giovedì, Novembre 21, 2024
DirittiGeneri

Retribuire il lavoro domestico: una recente sentenza spagnola

di Ana Marrades Puig                                                       

Già a partire dagli anni Settanta si è sviluppato il dibattito sociale, politico e accademico sulla remunerazione del lavoro domestico svolto dalle donne nelle loro case. Silvia Federici racconta come nacque il New York Wages for Housework Collective, organizzazione femminista autonoma che, tra il 1973 e il 1977, si mobilitò per chiedere che lo Stato pagasse il lavoro domestico. Eppure il femminismo, che ha spesso affrontato questo tema, non è mai stato unanime sull’opportunità di remunerare il lavoro domestico poiché, oltre alle difficoltà tecniche e al carattere politico dei criteri da utilizzare, esiste il timore che tale riconoscimento possa determinare un rafforzamento dei ruoli tradizionali assegnati alle donne. Tuttavia, ciò che sembra importante è valorizzare tale lavoro e, in particolare, quello di cura. Come spiega Lourdes Beneria, tale lavoro genera svantaggi (veri e propri costi) per la lavoratrice, dunque la sua contabilità è essenziale per analizzare se la distribuzione dei carichi di lavoro domestico sia equa e per promuovere le politiche più appropriate per una conciliazione corresponsabile, comprese le politiche macroeconomiche e di bilancio[1]. La considerazione di tale lavoro serve anche a sviluppare indicatori per l’utilizzo del tempo e la rendicontazione completa della produzione familiare, utile anche a fini statistici.

Nonostante i benefici della proposta di retribuire il lavoro domestico, essa incontra due obiezioni principali: il processo è metodologicamente molto complicato e, soprattutto, il lavoro di cura è estremamente peculiare, specie considerando le sue componenti personali, affettive ed emotive, che rendono poco calzante l’impiego dei parametri propri del lavoro di mercato; inoltre, è stato sottolineato che “qualcosa di essenziale si perde attribuendo valore monetario al lavoro di cura non retribuito nel tentativo di dargli visibilità”[2].

A ben vedere, la giurisprudenza spagnola non è nuova al riconoscimento della quantificazione economica del lavoro domestico e di cura. Recentemente, un Tribunale di primo grado (Vélez-Málaga, sentenza del 6 marzo 2023) ha condannato un uomo a pagare alla ex moglie la somma di 204.000 euro “come risarcimento per il lavoro domestico svolto a casa, non retribuito” durante i 25 anni di matrimonio. L’argomento addotto a giustificazione di tale riconoscimento è che, mentre il marito stava crescendo professionalmente, la moglie rimaneva a casa per prendersi cura delle loro figlie. Secondo la sentenza, ella, “durante tutto quel tempo ha portato avanti la sua famiglia. Affinché il marito potesse coltivare un progetto imprenditoriale, è rimasta ad accudire le figlie, senza alcun aiuto esterno “.

L’articolo 1438 del codice civile spagnolo dispone che: “I coniugi contribuiscono all’adempimento degli oneri matrimoniali. In assenza di un accordo, lo faranno proporzionalmente alle rispettive risorse economiche. I lavori per la casa saranno considerati come contributo agli oneri e daranno diritto ad ottenere un risarcimento che il Giudice, in mancanza di accordo, indicherà all’estinzione del regime di separazione”[3].

Le somme previste dall’art. 1438 del codice civile sono dunque relative al lavoro svolto per la casa da uno dei coniugi, in regime di separazione dei beni, valutato come contributo all’assolvimento delle responsabilità familiari.

Con la sentenza 26 marzo 2015, n. 135, la Corte Suprema aveva chiuso ogni contrasto interpretativo da parte della dottrina e della giurisprudenza dei Tribunali Provinciali, avallando i contenuti delle sentenze del Tribunale di ultima istanza del 14 luglio 2011 e del 31 gennaio 2014. Con la sentenza del 2015, la Corte, da un lato, aveva escluso il requisito dell’arricchimento del debitore ai fini del riconoscimento di un compenso per il lavoro domestico; dall’altro lato, aveva richiesto che la dedizione del coniuge al lavoro e alla casa fosse esclusiva, ma non anche escludente. Quanto al carattere “esclusivo”, tale lettura impediva il riconoscimento del diritto al risarcimento nei casi in cui il coniuge che lo rivendicava avesse conciliato la cura della casa e della famiglia con lo svolgimento di lavori fuori casa, part-time o full-time; quanto al carattere “escludente”, invece, veniva ritenuto compatibile con la collaborazione occasionale dell’altro coniuge, anch’esso nell’ottica di contribuire agli oneri del matrimonio, o con quella di un aiuto esterno. Nel suo commento, Guilarte osserva come le Sentenze della Prima Sezione della Corte di Cassazione del 26 marzo 2015 e del 14 aprile 2015 consolidino la dottrina giurisprudenziale avviata dalla Sentenza del 14 luglio 2011 sul compenso per il lavoro domestico, stabilendo come unico requisito per la sua concessione la dedizione esclusiva, ma non eslcudente, del lavoro domestico, a prescindere dall’arricchimento patrimoniale.

In un commento successivo, Guilarte spiega il percorso giurisdizionale che ha portato a riconoscere, con la sentenza della Corte Suprema del 26 aprile 2017, la retribuzione senza la condizione del lavoro domestico esclusivo: la pronuncia concede un indennizzo per il lavoro domestico ex art. 1438 c. c. alla moglie che, durante il matrimonio, abbia lavorato anche come dipendente nell’azienda di proprietà del marito. Quest’ultimo aveva proposto ricorso in Cassazione lamentando la violazione della predetta norma e rifacendosi alla interpretazione della giurisprudenza che fino a quel momento aveva escluso il riconoscimento “nei casi in cui il coniuge che lo rivendica abbia conciliato la cura della casa e della famiglia con lo svolgimento di lavori fuori casa, part-time o full-time” (vedi le sentenze sopra richiamate del 26 marzo e del 14 aprile 2015). La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso presentato dal marito cambiando il proprio orientamento, e considerando che la collaborazione in attività professionali o di impresa familiare è anch’essa lavoro per la casa e, quindi, non esclude il risarcimento. Il lavoro svolto per la famiglia non è compensato, ma fa nascere il diritto a ricevere una piccola parte del guadagno ottenuto dall’altro coniuge, commisurato alla intensità della dedizione alla casa, alla cura dei familiari e alla durata del matrimonio, e valutato secondo equità dal giudice. Nel caso di specie, Guilarte ritiene che la somma avrebbe dovuto essere molto più alta di quella concessa, data la consistenza del patrimonio dell’ex coniuge e l’intensa dedizione della madre alla famiglia. Osserva alresì che la modifica della giurisprudenza è incompleta, in quanto non si estende al lavoro subordinato qualora, come sottolinea la Corte suprema, non sia esercitato alle dipendenze di soggetti terzi, in condizioni di lavoro simili (precarietà, riduzione dell’orario di lavoro, lavoro part-time), o peggiori, poiché svolto in ambiente estraneo alle possibili esigenze della vita familiare.

La citata sentenza del 6 marzo 2023 consolida dunque la giurisprudenza estensiva che si è commentata, riconoscendo il diritto a un compenso per la “cura della casa e delle figlie, con tutto ciò che questo comporta”, anche nei casi in cui tale attività sia stata affinacata a un ulteriore lavoro svolto per l’azienda di famiglia.

Ana Marrades Puig è professoressa di Diritto Costituzionale e Direttrice della Cattedra di Economia Femminista presso l’Università di Valencia.

Note

[1] Benería, Lourdes, Berik, Günseli e Floro, María. (2018) Género, desarrollo y globalización. Una visión desde la economía feminista, Barcelona:Bellaterra, pp.292-293.

[2] Ibidem, p. 303

[3] Si veda LEFEBVRE, F (2023) Regímenes económico-matrimoniales, 7.ed. Francis Lefebvre.