La Repubblica Popolare Cinese e le tre fasi della sua economia
di Andrea Vento
Le celebrazioni per il 71° anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese (Rpc), avvenuta il 1° ottobre 1949 a opera di Mao Tse Tung e della dirigenza del Partito Comunista Cinese (Pcc), offrono l’occasione per una breve disamina delle varie fasi economiche e delle trasformazioni sociali che hanno caratterizzato il “gigante asiatico”. Partendo dall’analisi storica dell’economia, in questo arco temporale si individuano, a nostro avviso, tre distinti periodi:
1) l’era maoista (1949-1978) caratterizzata da un’economia collettivista e pianificata in attuazione dei principi marxisti-leninisti, rimodulati alle condizioni economico-sociali cinesi in base al pensiero del Grande timoniere;
2) la lenta e graduale transizione economica (1979-2001) dal socialismo al capitalismo, avviata da Deng Xiao Ping (1978-1989) e proseguita da Jiang Zemin (1989-2001);
3) la fase del capitalismo globalizzato (dal 2002 in avanti) dopo l’adesione al Wto che, di fatto, coincide con le presidenze di Hu Jintao (2002-2012) e di Xi Jimping (dal 2012 presidente della Repubblica in carica).
L’era maoista
Al momento della fondazione la Rpc presentava condizioni estremamente difficili sia dal punto di vista economico che sociale. Risultava, infatti, un paese arretrato e quasi totalmente rurale sia per le attività economiche prevalenti che per l’insediamento abitativo, con condizioni di vita della popolazione (all’epoca circa 550 milioni) molto precarie. Inoltre, si trovava in una situazione critica a seguito di lunghe e travagliate vicende belliche che si erano susseguite per circa 25 anni: dalla Guerra civile fra Nazionalisti e Comunisti (1927-1937), interrotta per far fronte comune all’aggressione nipponica (1937-1945)1 e ripresa, dopo la vittoria nella II Guerra mondiale, sino al successo finale dell’Armata Rossa Cinese (1945-1949). Attività belliche ben presto riaccese a causa dello scoppio della Guerra di Corea (1950-1953) contro gli Stati Uniti.
L’opera che si presentava alla dirigenza comunista era di enormi dimensioni: far fronte alle necessità impellenti di una popolazione provata, creare la struttura di un nuovo stato e organizzare l’economia su basi collettivistiche. In quest’ottica il governo procedette all’attuazione di una Riforma agraria integrale smantellando i grandi latifondi, alla creazione delle Comuni popolari nelle campagne, alla realizzazione di infrastrutture economiche e di servizi, infine col primo piano quinquennale (1953-57) al decollo dell’industrializzazione, dando priorità secondo il modello sovietico all’industria pesante.
Ricostruzioni storiche superficiali e servizi giornalistici condizionati da posizioni preconcette2 attribuiscono all’era maoista connotati di bassa crescita economica e di mancato sviluppo sociale, fase che, invece, alla luce di riscontri storici oggettivi assume tutt’altre caratteristiche.
Infatti, benché tale periodo sia stato interessato da errori (come il “Grande balzo in avanti” del 1958-61 con gravi ripercussioni sociali ed economiche) e da battute d’arresto (come la “Rivoluzione culturale” del 1966-1976), il governo è riuscito a creare servizi gratuiti per la popolazione, a realizzare le indispensabili infrastrutture di base e ad avviare lo sviluppo economico (grafico 1). Infatti, come afferma l’economista e sociologo Minqi Li3 «anche se l’andamento economico della Cina è stata spettacolare dal 1978 in avanti, non è stato disastroso tra il 1952 e il 1978. Nel corso di questi anni il Pil cinese è cresciuto a una media annua del 4,39%». Ed è risultato proprio il decollo industriale a trainare il non indifferente sviluppo economico della fase maoista, come spiega l’economista Giovanni Arrighi: “già nel 1970 la Cina aveva una base industriale che impiegava qualcosa come 50 milioni di operai e pesava per più di metà del suo Pil. Il valore del suo prodotto industriale lordo era cresciuto di 38 volte e quello dell’industria pesante di 90 volte”4.
Grafico 1: andamento dell’economia cinese dal 1952 al 2012 a Parità di Potere d’Acquisto
Anche in campo sociale a seguito delle politiche economiche socialiste sono stati raggiunti risultati impensabili per un paese del Sud del mondo del secondo Dopoguerra. Infatti, oltre alla parificazione dei diritti fra uomini e donne, prosegue Arrighi, “alla maggior parte della popolazione, prima analfabeta, era stato insegnato a leggere e scrivere (il tasso di alfabetizzazione era infatti salito dal 20 % nel 1949 ad oltre 80 % di trenta anni dopo). Un sistema sanitario pubblico era stato creato dove non ne era mai esistito alcuno. La speranza di vita media era aumentata da 35 a 65 anni”.
La transizione al capitalismo
Alla morte di Mao, nel 1976, seguirono due anni di instabilità politica e di lotte intestine al Pcc che sfociarono nella vittoria dell’ala riformista che, a sua volta, portò alla presidenza Den Xiao Ping. Il 22 dicembre 1978 il neo presidente fece approvare “La politica di Riforme e Apertura economica” al Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese, decidendo di porsi come priorità la crescita economica del paese: convinto che, per ottenerla in tempi rapidi, sarebbe stato indispensabile anche il capitale privato, optò per l’apertura all’economia di mercato. Per lo stesso motivo decise di integrarsi nell’economia internazionale, con un duplice obiettivo: da un lato richiamare investimenti diretti esteri (Ide) per favorire l’insediamento di imprese private e la nascita di joint ventures a capitale misto pubblico/privato; dall’altro lato accumulare valuta estera tramite l’export, per permettere alle imprese di Stato di acquistare tecnologia straniera. A tale scopo fra il 1979 e il 1980 il governo cinese ha approvato la creazione di prime 4 Zone Economiche Speciali (Zes) nelle città di Shenzhen, Zhuhai, Shantou e Xiamen, tutte sulla costa meridionale del paese. Il successo riscosso dalle prime ZES spinse, nel 1984, le autorità cinesi a espandere ulteriormente il processo di apertura dell’economia verso l’esterno, procedendo nello stesso anno alla fondazione di altre 14 Zes in altrettante città costiere, fra cui Shanghai e Guangzhou (Canton), in modo che anch’esse fungessero da motori per la crescita economica del paese5.
All’inizio degli anni ’80 significative riforme economiche hanno interessato, in primo luogo, il settore agricolo. Allo scopo di aumentare la produttività dei terreni, venne inizialmente concesso ai contadini di trattenere e vendere in proprio la parte di raccolto che eccedeva la quota di produzione assegnata dallo stato. Ciò comportò negli anni successivi lo smantellamento del sistema della Comuni e la terra, pur rimanendo proprietà statale o collettiva, venne concessa in affitto ai contadini in modo che potesse essere utilizzata sul modello dell’economia di mercato, conseguendo un cospicuo aumento delle produzioni agricole, in breve tempo raddoppiate, e del tenore di vita delle aree rurali, come confermato dal funzionario Fao Fang Cheng: “solo nel quinquennio 1980-85, agli albori della svolta riformatrice, la ricchezza pro-capite nelle campagne è aumentata del 90%”.
Nel 1988 tramite un emendamento all’articolo 11 della Costituzione, il settore privato è stato definito come una “componente importante” dell’economia e, successivamente, nel 1999, un’altra modifica dello stesso articolo ne riconosce il ruolo sempre più centrale6. Sempre nel 1988, l’articolo 11 della Costituzione è stato emendato anche in relazione all’introduzione della figura delle imprese private, con successiva emanazione di due brevi regolamenti provvisori che definirono tre nuove tipologie di impresa privata diverse da quella individuale, soggetto giuridico peraltro già previsto da un ventennio in ambito commerciale e artigianale: l’impresa di proprietà di un solo investitore, la hehuo (corrispondente alla nostra Snc,) e la società privata a responsabilità limitata7. Le imprese statali, inoltre, acquisirono autonomia con la legge del 13 aprile 1988 che sanciva anche il principio della separazione della proprietà dell’impresa da quella della proprietà dei beni dell’impresa, con quest’ultima che sarebbe rimasta in mano pubblica.
Sul versante economico, le scelte compiute dalla leadership cinese restarono in sostanza reversibili fino al 1991, quando il sistema di pianificazione economica aveva continuato a rivestire ruolo centrale nell’economia urbana. Le principali decisioni politiche assunte dal XIV congresso del Pcc nel 1992, frutto di compromesso tra riformisti e massimalisti, ebbero un impatto decisivo sull’elaborazione di un nuovo regime di crescita economica e di un originale modello economico che la dirigenza comunista definì “economia socialista di mercato” e sul quale disseteremo in seguito.
Nella seconda fase del proprio sviluppo economico, dunque, la Cina ha abbandonato il sistema d’ispirazione sovietico: il Pcc e lo Stato continuarono ad esercitare il loro controllo sulle più grandi imprese della Rpc, ma aprirono alla possibilità di privatizzare le piccole e medie imprese pubbliche. Il sistema fiscale, dopo il decentramento introdotto con la Rivoluzione culturale (1966-76), fu nuovamente centralizzato e il mercato del lavoro venne deregolamentato mediante il superamento del sistema maoista del posto di lavoro a vita, detto della “ciotola di riso ferrea”. L’accantonamento del modello sovietico segnò di fatto la fine del sistema economico socialista puro, aprendo la strada a riforme strutturali, tra cui quella del settore pubblico.
La deregolamentazione del mercato del lavoro nei contesti urbani, da un lato provocò lo smantellamento di un sistema di protezione sociale che garantiva ai lavoratori delle città l’impiego a vita, oltre all’alloggio e a un welfare impensabile per le zone rurali del paese, dall’altro portò alla revoca del divieto di assumere lavoratori provenienti dalle campagne, modificando radicalmente gli equilibri di potere tra lavoratori e datori di lavoro. Questi ultimi si trovarono liberi di definire i salari, vincolandoli alla produttività del lavoro, il cui successivo aumento sarebbe andato esclusivamente a beneficio degli imprenditori. Le imprese private cinesi, in questa fase, riuscirono a incrementare i propri flussi di cassa e a modernizzarsi investendo massicciamente sullo sviluppo di nuova capacità produttiva8 . Anche il generoso stato sociale dell’era maoista, come accennato, non sfuggì alla politica delle riforme subendo sensibili ridimensionamenti in campo previdenziale e sanitario, ma non in quello dell’istruzione. Tali riforme sono andate a discapito delle fasce sociali più deboli della popolazione, innescando un processo di divaricazione sociale e, dopo gli anni ’90, anche territoriale, che da alcuni anni il governo sta cercando di contrastare e sul quale ci soffermeremo nella parte finale del saggio.
I successi economici conseguiti durante il primo ventennio dalle riforme (addirittura con una crescita media del 10,43% negli anni ’90) posero in evidenza la necessità di intervenire anche sul sistema finanziario e su quello delle maggiori imprese statali che, sino a quel momento, ne erano stati interessati in modo marginale: il presidente Jang Zemin durante il XV congresso nazionale del PCC del 1997 annunciò così il piano di privatizzazione delle grandi imprese di Stato, relativamente ad alcuni comparti non strategici. Progetto portato a compimento con successo entro la fine del secolo tramite la chiusura di quelle inefficienti e la vendita ai privati di quelle oggetto di trasformazione e/o modernizzazione. Questo provvedimento accentuò, da lì a breve, la pianificata riduzione del peso dello stato nell’economia a vantaggio del settore privato: nel 2005, infatti, per la prima volta le imprese private arrivarono a fornire un contributo al Pil superiore rispetto a quello del comparto pubblico.
A livello macroeconomico questo processo è coinciso con l’emergere, nei tardi anni Novanta, di un nuovo regime di crescita basato sempre più sugli investimenti a discapito dei consumi, i quali, infatti, scenderanno dal 51% del Pil nel 1992 al 36% nel 2006, mentre i primi, dal 34% sul Pil nel 1996, saliranno al 46% nel 2010. La trasformazione del sistema economico socialista, inoltre, ha aperto la strada nel 1998 alla privatizzazione dell’edilizia abitativa urbana con conseguente massiccio trasferimento delle proprietà di Stato ai nuclei familiari. In un breve arco di tempo, milioni di famiglie sono diventate proprietarie di case ottenute a prezzi ben più bassi di quelli di mercato. Quest’ondata di privatizzazione degli alloggi ha dato origine, negli ann di passaggio al nuovo millennio, al boom del settore immobiliare con la possibilità per le famiglie di rivendere, a prezzi di mercato, le abitazioni precedentemente acquistate.
In sintesi: nell’arco di un ventennio in Cina, all’interno di una economia pianificata, sono stati gradualmente inseriti elementi capitalistici. Prima tramite società straniere e joint ventures stato/investitori esteri e, successivamente, dando la possibilità di fare impresa, sia in forma collettivistica che individuale, anche ai cittadini cinesi, creando in tal modo i presupposti per la trasformazione del sistema economico e per il definitivo decollo dei decenni successivi. Questi due obiettivi sono stati perseguiti dal governo cinese spingendo sulla crescita delle esportazioni a buon mercato, grazie a salari molto bassi, e offrendo una serie di garanzie agli investitori esteri9.
Dobbiamo tuttavia rilevare che, in questa fase, l’inadeguatezza delle politiche fiscali redistributive, la mancanza di libertà d’associazione sindacale e i vincoli posti a tutte le espressioni spontanee di azione collettiva, che avrebbero potuto bilanciare il controllo del Pcc sull’economia del paese, hanno favorito l’esplosione delle disuguaglianze in seno alla società cinese.
La fase del capitalismo globalizzato
Nell’intento di proseguire sul percorso di liberalizzazione dell’economia, il governo cinese ha avviato ulteriori riforme tese gradualmente ad allineare il proprio sistema normativo a quello delle grandi organizzazioni capitalistiche internazionali. In particolare, questo processo ha consentito alla Cina di aderire nel dicembre 2001 al Wto (World Trade Organization) e di entrare a pieno titolo nel sistema economico globalizzato.
L’adesione al Wto rappresenta un passaggio fondamentale, che conduce nella terza fase dell’economia cinese contemporanea, avendo sancito l’apertura ufficiale della Cina al libero commercio con l’estero. Tale orientamento ha favorito l’ingresso di maggiori investimenti diretti esteri (Ide) nel paese. È proprio in questo periodo che si è sviluppato fortemente il fenomeno della delocalizzazione industriale delle imprese occidentali in Cina. L’abbattimento delle barriere protezionistiche, il basso costo della manodopera e l’assenza di sindacati combattivi e di norme ambientali restrittive hanno costituito, in questa fase, fattori di forte attrazione per molte aziende occidentali, facendo al contempo da volano per la nascita di nuove imprese cinesi, sia pubbliche che private.
Successivamente all’entrata nel Wto, allo scopo di armonizzare anche il quadro costituzionale alla nuova situazione socio-economica, nel 2004 furono apportati numerosi emendamenti alla Costituzione della Repubblica Popolare fra cui spiccava quello riguardante la protezione della proprietà privata. Apposita legge del 2007 ha regolamentato le tre forme di proprietà della terra, già precedentemente contemplate in altri settori: proprietà pubblica, demaniale e collettiva, quest’ultima esercitata tramite istituzioni locali. Questa disposizione, nel contesto di un quadro giuridico non perfettamente definito, garantiva il diritto ai privati di ottenere la terra in affitto per lunghi periodi: 70 anni a scopo residenziale e, rispettivamente, 50 e 40 per attività industriali e commerciali. Stessa condizione riservata ai terreni agricoli, per i quali ai contadini viene ceduto il diritto d’uso, a sua volta trasferibile a terzi.
Queste ultime riforme, grazie anche all’effetto traino dell’esplosione del commercio estero (grafico 2), hanno alimentato ulteriormente la crescita cinese sospingendo la Rpc nella scalata della graduatoria delle potenze economiche mondiali. Infatti, se l’economia era aumentata di circa il 10% annuo fra il 1990 e 2004, nel triennio successivo ha continuato a salire sino al 14% del 2007 portando il Pil a 3.389 miliardi di $, scalzando la Germania dal terzo posto a livello mondiale. La crisi globale del 2008-09, che ha gettato in recessione le economie occidentali, ha invece provocato solo un rallentamento della crescita cinese che da allora ha iniziato ad attestarsi su valori intorno al 10% consentendo alla Rpc di continuare a guadagnare terreno rispetto ai paesi più sviluppati. Nel 2010 infatti, raggiungendo i 5.900 miliardi di $ di Pil, la Cina, ha sopravanzato il Giappone (5.400 $) divenendo la seconda potenza economica mondiale e addirittura in base al Pil a Parità di Potere di Acquisto avrebbe sopravanzato gli Stati Uniti addirittura già dal 2014.
Grafico 2: andamento import-export Repubblica Popolare Cinese anni 1989-2018.
Riassumendo: a seguito delle riforme liberalizzatrici di Deng Xiao Ping viene implementato, alternando accelerazioni e rallentamenti, uno sperimentale processo di apertura e di trasformazione del sistema economico, sintetizzato nel calzante aforisma denghiano “attraversare il fiume tastando le pietre” e finalizzato al decollo dell’economia nazionale. Tale processo di sviluppo, iniziato negli anni ’80, si consolida nel decennio successivo, per poi esplodere nei primi anni 2000 e ripiegare, dopo la crisi 2008-9, su valori più bassi (grafico 1) a causa sia della riduzione della domanda mondiale, provocata dalla recessione globale che ha inevitabilmente inciso su un’economia mercantilistica come quella cinese, sia del fisiologico percorso di sviluppo dell’economia che prevede, dopo un picco iniziale, un inevitabile rallentamento dei tassi di crescita.
Alla luce dei risultati raggiunti possiamo affermare che, a oggi, gli obiettivi prefissati da Deng nel 1978 sono stati pienamente centrati, a partire dall’eccezionale crescita economica e dal fatto che le riserve di valuta estera, grazie al surplus commerciale, sono passate da 5,8 miliardi di dollari nel 1980 a 3.070 miliardi nel 2018. Ma anche il progresso sociale è stato evidente, se tra il 1979 e il 2018 la speranza di vita media è salita da 66 a 76 anni e la mortalità infantile nel primo anno di vita dal 52,6 per 1.000 è precipitata all’8,1.
Andrea Vento è tra i fondatori del Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati (GIGA) e insegna geografia nell’Istituto “A. Pacinotti” di Pisa. E-mail: andreavento2013@gmail.com
Note
1 Preceduta dall’invasione della Manciuria nel 1931 ove L’Impero giapponese creò nel 1932 lo stato vassallo del Manciukò, con a capo Pu Yi l’ultimo imperatore cinese della dinastia dei Qing deposto nel 1911.
2 Un esempio, fra i molti, è l’articolo di Giovanni Caccaviello apparso sul Sole 24 ore del 20 dicembre 2018, col titolo “Cina 1978-2018: da Deng a Xi ha vinto l’abbraccio al capitalismo“. L’autore vi definisce il periodo maoista come “un periodo di ulteriore involuzione economica, sociale e politica”, senza peraltro citare alcun dato a supporto di tale affermazione.
3 Minqi Li, The rise of China and the demise of the Capitalist World Economy, Londra, 2008. L’autore è un economista cinese, analista dei sistemi mondiali e storico scienziato sociale, attualmente professore di Economia all’Università dello Utah.
4 Giovanni Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, Manifestolibri, 2010.
5 Victor F. S. SIT, “China’s export oriented open areas: the export processing zone concept”, Asian Survey, 28, 6, 1988.
6 Si veda: M. Miranda, “Le nuove prospettive di sviluppo del settore privato nella Rpc – la politica del partito”, Mondo Cinese, n. 108, luglio- settembre 2001 , pp.11 -25.
7 Per approfondimento sulla riforma del diritto commerciale, consultare “Il caso delle imprese” in “Tendenze del diritto commerciale cinese dopo Tiananmen”.
8 Jean-François Huchet, “Anno 1992: il momento di svolta per la politica di riforma e apertura della Cina”.
9 Elisa Lion, “Le Zone Economiche Speciali in Cina e a Taiwan come motori per lo sviluppo economico: un confronto”, tesi di laurea accessibile qui.