venerdì, Aprile 19, 2024
DirittiSalute

La “riduzione dei diritti” ai tempi del COVID-19

di Chiara Magneschi

 

Che cosa ci spinge a non uscire di casa ai tempi del COVID-19: la legge, la paura o la pietas? Dovremmo sentirci fortunati a poterci proteggere o arrabbiati per non poter ignorare le cautele che ci sono richieste?

Sono alcuni degli interrogativi da cui trae spunto questo breve scritto, il cui titolo non fa però riferimento – come si potrebbe pensare attirati dall’utilizzo del termine “riduzione” – al tema, di evidente portata ed attualità, della compressione di alcuni dei più fondamentali diritti e della sua legittimità in un’ottica di bilanciamento tra valori. Intendo invece riferirmi ad un aspetto sorprendentemente positivo dell’emergenza in atto: il fatto che l’ondata epidemica, nella sua gigantesca ed epocale nebulosità, intesa come indeterminatezza in termini di definizione, contorni, cause, rimedi, evoluzioni, tempistiche, conseguenze, stia consentendo un salutare ripensamento del discorso sui diritti.

Le domande che ponevo all’inizio sono il segno dell’incertezza che domina i tentativi di decifrare, in chiave anche e soprattutto giuridica, ciò che ci sta accadendo.

In nome della tutela del più primordiale dei diritti, il diritto alla vita, siamo tenuti a “stare a casa”. Uso il verbo “tenuti” non a caso. Un termine generico, non eccessivamente caratterizzato, poiché è proprio sulla natura di quell’elemento, che ci spinge a trattenerci dal varcare la soglia di casa, esercitando il sacrosanto diritto di spostarsi, di camminare fin dove si vuole, anche – al limite – senza una metà e un perché, che si scatena la varietà delle interpretazioni, fomentato da una trasmissione delle informazioni, anche istituzionale, smarrita e pertanto schizofrenica: al momento della comunicazione ufficiale delle misure restrittive figuriamo quali destinatari di un atto normativo che impone un obbligo, rimarcato – ma in maniera anch’essa incostante – da sanzioni la cui ferocia oscilla in base alla nostra capacità di rispettarlo; molte altre volte il tenore si ammorbidisce, e il messaggio che passa è quello dell’invito, della fiducia – quasi implorante – nella nostra capacità di comprendere che si tratta di un sacrificio necessario a tutelare i nostri diritti inviolabili, consentendone l’imminente riconquista. Quasi sempre, dunque, si tende ad “indorare” la pratica della auto-restrizione, della cattività auto-imposta, per favorire l’idea della eccezionalità contingente dello stato di eccezione (si perdoni il gioco di parole).

Dunque in primo piano figurano i diritti, le “situazioni di vantaggio attivo” direbbero i giuristi. Quelle che implicano un potere di attivarsi per agire nel mondo in cerca di risultati favorevoli. Questa prospettiva non sembra però essere la più funzionale – al di là dei giudizi etici – alla gestione dell’emergenza stessa. Si pensa a ciò che non si ha più, a ciò che ci è stato tolto, e a tutto quello che non vediamo l’ora di riafferrare, con il risultato di rendere ancora più impaziente l’attesa: la deriva di questo “vivere in levare”, in termini di esasperazione della disobbedienza alle norme eccezionali, è fenomeno di agevole constatazione.

I diritti vengono evocati, sognati, ridisegnati dalla nostra immaginazione proiettata al dopo, alla “fase due”, alla “fase tre”.

Tutto questo meccanismo porta con sé l’assecondamento e il rafforzamento di quella pericolosa distorsione dell’uso del linguaggio e del concetto di diritti insita nel ritenere che essi possano e debbano imporsi quali pretese unilaterali prescindenti dalla realtà e dalle responsabilità personali. Si arriva così a far collassare la percezione e la concezione dei diritti su quel loro uso retorico e superficiale che troppo poco ha offerto in termini di effettività degli stessi.

Ma cosa succederebbe se cambiassimo prospettiva? Se pensassimo che è nostro dovere rimanere in casa, o, ancor meglio, che è un nostro dovere proteggerci, proteggere gli altri, porre in essere condotte quotidiane e scelte responsabili, etiche, lungimiranti e compassionevoli? È allora che le nostre scelte, le nostre auto-limitazioni si rivelano quali presupposti indefettibili dei (ritrovati) diritti. Scelte quotidiane, lo si ribadisce, che anche nel loro piccolo anticipano e scongiurano il verificarsi di un evento irrimediabile, anticipano al prima quel tragico bilanciamento di valori che tocca fare una volta che il virus irrompe sulla scena mondiale. Scelte quotidiane che hanno il pregio di rendere ordinaria una solidarietà praticata quale stile di vita, e non come evento inedito su cui richiamare l’attenzione.

La “pulizia”, immagine e necessità dominante di questo frangente storico, può significare allora anche questo: la constatazione di una riduzione del catalogo dei diritti, ridotti forse alla versione minimalista con cui fecero il loro primo ingresso nelle riflessioni filosofico-giuridiche: una riduzione che è occasione, da un lato, di vedere nitidamente tutta la loro statura, non scontata e mai definitivamente acquisita, e, insieme, il loro ruolo fondante di qualsiasi altra istanza civile; mentre, dall’altro lato, è occasione per il ripensamento di quelle medesime prerogative individuali, come frutti maturi di pre-condizioni poste in essere attraverso pratiche accurate, inter-connesse in modo strettissimo con quelle degli altri.

Siamo abituati ad intendere i diritti stessi quali “naturali”, presupposti costitutivi della nostra identità, ma la terribile circostanza storica in atto dimostra che può valere anche un’altra lettura, forse più costruttiva: il diritto come risultato, appunto, guadagnato con la collaborazione, la visione lungimirante di chi sa che, ad esempio, abusare di un diritto oggi, come quello alla libertà di circolazione tramite autoveicoli, potrà condurre nel suo piccolo ad un inquinamento così insostenibile da far optare le autorità per il blocco del traffico, e così pericoloso da consentire ad un virus di propagarsi più agevolmente.

Il diritto ha adesso la possibilità di presentarsi non più quale punto di partenza, ma di arrivo. In questo senso si può guardare all’emergenza come chance per familiarizzare con il nesso tra diritti e doveri: doveri civici, di solidarietà, doveri che conservino i diritti.

“Riduzione” significa poter finalmente vivere in sobrietà le nostre giornate, ancorate – forse per la prima volta da decenni – all’essenziale: mangiare, dormire, nutrire lo spirito, volere bene, sforzarsi come mai prima di comporre le conflittualità. Significa anche, in una dimensione giuridica, apprezzare nuovamente la forza di un catalogo essenziale dei diritti (vita, salute, libertà). Questa loro “versione minimalista”, imposta dalla critica realtà, costituisce un approdo prezioso del discorso sui diritti: si tratta di un “pugno di diritti”, che bastano però a valorizzare, ancor più che l’essere umano, le sue azioni, la sua capacità di offrire qualcosa di sé prima ancora di pretendere. Dunque una riduzione che è insieme capacità di vedere tutta la statura di queste conquiste: una statura che, però, è sinonimo di fragilità se ad essa non si accompagna la costante consapevolezza che esse possono sgretolarsi da un momento all’altro, se di esse non ci si prende cura sempre, soprattutto in fasi non emergenziali.

Concepire i diritti come acquisizioni da rivendicare, ciascuno per sé, conduce al cortocircuito che è sotto gli occhi di tutti: nel caso dell’emergenza Covid-19 la violazione del dovere di rispettare la vita e la salute animale – di tutte le specie animali, da quelle allevate a quelle selvatiche -, la violazione del dovere di rispettare la salute dell’ambiente che ci ospita e di cui siamo parte, la violazione del dovere di garantire l’accesso immediato a strutture che curino o addirittura consentano la sopravvivenza degli individui, hanno determinato – in una drammatica ed epocale convergenza – l’insorgenza di un elemento in grado di eliminarci in massa. Per giunta con il rimpianto dei nostri innumerevoli e smarriti diritti.