Oltre la resilienza: giustizia e cura collettiva secondo Malaka Shwaikh
di Milady Cordero
In occasione della Conferenza EuPRA 2024, Malaka Shwaikh, professoressa associata di “Studi sulla pace e sui conflitti” presso la University of St. Andrews, ha tenuto un intervento dal titolo “I pericoli delle aspettative di resilienza”, nel quale ha esaminato criticamente le varie implicazioni delle narrazioni sulla resilienza che vedono al centro le comunità che subiscono violenza e oppressione, con particolare attenzione al contesto palestinese.
Sottolineando come l’enfasi sulla “resilienza” spesso distolga l’attenzione dalle cause strutturali della sofferenza, Shwaikh ritiene che tali narrazioni attribuiscano un’eccessiva e ingiusta responsabilità ai singoli individui, in quanto ci si aspetta da loro che siano in grado di affrontare le avversità, invece di agire sulle cause profonde del loro disagio.
A partire da una riflessione sulla propria frustrazione per essere stata spesso etichettata come “resiliente”, ad esempio rispetto alle continue violenze inflitte al popolo palestinese, Shwaikh ritiene che questa caratterizzazione sia disumanizzante, in quanto trasferisce sugli oppressi il peso della lotta per la sopravvivenza, ignorando la pervasività delle forme strutturali e culturali di violenza e le responsabilità di chi detiene effettivamente il potere.
Resilienza e sumud
Diverso dal concetto di resilienza è quello di sumud, termine arabo che può essere tradotto con “fermezza”. A differenza della resilienza, che è oggetto di imposizione, il sumud è una scelta: una scelta consapevole e volontaria di resistere, promossa all’interno della stessa comunità che subisce violenza od oppressione.
Mentre la resilienza esprime un’aspettativa esterna di adattamento alle avversità, il sumud è la scelta di esistere impegnandosi nella resistenza attiva contro un’occupazione o una condizione di dominio, anche quando si sarebbe in grado di andarsene: ciò include anche il mantenimento delle proprie tradizioni e del proprio patrimonio, dal cibo all’abbigliamento.
Shwaikh definisce come sumud le pratiche di resistenza avviate dai palestinesi contro il progetto coloniale israeliano: si tratta di una politica di rifiuto, tramite la quale ci si oppone alla volontà di un potere dominante di determinare il proprio destino. Il termine è ampiamente utilizzato anche dai rifugiati palestinesi dispersi in tutto il mondo, per riferirsi alle forme di resistenza cui ricorrono nel loro esilio, tra cui la rivendicazione di una profonda connessione con la loro terra e il loro desiderio per una Palestina libera.
Limiti e pericoli delle narrazioni correnti sulla resilienza: il caso della Palestina
Le organizzazioni per lo sviluppo internazionale usano il lessico della resilienza in modo sistematico: vengono promossi corsi, workshop, programmi scolastici e politiche pubbliche per insegnare alle comunità oppresse come essere resilienti di fronte all’ingiustizia. In questa prospettiva, la resilienza rivela la sua natura di discorso ideologico: il suo scopo è spingere le comunità in zone di conflitto e di oppressione a sopportare la violenza senza affrontarne le cause profonde.
I programmi di resilienza internazionali finiscono così per perpetuare lo status quo, creando dipendenza dai finanziamenti provenienti dall’estero. La Palestina offre un ottimo esempio di tale dipendenza. L’enfasi eccessiva sui programmi di resilienza finanziati dall’estero solleva Israele dalle proprie responsabilità legali rispetto alla popolazione residente nel territorio occupato, ma esime anche gli altri paesi dal garantire pieni diritti di cittadinanza ai rifugiati palestinesi. Inoltre, l‘Autorità Nazionale Palestinese (ANP) è diventata completamente dipendente dagli aiuti internazionali e dall’economia israeliana.
Un primo pericolo connesso alla nozione di resilienza consiste nella sua declinazione in termini puramente quantitativi. La Guida comune per aiutare a costruire società resilienti, pubblicata dalle Nazioni Unite nel 2020, non solo spinge le comunità vulnerabili a identificare risultati quantificabili, ma specifica anche il numero di anni che la costruzione della resilienza dovrebbe richiedere, ovvero più di quattro anni. Il problema, secondo Shwaikh, è che imporre una prospettiva così astratta e generica a una comunità specifica rischia di ignorare le sue peculiarità, anche in termini intersezionali.
Un secondo pericolo è che le politiche di resilienza promosse a livello internazionale procedono dall’alto verso il basso, non includendo i saperi e le pratiche di resistenza delle comunità locali e ignorando le loro elaborazioni in tema di pace e giustizia. È quanto avviene, secondo Shwaikh, con il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP) che, nell’ottobre 2012, ha creato un programma specifico denominato UNDP’s Community Resilience and Development Programme (CRDP). Nell’ultimo rapporto sui risultati ottenuti rispetto alla comunità palestinese, si afferma che sia stata migliorata la resilienza di oltre 112.000 persone nelle aree oggetto dell’intervento, senza specificare cosa significhi “migliorare la resilienza”, come venga misurata né cosa migliori realmente la resilienza nelle zone di conflitto.
Un terzo e ultimo pericolo, secondo Shwaikh, è che il discorso sulla resilienza tende a distinguere tra vittime “meritevoli” e “non meritevoli”, adottando un tipico approccio neoliberale. Mentre le vittime ritenute meritevoli, come ad esempio gli ucraini, vengono sostenuti attivamente nel loro sforzo di reagire all’invasione russa, dalle vittime non meritevoli ci si aspetta che rimangano resilienti, indipendentemente da quanta violenza venga loro inflitta. Un esempio di questo pericolo può essere individuato nelle politiche dell’UNDP che, nel 2016, ha co-organizzato la prima conferenza sul tema intitolata “Dal sumud alla resilienza trasformativa”: donatori, professionisti e funzionari hanno trattato i/le palestinesi come se fossero corpi passivi o rigidi, meno vulnerabili alle avversità.
Non ci si può aspettare che le comunità siano meno vulnerabili quando ciò che causa la loro vulnerabilità continua a esistere. Invece di promuovere programmi di resilienza, è tempo che le organizzazioni internazionali per lo sviluppo partano dall’esperienza e dal protagonismo delle popolazioni locali, valorizzandone le risorse e le reti, e individuino con chiarezza le cause profonde della violenza e gli oppressori che ne sono responsabili.
L’appello alla cura collettiva
In alternativa alla narrazione sulla resilienza, Shwaikh propone un cambiamento di paradigma: si tratta, a suo avviso, di passare da una resilienza individuale a una cura collettiva, sottolineando l’importanza della solidarietà comunitaria. Questo approccio dà priorità all’aiuto reciproco e all’empatia: riconoscendo il valore delle lotte individuali, ma anche la struttura comunitaria delle società, esso punta a sviluppare saperi e competenze per superare collettivamente i fattori di vulnerabilità, promuovendo giustizia e responsabilità.
Milady Cordero è laureata magistrale in “Scienze per la pace: trasformazione dei conflitti e cooperazione allo sviluppo”, collabora col CISP e fa parte del board di EuPra.