domenica, Dicembre 22, 2024
Comunicazione

Rileggere La peste di Camus al tempo del COVID-19

di Andrea Panzavolta

 

La peste, contro l’inflazione di parole e notizie…

La rilettura dei classici è sempre auspicabile, essendo questi giacimenti inesauribili di senso. Tuttavia, ve ne sono alcuni che, a causa delle particolari angustie storiche che si stanno attraversando, quasi ci vengono incontro chiedendoci di prestar loro massima attenzione. A questi appartiene senz’altro La peste (1947) di Albert Camus, il cui argomento, già esposto in modo icastico nel titolo, ha strette analogie con la pandemia in corso.

A Orano, in Algeria, è scoppiata la peste. Il romanzo in sé non è altro che il racconto di una quarantena, delle misure messe in atto per contenere il morbo, della sua progressiva virulenza e infine della sua sconfitta grazie al siero messo a punto da un vecchio medico. All’interno di questa cornice, però, si muovono dramatis personae che restano indelebili nella memoria del lettore: il dottor Bernard Riuex, una sorta di dolente cireneo che si fa carico del dolore e lo sopporta; Jean Tarrou, figlio di un pubblico ministero e per questo avversario implacabile della morte, prima di tutto di quella comminata dagli uomini ai propri simili; Joseph Grand, un polveroso impiegato comunale che attende alla stesura di un romanzo e che, come gli evangelici «servi inutili», fa semplicemente il proprio dovere; Cottard, epitome di coloro che lucrano nelle avversità; padre Paneloux, un prete dalle tinte bergmaniane, che, dopo aver additato nell’epidemia una punizione divina, comprende (per citare la Scrittura) quanto sia «terribile cadere nelle mani del Dio vivente».

Il libro, come si evince già da questo rapido richiamo ai personaggi e all’intreccio, è ricchissimo di temi. In queste poche righe ci soffermeremo soltanto su un aspetto che, per di più, ci sembra sia stato misconosciuto dalla critica: quello che ci fa ravvisare ne La peste una altissima riflessione sulla capacità dell’arte, e segnatamente della letteratura, se non di raddrizzare (verbo che avrebbe strappato a Camus un moto di rivolta) almeno di rischiarare le tortuosità del cuore umano.

Rischiarare, si badi, non illuminare. Se si può parlare di luce in Albert Camus, in questo generoso custode del migliore Illuminismo e degno epigono dei grandi moralisti francesi, essa è quella occidua del crepuscolo, non quella violenta del meriggio che sovente cela mostri più crudeli di quelli generati dalla tenebra. Rischiarare significa avere piena contezza che se le parole sono impotenti dinanzi agli effetti della peste (come possono dire l’agonia dei moribondi o lo strazio dinanzi al corpo di un bambino divorato dalla tabe?), esse tuttavia possono aiutare a comprendere l’origine del male, le cause che lo hanno prodotto e a ricordarle, per riconoscerle e contrastarle qualora si ripresentassero. Rischiarare, ancora, significa rifiutarsi di stare sia con gli assassini sia con i santi, come direbbe Tarrou, per abbracciare, invece, la causa di una «terza categoria», quella dei «veri medici», di coloro che, come la madre di Rieux, stanno al capezzale del malato per somministrargli l’unico farmaco vero: una caparbia pietà, una implacabile simpatia e una incessante attenzione. Rischiarare, infine, significa resistere nell’interrogazione, ben sapendo che mai sarà concessa una risposta esauriente.

«Ho capito come tutte le disgrazie degli uomini derivino dal non tenere un linguaggio chiaro» dice Tarrou a Rieux in uno dei passi più alti del romanzo. Ma non è proprio questo che fanno Jean Tarrou, Bernard Rieux e Joseph Grand, rendere cioè più chiare le parole? Tutti e tre non sono forse scrittori, per quanto improvvisati? Il primo tiene dei taccuini (una sorta di diario della quarantena) su cui annota aneddoti, impressioni e dialoghi che saranno poi utilizzati in parte da Rieux. Questi, come si scopre alla fine, è l’autore della cronaca in tempore morbi e Grand, un anodino funzionario comunale, attende alla stesura di un romanzo di cui ha completato solamente l’incipit, che però sottopone a una estenuante revisione al fine di trovare il mot juste, la ‘parola adeguata’.

Proprio Grand è additato da Rieux quale modello di eroismo: «il narratore […] propone quest’eroe insignificante e sbiadito, che non aveva per sé che un po’ di bontà di cuore e un indole apparentemente ridicola». Rieux scorge nella pervicacia con cui Grand riscrive la frase d’esordio del suo romanzo l’unico antidoto contro la rassegnazione, il flagello peggiore dopo la morte provocato dall’epidemia. Rassegnazione che trova insospettabili complici negli appelli che il cosiddetto mondo libero, attraverso la radio e i giornali, fa giungere alla città appestata. Sia che ammicchino al «tono da epopea» sia che indulgano alla vacua retorica propria del «discorso ufficiale», quegli appelli mostrano l’oscenità dell’eloquenza, il cortocircuito tra il significato pubblico e quello privato della parola ‘peste’, la quale, pronunciata da chi non è in quarantena dentro la città, ha il suono fesso di uno strumento scordato e produce l’effetto di una posa fotografica presa da un turista durante un viaggio, di cui coglie soltanto l’aspetto ‘pittoresco’ e non le forme reali di vita. Tale linguaggio, annota Rieux, «non poteva applicarsi ai piccoli sforzi quotidiani di Grand […], non potendo rendersi conto di quel che significava Grand in mezzo alla peste […]. E dai confini del mondo […] voci ignote e fraterne si provavano goffamente a dire la loro solidarietà e la dicevano, infatti, ma dimostrando nello stesso tempo la terribile impotenza, in cui si trovava ogni uomo, di spartire veramente un dolore che non può vedere. […] “Orano, Orano!” […] subito l’eloquenza saliva e denunciava ancor meglio la separazione essenziale, che rendeva due estranei Grand e l’oratore».

Ma l’ossessione del dimesso segretario comunale è «apparentemente ridicola»: nel suo infaticabile labor limae è racchiusa la forza stessa della poíesis, che conferisce al linguaggio spessore e profondità, trasformandolo in memoria e creazione. Grand è il vero eroe perché più di tutti si è fatto poeta nel significato a cui si accennava. Così «ha guadagnato la partita», come direbbe Tarrou: ha conseguito, cioè, la conoscenza del male patito e la sua memoria, a differenza della maggior parte dei sui concittadini che hanno patito il male senza tuttavia trarre da esso un valido ammaestramento, condannandosi a essere impreparati davanti a future epidemie. Perché «il bacillo della peste non muore né scompare mai».

Là dove la peste divide e separa (verbi che ritornano con martellante cadenza nel corso del romanzo), l’arte unisce. Non è un caso che Rieux, Torrou e Grand siano amici. Tutti e tre scorgono nella scrittura il luogo in cui si può essere davvero liberi, perché nella scrittura, quando non si corrompe in menzogna, in lenocinio intellettuale o in fatuo autocompiacimento, rifluiscono alla pari dolore e bellezza, l’endiadi su cui poggia il romanzo. Infatti si resta turbati davanti alla furia con cui la peste flagella Orano. Si prova impotenza e ira quando il figlio del giudice Othon muore dopo una notte di tormenti. La lunga agonia di Tarrou ci strazia perché ormai lo sentivamo amico nella buona battaglia. Ma, nel contempo, è impossibile non avvertire una pienezza quasi opprimente davanti alla descrizione di certi tramonti che riversano su Orano una bellezza tanto sontuosa quanto indifferente all’umano patire. E soprattutto è impossibile non sentire fin nei precordi un senso di fraternità, che ci fa riconoscere nel mondo, nei suoi irresistibili incanti e nella sua sconfinata miseria, nel suo «dritto e rovescio», il nostro primo e ultimo amore.

Se l’antinomia è il principio costitutivo dell’esistenza umana, l’arte riesce a trasformarla in endiadi, a tenere insieme i distinti. Il fine dell’arte, infatti, è cum-prehendere, nella duplice accezione di ‘conoscere’ e di ‘mettere in relazione’ coloro che sono lontani, vuoi nello spazio vuoi nel tempo. L’arte è racconto e testimonianza, eredità e memoria, severo obbligo e perpetua tensione tra bellezza e dolore: «[…] il dottor Rieux decise allora di redigere il racconto che qui finisce, per non essere di quelli che tacciono, per testimoniare a favore degli appestati, per lasciare almeno un ricordo dell’ingiustizia e della violenza che gli sono state fatte, e per dire semplicemente quello che s’impara in mezzo ai flagelli, e che ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare».

Tarrou, in una pagina indimenticabile, si domanda se sia possibile divenire santi senza Dio. Rieux, sommessamente, gli risponde di non avere una particolare inclinazione né per la santità né per l’eroismo e che la sola cosa a interessargli è «essere uomo». Dopo la lettura de La peste si capisce che l’appartenere alla specie umana passa anche attraverso il rispetto che si ha verso le parole che si scrivono, perché per mezzo di esse si rispettano coloro che le leggono.

 

…per un rifiuto della metafora bellica

Nel descrivere la lotta ingaggiata da Rieux e dai suoi compagni contro la peste, Camus non ricorre mai a immagini o a metafore tratte dal lessico polemiologico.

Oggi, al contrario, in piena pandemia da Covid-19, innumerevoli voci, non solo della scienza e della politica, ma anche del giornalismo e della cultura, dello spettacolo e dello sport, fanno un uso massiccio di parole dall’inconfondibile timbro guerresco: il ‘bollettino’ letto ogni giorno dal capo della Protezione Civile; ospedali quali ‘campi di battaglia’; reparti dove i medici e gli infermieri sono come in ‘trincea’, i morti considerati alla stregua di ‘caduti sul fronte’. Il risultato è una verbosa galleria del vento di parole inflazionate, che hanno perduto il ‘numinoso’.

Parlare di ‘guerra’ al tempo del Covid-19 è, però, fuorviante. La guerra, infatti, è solo guerra, dedita esclusivamente all’annientamento per conseguire la vittoria. A tal fine lo Stato è autorizzato a mettere a partito tutte le proprie risorse e a intraprendere ogni azione, anche la fondazione di un nuovo diritto in cui pericolosamente potrebbero confondersi idealismo e realismo, umanitarismo d’accatto e cinico calcolo, fatui discorsi sul ‘bene comune’ e spicciola brutalità. La politica si trasforma così in una succursale dell’economia: basta che una manovra rechi un qualche risultato in termini di contenimento dell’epidemia, che subito diviene ipso facto buona, giusta e replicabile.

Il linguaggio bellico rischia, così, di trasformarsi in una cortina fumogena che impedisce di vedere come stanno realmente i termini della questione: spostare tutto, ad esempio, sull’eroismo di medici e infermieri – eroismo innegabile, per il quale si potrebbe ripetere la frase di Churchill «mai così tanti dovettero così tanto a così pochi» – significa distogliere l’attenzione e quindi il giudizio dagli sciagurati tagli alla sanità pubblica. O parlare di ‘valori in gioco’ con riferimento ai pazienti giovani e anziani, significa ancora una volta flirtare con il vocabolario dell’economia e far passare l’aberrante assunto per cui la vita degli uni sia più meritevole di tutela di quella degli altri.

Ecco, allora, perché è opportuno rifiutare il linguaggio mutuato dalla guerra: questa è inimicizia, divisione, contrapposizione, volontà di nuocere, acritica accettazione di rischi collaterali. Camus, invece, nel suo straordinario romanzo, ci insegna che le offese alle parole sono un’offesa all’uomo e che ogni lotta intrapresa per la sua salvezza è sempre fraterna, perché è volontà di comunione e cura della preziosissima fragilità di ogni essere.

 

Andrea Panzavolta è giornalista pubblicista. Collabora alla rubrica “Film in discussione” di Iride. Filosofia e discussione pubblica, e ad alcune riviste di critica cinematografica. Dal 2014 è il direttore artistico della rassegna concertistica forlivese “Passioni in musica”.