo host. Spesso lo siamo”.

In relazione poi al possibile nesso tra il cambiamento climatico e il COVID-19, Aaron Bernestein dell’Harvard School of Public Heath ha dichiarato: “La linea di base è che se si vuole prevenire la diffusione degli agenti patogeni non dovremmo trasformare il clima. Perché questo costringe le specie a venire in contatto con altre specie che potrebbero essere vulnerabili alle infezioni”. In particolare, Bernestein ha insistito sul legame tra inquinamento atmosferico, surriscaldamento globale e alterazioni delle condizioni climatiche. L’OMS, già in un rapporto del 2007, osservava come l’alterazione dei processi di trasmissione delle infezioni virali, batteriche o parassitarie rappresentasse uno dei pericoli più significativi come conseguenza del cambiamento climatico. La relazione tra cambiamento climatico e maggiore diffusione delle malattie infettive è stata recentemente evidenziata anche dal Lancet Countdown Report 2019.

 

I possibili rimedi

“La separazione tra politica sanitaria e ambientale” continua Aaron Bernestein “è una pericolosa illusione. La nostra salute dipende interamente dal clima e dagli altri organismi con cui condividiamo il pianeta”. Di sicuro, è necessaria una riconsiderazione delle scelte politico-economiche a livello mondiale. Per combattere i cambiamenti climatici bisognerà ridurre le emissioni dei gas serra e, dunque, investire sulla generazione di elettricità da fonti energetiche come quella eolica o solare. Altrettanto fondamentale sarà la promozione di una zootecnia più sostenibile. In aggiunta, se le malattie hanno maggiori probabilità di circolare più velocemente e arrivare in luoghi molto distanti tra loro, significa che dobbiamo essere più veloci nelle risposte e quindi fornire maggiori finanziamenti per la necessaria ricerca, o più in generale per i sistemi early warning e per la prevenzione. “Dobbiamo far capire che affrontare e trovare soluzioni per l’emergenza climatica” sostiene Serena Giacomin, climatologa e presidente dell’Italian Climate Network “vuol dire trovare soluzioni per la nostra stessa salute”.

Tali considerazioni, purtroppo, presentano un certo grado di distanza rispetto alle nostre personali riflessioni. Le malattie infettive terrorizzano per le loro ricadute immediate e personali in quanto non solo minacciano le nostre esistenze e quelle dei nostri cari, ma stravolgono radicalmente il modo con cui conduciamo la nostra vita. Viceversa, il cambiamento climatico, la perdita di habitat e di biodiversità sembrano essere fenomeni lontani e, soprattutto, non implicanti la nostra individuale responsabilità. Al contrario, i piani che una società predispone per poter affrontare i suoi problemi non possono non coinvolgere anche i comportamenti dei suoi membri, nella misura in cui le risposte personali si configurano come fondamentali per poter vivere in salute e in sicurezza in una realtà fortemente interconnessa, qual è quella globalizzata. Dunque, sarebbe sicuramente opportuna una riconsiderazione di molti dei nostri più semplici atteggiamenti, a partire dal consumo della plastica per arrivare alle nostre abitudini di spostamento, passando per la nostra dieta.

 

Umile consapevolezza

Ne L’isola misteriosa, Jules Vernes narra le avventure di un gruppo di nordisti (un ingegnere, un giornalista, un marinaio, un adolescente con nozioni di zoologia e di botanica e un nero) durante la guerra di secessione americana. Gli uomini, servendosi di un pallone aerostatico, riescono ad evadere dalla città in cui sono tenuti prigionieri, nella speranza di essere trasportati oltre le linee nemiche. Una tempesta scombina i loro piani e li fa atterrare su un’incognita isola del Pacifico. Al momento di affrontare i rischi e i pericoli connessi a quella nuova situazione, il marinaio chiede all’ingegnere, leader della spedizione: “Di dove cominceremo?”. L’ingegnere risponde: “Cominceremo dal principio”. Il momento di emergenza che l’umanità sta vivendo dovrebbe portare a riflettere su questo significativo truismo, in modo da riconvertire i nostri atteggiamenti in quelli che avevamo quando ancora non era venuta meno la consapevolezza che l’essere umano, come tutte le altre specie viventi, è solo uno tra gli innumerevoli ospiti del pianeta.

 

Mariella Robertazzi, cultrice della materia in Filosofia del diritto all’Università di Pisa, ha conseguito il dottorato in Giustizia costituzionale e diritti fondamentali.