giovedì, Dicembre 26, 2024
Salute

Perché investire nella long term care

In Italia cresce sempre più la quota degli over 65. Sebbene molti siano in buona salute, le spese dello Stato per le cure degli anziani non autosufficienti impegnano una quota significativa dei bilanci pubblici. Potrebbe essere una situazione vantaggiosa, come spiega Annamaria Simonazzi su InGenere, per la creazione di una economia dell’assistenza e della cura, con relativi qualificati posti di lavoro. Tuttavia, i presupposti di questo progetto economico-sociale devono essere solidi, a partire dalle politiche nazionali volte al rifinanziamento e al consolidamento del sistema di assistenza, compresa la organizzazione delle strutture di accoglienza, valutando criticamente la tendenza in corso da decenni verso la privatizzazioni dei servizi e delle residenze per persone anziane. La crisi sanitaria in corso deve diventare l’occasione per agire, non solo per mantenere e difendere il sistema assistenziale italiano, ma per riformarlo radicalmente intorno al modello della long term care.

 

di Annamaria Simonazzi 

La domanda di assistenti familiari è destinata a crescere in modo importante nei prossimi trent’anni, quando le persone anziane in Italia saranno oltre 12 milioni. Occorre agire in tempo e investire nella long term care.

L’Italia ha il più alto rapporto di popolazione oltre i 65 anni sul totale della popolazione in Europa. Sebbene cresca la quota degli over 65 in buona salute, il problema della non autosufficienza (in inglese long term care, abbreviato Ltc, ndr) viene progressivamente spostato in avanti. L’assistenza alle persone non autosufficienti rappresenta una voce importante nei bilanci pubblici e in quelli delle famiglie. Invecchiare in salute è non solo un obiettivo fondamentale della qualità della vita, ma rappresenta anche un buon investimento dal punto di vista economico. Il piano nazionale per la ripresa e la resilienza proposto dal governo dovrebbe articolarsi anche intorno a questa consapevolezza.

La divisione del lavoro nel sistema italiano di Ltc rientra ancora in quello che era stato definito il “modello mediterraneo” di cura, centrato sostanzialmente sulla famiglia, che supervisiona spesso il lavoro di assistenza di una “badante”, con il supporto pubblico consistente in modo prevalente di trasferimenti monetari. Il ricorso alla cura residenziale viene spesso riservato alla fase di maggiore morbilità, con la conseguenza che è mutata nel tempo la popolazione delle residenze, cui spettano sempre di più compiti sanitari, più che assistenziali.

Nonostante l’urgenza crescente del bisogno, non ci sono stati cambiamenti notevoli in questo modello. Secondo il sociologo Cristiano Gori, le politiche per gli anziani non autosufficienti hanno raggiunto in Italia il massimo livello di espansione nel decennio 2000-2010, quando si sono avute risposte a livello locale alla crescente domanda, con un ampliamento dell’utenza nelle diverse tipologie di interventi. Tuttavia la crisi ha invertito la tendenza, lasciando cadere ogni iniziativa di riforma a livello centrale.

La differenza fra l’organizzazione del sistema italiano – combinato con l’evolversi delle caratteristiche demografiche, sanitarie e sociali (struttura della famiglia, occupazione femminile, ecc.) – e gli altri sistemi europei è ben illustrata da due dati: il diverso peso dei lavoratori domestici e dei lavoratori nei servizi dell’assistenza in Italia sul totale europeo (con l’avvertenza che i dati riguardano solo i lavoratori regolari) (tabella 1) e il ruolo svolto dalla cura residenziale (figura 1).

In Italia le strutture residenziali accolgono meno della metà degli anziani presenti in analoghe strutture di altri paesi avanzati.[1] Uno studio del Politecnico (citato in Arlotti e Ranci, 2020), documenta tre tendenze degli ultimi anni: una spiccata sanitarizzazione – aumenta notevolmente la quota di residenze ad alta intensità sanitaria; una fragilizzazione progressiva dei ricoverati – la quota dei ricoverati over 80 aumenta, così come quella dei soggetti non autosufficienti; un processo di privatizzazione delle strutture che sta riducendo il peso del settore pubblico – a fronte della perdita complessiva di circa 25.000 posti letto nelle strutture pubbliche si verifica un aumento di circa 20.000 posti letto nelle strutture private.

Tra le ragioni della privatizzazione gioca un ruolo importante una presunta maggiore efficienza gestionale e, in particolare, l’opportunità di ridurre i costi delle strutture. La privatizzazione consente infatti, funzionalmente, una riduzione dei costi perché al personale – che rappresenta la variabile principale di costo – si applicano contratti di lavoro meno onerosi e meno tutelati rispetto a quelli applicati dagli enti pubblici.

Tabella 1. Distribuzione tra i paesi Ue di lavoratrici e lavoratori domestici nelle famiglie e nei servizi di assistenza sociale, residenziale e non, 2018

Fonte: Domina (2019)

Queste tendenze si sono sviluppate in un quadro di crescenti restrizioni nell’investimento pubblico. Le strutture residenziali sono infatti finanziate in parte dal servizio sanitario nazionale (che in teoria dovrebbe coprire il 50% dei costi) e in parte dalle tariffe pagate dagli utenti (o dai comuni nel caso di persone indigenti). L’aumento delle prestazioni sanitarie e di un’utenza con spiccati bisogni assistenziali ha aumentato notevolmente i costi a fronte della invarianza, da diversi anni, della quota sanitaria di finanziamento pubblico[2].

Stretti nella morsa tra costi crescenti e carente finanziamento pubblico, le strutture hanno messo in atto diverse strategie: l’aumento delle tariffe (a scapito però degli utenti più poveri), il taglio del personale (soprattutto quello medico – ridotto del 15% in sette anni – un fatto paradossale se si pensa che si tratta di strutture sempre più sanitarizzate), la diminuzione del minutaggio assistenziale, la rinuncia al rinnovamento degli edifici e delle attrezzature.

In conclusione, si è costruito un mercato misto pubblico-privato delle strutture residenziali, in cui le tensioni derivanti dal mancato investimento delle politiche pubbliche vengono “scaricate” sull’incremento delle rette e su una tendenza marcata alla riduzione degli standard e dei costi, inclusa la compressione del personale, che si traduce in un decremento sostanziale della qualità assistenziale.

Figura 1. I costi dell’assenza di un sistema di cura organico

L’organizzazione del sistema di Ltc italiano si riflette ovviamente nella struttura e nella distribuzione dei costi. Il quadro normativo di riferimento è tuttora frammentato e manca, ad oggi, una cornice comune degli interventi, anche a livello regionale. Molte regioni svolgono già un’attività di coordinamento per l’integrazione dei servizi socio-assistenziali con quelli sanitari e con gli altri servizi territoriali, attraverso la programmazione e lo sviluppo di interventi nel campo sociale, in particolare, a favore di anziani e persone con disabilità, ma la mancanza di un coordinamento nazionale, che garantisca l’osservanza dei livelli essenziali di assistenza, comporta un’elevata eterogeneità territoriale.

La responsabilità dell’organizzazione e di una parte rilevante del finanziamento della Ltc è dunque tuttora scaricato sulla famiglia, e soprattutto sulle donne. Le difficoltà di conciliazione lavoro-cura si traducono in intermittenza nella presenza sul mercato del lavoro, difficoltà economiche, stress, e nel lungo periodo, in povertà nell’età anziana. Il Gimbe Report 2019 ha stimato in 42 miliardi, pari al 2,4% del Pil, il costo complessivo della Ltc nel 2017. Questa cifra include la stima del mancato reddito del caregiver, ma esclude il costo per le badanti irregolari, stimato fra i 3,5 e 7,1 miliardi di euro.

Tabella 2. Stima della spesa sociale di interesse sanitario in milioni, 2017

Fonte: Gimbe Report 2019

Le prestazioni in denaro comprendono l’assegno di invalidità e di accompagnamento, voucher, contributi erogati per agevolazioni sui ticket o sulle rette per centri diurni, assistenza residenziale e semi-residenziale. Le prestazioni in natura includono prestazioni sociali a rilevanza sanitaria (assistenza domiciliare socio-assistenziale e di assistenza domiciliare integrata) con servizi sanitari di competenza comunale. Nel 2016 la spesa comunale per la non-autosufficienza assorbiva il 56,4% della spesa totale dei Comuni per i servizi sociali (7.056 milioni di euro), di cui due terzi (60 per cento) in servizi di cura.

La Ragioneria generale dello stato fornisce la ripartizione della spesa pubblica per Ltc per componenti e per macro-funzioni (tabella 3). Nel 2018 la spesa totale ammontava all’1,7% del Pil, di cui circa tre quarti erogata a soggetti con più di 65 anni. L’indennità di accompagnamento assorbe quasi la metà della spesa pubblica complessiva. La componente sanitaria per Ltc rappresentava il 10,7% della spesa sanitaria complessiva, ed era per il 60% in forma residenziale. Le altre prestazioni riguardavano per il 55% prestazioni in natura (non-residenziale e residenziale) e per il 45% trasferimenti in denaro.

Tabella 3. Spesa pubblica per Ltc: distinzione per componenti e per macro-funzioni (in rapporto al Pil)

Fonte: Ragioneria Generale dello Stato (tab. 4.1 e 4.2, 2019)

Risulta evidente una caratteristica principale del sistema italiano di assistenza alle persone non-autosufficienti, e cioè la prevalenza assoluta dei trasferimenti monetari e la relativa irrilevanza delle prestazioni in natura, concentrate nei comuni. Questo alimenta un’altra caratteristica del sistema italiano di cura, cioè la dipendenza dal lavoro di cura, spesso irregolare (il cosiddetto badantato).

Una ricerca dell’Associazione nazionale famiglie datori di lavoro domestico stima che nel 2018 vi fossero 2 milioni colf e badanti, di cui 6 su 10 (1,2 milioni) irregolari. Degli 859 mila regolari (pari al 41,7% del totale), 456 mila erano classificati come collaboratori domestici (colf) e 402 come assistenti familiari (badanti).

Nel 2018 l’Inps registra in Italia 402 mila assistenti familiari, una media di 6 assistenti familiari ogni 100 persone con almeno 75 anni a livello nazionale (con le province del Centro-Nord che registrano valori più elevati).

Estrapolando il fabbisogno di badanti in linea con la crescita della popolazione over-75, a tecnologia e morbilità immutata, ma tenendo conto delle differenze territoriali, il Rapporto Domina 2019 stima una domanda di assistenti familiari pari a 463 mila nel 2030 e 685 mila nel 2055 (70% in più rispetto ai valori attuali, a fronte di una popolazione over 75 anni pari ad oltre 12 milioni). Queste stime si basano sul rapporto fra assistenti regolari e popolazione over75, e sottostimano fortemente la domanda reale.

Si tratta dunque di un mercato in forte espansione, che riflette l’intensità del bisogno corrente e futuro e che, se non affrontato tempestivamente, avrà inevitabilmente ripercussioni sociali ed economiche. I costi (e l’iniquità) della mancata risposta alle crescenti domande poste da questo rischio sociale sono stati denunciati da anni e esposti in modo drammatico dal Covid. Ma la continuazione di questa miopia si rivelerà drammatica di fronte alla prevedibile evoluzione futura della non-autosufficienza.

Se, come prevedibile, non si sarà trovata una cura per l’Alzheimer entro il 2035, serviranno centri dedicati alla demenza, occorrerà trasformare il funzionamento e il finanziamento del settore della cura, potenziare i servizi, oltre che il finanziamento, a sostegno dalle famiglie.

Le Rsa devono essere ripensate come un nodo della rete sociosanitaria, in continuità e coordinamento con gli altri servizi: cura domiciliare, residenzialità leggera (ad esempio alloggi protetti, comunità alloggio, residenza assistenza), riflettendo condizioni eterogenee.

Un punto delicato riguarda l’indennità di accompagnamento, che rappresenta quasi la metà della spesa pubblica e, dati i vincoli di bilancio, comporta un sotto-finanziamento dei servizi. L’importo uguale per tutti impedisce di rispondere in modo appropriato alle diverse situazioni, in particolare a quelle caratterizzate da elevati bisogni assistenziali e ridotte disponibilità economiche, acuendo il legame sempre più stretto tra non autosufficienza e rischio di povertà.[3]

Occorre agire in tempo. La razionalizzazione della spesa per l’assistenza, con un rafforzamento delle prestazioni di servizi, e l’integrazione fra i vari punti del continuum della cura può portare a una notevole riduzione dei costi, economici e umani, sia per l’amministrazione pubblica che per gli utenti e i loro caregiver, in termini di denaro, tempo e qualità della cura.

L’investimento nella Ltc non solo crea più occupazione diretta (data la sua maggiore intensità di lavoro) rispetto alle infrastrutture fisiche, ma al pari degli investimenti in “infrastrutture sociali”, contribuisce al potenziamento e al miglioramento della capacità produttiva di un paese tanto e forse più degli investimenti fisici. Migliora il suo “capitale umano”, quindi crea una popolazione più istruita, più sana, più libera nella scelta tra cura e lavoro retribuito e può contribuire a risolvere alcuni importanti problemi economici e sociali delle nostre economie: la bassa produttività, le carenze di servizi di cura, la diseguaglianza di genere sia nel mercato del lavoro sia nella distribuzione del lavoro di cura non pagato. Come si è ampiamente argomentato anche su InGenere, se accompagnata a una politica di investimenti in tecnologie innovative, è in grado di costituire un motore di crescita anche per i settori tecnologici più all’avanguardia.

 

Riferimenti bibliografici

Arlotti, M., Ranci, C. (2020). Un’emergenza nell’emergenza. Cosa è accaduto alle case di riposo del nostro paese?

Bettio, F., Simonazzi, A., Villa, P. (2006). Change in care regimes and female migration. The ‘care drain’ in the Mediterranean, Journal of European Social Policy, vol. 16, pp. 271-285.

Luppi M. (2015), Non autosufficienza e impoverimento, in NNA (a cura di), L’assistenza agli anziani non autosufficienti in Italia. 5° Rapporto – Un futuro da ricostruire, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna, pp. 87-103.

Notarnicola, E. (2019). Le politiche regionali per la Long-Term Care: come si sono mosse le Regioni? I luoghi della cura, n. 4

 

Note

[1] Secondo i dati Istat, nel 2016 nelle strutture residenziali risultavano ricoverati quasi 300.000 anziani over 65, di cui in gran parte ultraottantenni (il 75%), donne (il 75%) e non autosufficienti (il 78%).

[2] Le regioni non hanno provveduto ad aumentare nel corso degli anni gli importi di remunerazione delle quote sanitarie, nonostante il progressivo aggravamento delle condizioni di bisogno degli anziani ricoverati. In queste condizioni, l’aumento dei costi è stato scaricato esclusivamente sulle tariffe pagate dagli utenti. Di fatto, oggi la quota sanitaria è in molti casi inferiore al 50% previsto dalla legge. Le tariffe sono invece aumentate, mettendo sotto stress i bilanci di anziani e famiglie.

[3] Un aspetto potenzialmente rilevante in una riforma complessiva della non-autosufficienza riguardante la sostenibilità finanziaria concerne la valorizzazione delle disponibilità economiche degli anziani, sovente dotati di reddito contenuti ma di significativi patrimoni (soprattutto casa ed altri beni immobili). Infine, si tratta di incentivare forme di accumulazione di risorse che contribuiscano ad affrontare il rischio di futura non autosufficienza, a partire dai fondi privati.

 

Fonte: InGenere, 15 divembre 2020.