La prima vittima della guerra
Dopo la seconda guerra mondiale negli Stati Uniti è cresciuto sempre di più il cosiddetto “complesso militare-industriale”: che conseguenze ha avuto tale sviluppo sulla qualità dell’informazione e della democrazia? E come ha condizionato le relazioni internazionali e il ricorso alla guerra negli ultimi trent’anni? In questo articolo apparso sul Bollettino telematico di filosofia politica, Maria Chiara Pievatolo, filosofa politica dell’Università di Pisa, prova a rispondere a queste domande partendo dai libri di Stefania Maurizi sul “caso Assange” e di Nico Piro sull’attuale tendenza a stigmatizzare il pacifismo e i pacifisti. L’analisi dello stato dell’informazione e della democrazia al tempo delle “guerre infinite” viene svolta con gli strumenti della filosofia, in particolare con le categorie sviluppate da Immanuel Kant nei suoi Scritti politici. Una domanda attraversa l’articolo: i cittadini e le cittadine sono correttamente informate e messe nelle condizioni di poter influenzare le decisioni dei loro governi in materia di spesa militare, ricorso alla guerra, costruzione della pace? La risposta è negativa o, comunque, assai problematica. La volontà degli Stati Uniti e degli alleati occidentali di coprire i crimini di guerra commessi e di giustificare il ricorso alla guerra per “esportare la democrazia” e “difendere i diritti umani”, passa attraverso la propaganda militare e la persecuzione giudiziaria dei giornalisti scomodi, come Assange. La prima vittima della guerra, insieme alla verità, è allora proprio la democrazia, sempre più avvelenata da una narrazione bellicista che divide il mondo in “buoni” (noi) e “cattivi” (gli altri), e lascia poco spazio per la risoluzione diplomatica delle controversie.
di Maria Chiara Pievatolo
Segreti e bugie
Il potere segreto di Stefania Maurizi ricostruisce sistematicamente “la storia di un giornalista” – Julian Assange – “imprigionato e trattato con insostenibile crudeltà per aver rivelato crimini di guerra; della determinazione dei politici inglesi e americani di distruggerlo; e della quieta connivenza dei media in questa mostruosa ingiustizia”1.
Mentre la polizia britannica lo stava arrestando, Assange teneva in mano un libro di Gore Vidal, History of the National Security State, che racconta come gli Stati Uniti, vinta la Seconda guerra mondiale, abbiano continuato ad accrescere la loro spesa militare fino a creare il cosiddetto complesso militar-industriale. Gli interessi di un gigantesco apparato offensivo statale e dell’industria bellica privata si sono così raggrumati in un nesso che condiziona la politica a intraprendere guerre preferibilmente interminabili, il cui scopo implicito non è più vincere, bensì risucchiare denaro pubblico. A denunciarne i rischi, nel 1961, fu lo stesso Dwight D. Eisenhower in un memorabile discorso di commiato, che Gore Vidal commenta così:
The good thing was, upon— he kept back military spending. And then, when he left office, he made this great speech, and he explained why it was necessary to have such a huge military. Might have been better if he’d said we don’t need this much military for our task in the world to preserve freedom for ourselves. But he said no matter how necessary, and we think it is, that we have this great military–industrial complex, it is a dangerous thing because of the vast amounts of federal money that are going to private corporations for our defense — and he was trying have it both ways — which is necessary, which is necessary. And he said this is going to change everything in the way our country’s governed: It’s going to change us politically; it’ll change us spiritually. And then part of the speech which I’ve always loved, nobody ever quotes it. After all, he’d been president of Columbia University. He said the effect of all this money coming to our universities, even though it’s for the physics department, the nuclear departments, is going to affect all education. And if the universities are not the home of free investigation, suddenly our knowledge of the world is curtailed by this huge amount of money, which will control the responses of everybody, including the history department. He didn’t say that, but that was his meaning2.
Dopo l’11 settembre 2001 il grumo si è espanso fino a diventare “uno Stato nello Stato con i suoi apparati dalla Cia alla National Security Agency (NSA) al Pentagono che, di fatto, non rispondono a nessuno, perché blindati dalla segretezza”3, il quale ambisce a catturare, sorvegliare e schedare la comunicazione del mondo e che si coordina con oligopoli privati4 sempre più concentrati, a loro volta sottratti al controllo del pubblico.
Il suo potere pervasivo fa sì che l’assenza di libertà di stampa nel cosiddetto Occidente si manifesti come coercizione solo occasionalmente, e con la parvenza dello Stato di diritto. E però, se la libertà degli autori è un diritto posto a salvaguardia di tutti gli altri diritti, come ultimo rimedio civile contro norme e istituzioni ingiuste, allora la posta in gioco, nel destino giudiziario di Assange, di Edward Snowden o di Chelsea Manning, non è la loro salvezza personale, bensì la facoltà dei cittadini del mondo di conoscere e di decidere sulla pace e sulla guerra e in generale di determinare gli ordinamenti sotto i quali vivono, contro la pretesa di imporre il diritto positivo di un singolo stato come norma globale, o, più propriamente, imperiale.
Maledetti pacifisti: il controllo del discorso pubblico
Nel 2010 Umberto Eco affermava che la possibilità di pubblicare senza filtri ex ante avvantaggia i pochi colti e disorienta i molti incolti. Nel mondo della scienza aperta si sostiene invece che, essendo la pubblicazione in rete divenuta facile, il filtro può operare ex post, come selezione attraverso la discussione e l’uso. Anche un filtro di questo tipo, peraltro, può essere arbitrario e omologante quanto quelli applicati ex ante nel chiuso delle redazioni. Con la differenza, però, che il suo operare non è interamente nascosto e può essere oggetto d’indagine induttiva e di pubblica critica.
Il libro di Nico Piro, Maledetti pacifisti, denuncia uno di questi filtri: quello che protegge la guerra infinita, vale a dire il lato visibile del potere segreto5 e che, implicitamente, pretende di legittimarlo.
L’informazione giornalistica italiana, per lo più in mano a un’editoria incapace di partecipare attivamente alla rivoluzione digitale, si è sempre più assimilata ai media sociali proprietari, enfatizzando opinioni e polarizzazioni così da mungere i dati dei lettori per l’uso della propaganda economica e politica e risparmiarsi il rischio, la fatica e i costi di ricostruire e mettere allo scoperto fatti6. In queste condizioni, chi concentra nelle proprie mani media e denaro non ha difficoltà a smerciare la guerra infinita come uno scontro fra amici e nemici, fra buoni e cattivi, per l’intrattenimento o l’oblio non più di cittadini elettori, ma di consumatori-tifosi.
L’obiettivo è quello di venderci la guerra come una partita di calcio dove, se accade un infortunio, si tira fuori il cartellino rosso. Insomma, la guerra è presentata come un male necessario, una cosa brutta ma che può diventare bella per l’ardimento di chi vi partecipa. Se poi si scade nell’orrore è colpa di qualche anomalia: un crimine, appunto. Si mira a nascondere la verità, cioè che la guerra è di per sé un crimine, il peggiore che si possa commettere sulla faccia della Terra. Quando una madre con i suoi bimbi esce di casa in una città assediata per procurarsi dell’acqua da bere e si ritrova presa nel fuoco incrociato di un’imboscata contro un convoglio nemico; quando dall’ultimo piano di un palazzo un cecchino spara e l’artiglieria nemica demolisce l’edificio al cui interno ci sono ancora famiglie; quando un improvised explosive device (IED) piazzato lungo la strada per colpire truppe in avanzamento esplode sotto l’auto di un padre che porta le figlie a scuola; quando accadono questi fatti – ricorrenti in guerra – perché non parliamo di crimini? Gli unici crimini sono gli stupri? I saccheggi? Le esecuzioni sommarie svolte da militari inferociti7?
Nel primo articolo definitivo della Pace perpetua, Immanuel Kant scriveva che per costruire una società mondiale la costituzione di ogni Stato dovesse essere repubblicana affinché a deliberare la guerra non fosse il potere esecutivo bensì, tramite i loro rappresentanti, quanti (civili o militari), ne avrebbero subito i danni.
Il 18 settembre 2001, il Congresso statunitense, sull’onda dell’emozione dell’attentato alle Torri gemelle, ha approvato una Authorization for Use of Military Force che permette al Presidente di usare tutta la forza necessaria e appropriata “against those nations, organizations, or persons he determines planned, authorized, committed, or aided the terrorist attacks that occurred on September 11, 2001, or harbored such organizations or persons, in order to prevent any future acts of international terrorism against the United States by such nations, organizations or persons”. Soltanto una rappresentante, Barbara Lee, riconobbe in questo provvedimento una clausola in bianco che avrebbe sottratto al Parlamento il potere di decidere della pace e della guerra per consegnarlo all’esecutivo, ed espresse un voto contrario. Come scrive Nico Piro:
quella decisione emotiva, sull’onda della tragedia dell’11 settembre, costerà agli Stati Uniti due decenni di “guerra al terrore” con il macabro bilancio di 929mila morti – di questi, 387mila civili, senza considerare i deceduti per gli effetti collaterali della guerra sulla sanità, l’accesso all’acqua e al cibo, la contaminazione ambientale – e di 38 milioni di persone costrette a lasciare le proprie case in veste di sfollati o rifugiati. I soli Stati Uniti hanno speso 8 trilioni di dollari per operazioni antiterrorismo (meglio chiamarle “attività belliche”) che coprono 85 paesi stranieri e hanno comportato, anche nel loro stesso territorio nazionale, ai danni di cittadini statunitensi, sistematiche violazioni dei diritti umani e civili8.
Quanto vive, nelle nostre post-democrazie, della costituzione repubblicana di Kant? Chi decide della pace e della guerra? Che cosa giustifica l’inizio e la prosecuzione di una guerra – umanitaria, esportatrice di democrazia, per la difesa dei “nostri valori” o del nostro potere – quando il rischio della “pace perpetua” nel suo senso cimiteriale è sempre meno un’eventualità teorica? Anche per la guerra ultima e prossima, quella in Ucraina,
nella conversazione pubblica non c’è traccia di pensiero critico, nessuno prova a ricostruire da dove nasca questa guerra e quei pochissimi che tentano di farlo vengono messi a tacere con l’infamante accusa di essere dalla parte del carnefice. Di nuovo il conflitto passa come unica scelta moralmente accettabile in nome di una implicita superiorità morale dell’Occidente. Eppure nessuno prova a interrogarsi su cosa significhi “Occidente”, sulla continua autoassoluzione rispetto a scelte come quelle dell’invasione dell’Iraq o dell’Afghanistan, del conflitto in Libia, del caotico intervento in Siria, dell’accordo di Doha. Nessuno che si chieda perché continuiamo a disegnare un mondo dove gli occidentali sono buoni e il resto del mondo è fatto di infidi e pericolosi nemici. Nessuno che si chieda perché l’Occidente non possa liberarsi dell’ipoteca che l’apparato militare rappresenta per la società americana e quindi per tutti gli alleati. Nessuno che provi ad aprire un dibattito su quel concetto variabile di giustizia che porta a giustificare ogni intervento armato piuttosto che pretendere che la sottintesa e perennemente evocata “civiltà superiore” occidentale debba basarsi sulla capacità di mantenere la pace, non sulla presunta forza di avviare guerre. Nessuno lo fa, e chi ci prova viene messo a tacere con l’accusa di esser antiamericano9.
Apparati morali: la normalizzazione della guerra
In un’intervista del 1998, Zbigniew Brzeziński, consigliere per la sicurezza nazionale del Presidente Jim Carter, si vantò di aver orchestrato per l’URSS una “trappola afgana” promuovendo e sostenendo il fondamentalismo islamico. Per lui il fine della dissoluzione dell’impero sovietico giustificava un mezzo che, tre anni prima dell’attentato alle Torri gemelle e dell’inizio della guerra in Afghanistan, appariva già una minaccia per tutti. Dovremmo chiederci se gli Stati Uniti e i loro “vassalli” europei non stiano ora facendo un calcolo analogo, esponendo l’umanità a rischi ancora più gravi.
In un paese armato fino ai denti come l’Ucraina, dove sulla scena pubblica da anni operano indisturbate formazioni neonaziste e ultranazionaliste, dove sono stati dati fucili d’assalto anche ai detenuti, dopo aver lanciato al mondo ultimatum su base quotidiana (“dateci armi”, “dateci soldi per far funzionare la macchina dello Stato”, “dateci aerei”, “dateci la No fly zone”) come potrà il Presidente Zelensky caricarsi la responsabilità di un compromesso? Come potrà arretrare dalla posizione di chi guida le truppe a quella di chi firma un accordo, sapendo che dietro di lui c’è chi invece non vuole arretrare di un solo passo, perché quelli che l’hanno seguito con più convinzione sono fanatici che vogliono la vittoria a tutti i costi10?
Dovremmo interrogarci sulla prudenza di chi coltiva e arma estremisti e fondamentalisti e fa combattere guerre infinite, per lo scopo nominale di indebolire o distruggere il nemico di turno, almeno con lo stesso zelo con cui ci si sforza di escludere il pacifismo dal novero delle opzioni realistiche in quanto irresponsabile assolutismo morale. Ma perfino un articolo uscito su “Valigia Blu” lo scorso maggio11 ha paragonato i pacifisti a chi, pur potendo indirizzare un vagone fuori controllo, a un bivio, sul binario in cui c’è una sola persona per evitare che travolga le cinque sull’altro, si astiene perché “la vita umana è sacra e non si possono salvare le persone uccidendone altre”.
Per la verità Philippa Foot, quando concepì la prima versione di questo dilemma12, non si proponeva di contrapporre un’etica della responsabilità a una presunta etica dell’intenzione, da associarsi a interpretazioni di Kant “un po’ letterali e sciocche” e a “molti dei pacifisti più visibili nel dibattito pubblico”: voleva, invece, circoscrivere la legittimità delle azioni compiute in stato di necessità. Se è moralmente accettabile deviare un tram in modo che investa una sola persona anziché cinque, perché allora dovrebbe essere inammissibile uccidere una persona sana per trapiantarne gli organi a cinque pazienti in pericolo di vita?
La cosiddetta dottrina del doppio effetto rispondeva che, nel caso del tram, la morte di una persona è un mero effetto collaterale, previsto ma non inteso direttamente, mentre in un omicidio a scopo di trapianto la morte dell’involontario donatore è direttamente deliberata come mezzo per conseguire il fine. Philippa Foot trovava però questa distinzione non del tutto convincente, proprio perché basata – a prescindere dai casi in cui l’effetto inteso e quello collaterale sono così contigui da essere indistinguibili – su una dissociazione artificiosa fra intenzione e previsione delle conseguenze di un atto. Se prendessimo sul serio questa dissociazione così da riconoscerci responsabili solo delle nostre intenzioni e non degli effetti prevedibili delle nostre azioni, uno spacciatore di vino addizionato al metanolo potrebbe discolparsi eticamente e giuridicamente coll’argomento che il suo scopo era trar profitto dalla vendita e la morte dei suoi clienti è stata solo un effetto prevedibile ma indesiderato della sua condotta.
La risposta alternativa di Philippa Foot è ineccepibile dal punto di vista kantiano. La differenza moralmente decisiva fra la deviazione del carrello e l’assassinio a scopo di prelievo degli organi non sta nelle intenzioni, bensì nella gerarchia di doveri che ciascuna delle due condotte presuppone: i doveri negativi, di astenersi dal ledere i diritti altrui, prevalgono o no sui doveri positivi, di aiutare gli altri? Nel caso del carrello, il tranviere o l’addetto allo scambio, in un conflitto non evitabile fra doveri negativi verso una o verso cinque vittime potenziali, scelgono la lesione minore; nel caso del trapianto, uccidere il sano per prelevarne gli organi comporta invece una sua esplicita strumentalizzazione per prestare soccorso ad altri. Nel linguaggio di Kant, nella prima situazione abbiamo un caso di necessità con un conflitto fra doveri giuridici (perfetti), nella seconda invece un contrasto fra il dovere giuridico (perfetto) di non ridurre le persone a mezzi al servizio di scopi altrui e il dovere etico (imperfetto) della benevolenza nei confronti del prossimo. Una cosa è intervenire per limitare il danno quando la lesione del diritto altrui è inevitabile, un’altra pianificare omicidi per motivi umanitari.
È stato, d’altra parte, osservato che il dilemma del carrello, applicato alla guerra in Ucraina, può essere usato a favore della causa della pace: se su un binario sta l’appoggio incondizionato a tutte le rivendicazioni dell’Ucraina – o della Russia – fino alla guerra nucleare, e sull’altro un compromesso con qualche sacrificio dell’uno e dell’altro nazionalismo, è abbastanza chiaro che su quest’ultimo sarebbe meglio indirizzare la macchina della guerra. Il saggio sul diritto di mentire per amore degli esseri umani, nel quale Kant sostiene che è immorale dire il falso perfino a un assassino alla porta che ci chiede se un nostro amico si è nascosto da noi, avrebbe permesso di stigmatizzare il presunto assolutismo morale dei pacifisti in modo almeno apparentemente più facile. Perché preferire il dilemma del carrello?
Forse, anche qui, come nella cosiddetta etica dei veicoli a guida autonoma, il tram esercita un fascino mistificatorio. Philippa Foot, col suo esperimento mentale, non voleva avallare la progettazione e la costruzione di tranvie tragicamente insicure, bensì immaginare, come termine di confronto, una situazione artificiale in cui la condizione di partenza e il margine di scelta fossero limitati all’aut aut fra una e cinque vite e i cui esiti fossero interamente prevedibili. Si può applicare il suo dilemma alla guerra effettuale solo se la si rappresenta come uno strumento le cui opzioni e le cui conseguenze sono perfettamente controllabili – a dispetto di Helmuth von Moltke – e riducibili a morale. Lo si può fare, in altre parole, solo se, come scrive Nico Piro, la si normalizza, ossia, in termini tranviari, si fa passare come ordinario e lecito un sistema di trasporto su rotaia progettato così male che i conducenti o i sistemi automatici che li sostituiscono si trovano quotidianamente a determinare quali pedoni maciullare e quali no.
La guerra giusta
Nella Metafisica dei costumi Kant scrive che lo ius necessitatis comporta, in condizioni di emergenza, la facoltà di sopprimere, per salvarsi la vita, persone che non ci hanno fatto nulla di male. Per lui però questo presunto diritto è uno ius aequivocum, ambiguo. Uccidere innocenti non diventa giusto perché ci troviamo in una situazione di estremo pericolo: l’estremo pericolo si limita a rendere il diritto inefficace, perché privo di sanzioni così spaventose da indurre a superare il terrore dovuto al rischio immediato di morire.
Perché Kant sceglie una via così obliqua per affermare che le azioni compiute in stato di necessità non sono giuridicamente punibili? Perché l’alternativa – trattare come legittima l’uccisione di innocenti in caso di emergenza – normalizzerebbe una condotta che deve rimanere ingiusta. Se lo ius necessitatis fosse diritto in senso stretto, la cura della sicurezza dei trasporti su rotaia – così come il ripudio della guerra come mezzo di soluzione delle controversie internazionali – potrebbe essere trattata come facoltativa.
Coerentemente, Kant criticava il diritto internazionale giusnaturalista perché normalizzava la guerra. Se si riconosce che ciascuno stato è giudice in causa propria e può far legittimamente valere le proprie ragioni con la forza, non si avalla la legge del diritto, bensì, come in un’ordalia, la legge del più forte. Proprio per questo, secondo Kant, per superare la barbarie della guerra è indispensabile ammettere in via preliminare che non possono esistere guerre “giuste”13 anche se, in mancanza di un giudice sovranazionale terzo e dotato di potere coercitivo, ci possono essere guerre che sono o sembrano tristemente necessarie.
Chi crede di combattere una guerra giusta si dà ragione da sé, come un giudice in causa propria e in conflitto di interessi, e la fa valere con la forza: sottoscriverà dunque trattati di pace con la riserva di disattenderli appena possibile, perché un nemico ingiusto non merita il rispetto della parola data; tenderà a interferire violentemente nella costituzione e nel governo di altri stati ritenendoli illegittimi ed ergendosene a giudice; e propenderà a combattere con mezzi tali da rendere impossibile ricostruire, fra le parti, la fiducia per trattare una pace futura, perché con un nemico ingiusto non si può scendere a patti.
Come porre fine alla guerra infinita senza deporre l’armamentario della guerra giusta? I crimini di guerra statunitensi rivelati da Wikileaks negli Iraq War Logs, la giustificazione dell’aggressione a stati sovrani con la pretesa, fallimentare, di esportare la democrazia e, soprattutto, una pervasiva menzogna propagandistica mostrano che anche il cosiddetto occidente continua a farne un uso sistematico. Come scrive Stefania Maurizi,
la guerra in Iraq è un caso esemplare di manipolazione dell’intelligence al servizio di una causa politica: gli Stati Uniti avevano invaso il paese il 20 marzo 2003 sulla base di informazioni completamente false, secondo cui il regime di Saddam Hussein era in possesso di armi di distruzione di massa e aveva legami con al Qaeda. Si trattava di una totale invenzione dell’amministrazione di George W. Bush, in combutta con il governo inglese di Tony Blair, per giustificare l’invasione. Ma la manipolazione delle informazioni di intelligence avrebbe raggiunto il suo scopo molto più difficilmente se i media americani avessero fatto il loro dovere: trattare con scetticismo i servizi segreti e loro padroni politici. […]. La miscela tra la manipolazione dell’intelligence e la propaganda dei media produsse una guerra da cui il Medio Oriente non si è ancora ripreso, perché non solo ha creato milioni di morti e rifugiati, ma ha contribuito a generare la barbarie dell’Isis, emerso proprio nei territori iracheni sprofondati nel caos e nella violenza innescata dall’intervento americano, poi da lì i suoi fanatici sono arrivati a colpire fino in Afghanistan, in un crescendo di teste tagliate, attacchi suicidi, crocifissioni, stupri di massa, perfino più brutali – se possibile – di quelli di al Qaeda14.
Con questi precedenti, come credere, ora, che l’ultimo atto della guerra infinita sia così “giusto” o, almeno, così necessario da non meritare di finire?
Una propaganda quasi inevitabile
Il 5 novembre 2022 si è svolta in Italia una manifestazione per la pace, il cui scopo non era invitare l’Ucraina a una resa senza condizioni, bensì pretendere da Stati che si dicono democratici l’impegno a lavorare per una soluzione politica, contro una guerra che fa male non solo ai popoli che la subiscono direttamente, ma all’intero pianeta: “tacciano le armi e si cerchino le condizioni per avviare negoziati capaci di condurre a soluzioni non imposte con la forza, ma concordate, giuste e stabili”. E anche secondo il realista Henry Kissinger solo la via, difficile, della diplomazia e dell’autodeterminazione dei popoli tramite referendum sotto supervisione internazionale può evitarci di ripetere l’errore che nel 1914 condusse l’Europa al suicidio culturale: sprofondare, come in trance, in una guerra che si pensava normale senza conoscere – e tanto meno riuscire a governare – la distruttività del potenziale tecnico che avrebbe scatenato.
Nel 1955 Raymond Aron illustrò così le radici di questo difetto di conoscenza sociale:
Trent’anni fa Julien Benda inventò la fortunata espressione trahison des clercs. L’opinione pubblica non aveva ancora dimenticato le mozioni firmate di qua e di là dal Reno dai più grandi nomi della letteratura e della filosofia. Gli intellettuali avevano ripetuto ai soldati che essi si battevano “gli uni per la cultura, gli altri per la civiltà; avevano denunziato la barbarie del nemico, senza sottoporre a critica le testimonianze addotte; avevano trasfigurato una contesa di forza, simile a tante altre che L’Europa aveva vissuto durante i secoli passati sotto forma di guerra santa. Avevano conferito agli interessi degli Stati e agli odi dei popoli una forma articolata e sedicente razionale. Avevano rinnegato la loro missione, che consiste nel servire i valori non temporali: la verità, la giustizia15.
Aron era consapevole che la defezione degli intellettuali è organizzata amministrativamente tramite la loro crescente dipendenza: “l’intellettuale al servizio d’uno Stato, d’un partito o d’un sindacato, dirigente delle ricerche per conto dell’aviazione americana o dell’agenzia per l’energia atomica, come può sottrarsi alle regole del suo ufficio?16” Anche oggi, secondo Kissinger, conviviamo – e forse anche coltiviamo – con un difetto collettivo di conoscenza altrettanto pericoloso: “overcoming the disjunction between advanced technology and the concept of strategies for controlling it, or even understanding its full implications, is as important an issue today as climate change, and it requires leaders with a command of both technology and history”.
E però, poco dopo la manifestazione del 5 novembre, un altro articolo di Federico Zuolo su “Valigia Blu” rappresenta ancora il pacifismo come privo di senso della realtà e della responsabilità:
attualmente, nei posizionamenti pubblici la questione del pacifismo si esprime nell’urgenza di richiedere la fine delle ostilità qui e ora. È la natura incondizionata della richiesta che sembra demarcare i pacifisti da altre posizioni che, a loro volta, genuinamente vogliono la pace. Quindi la disputa è tra chi vuole la fine del conflitto (quasi) a qualsiasi condizione e chi dà valore alle condizioni. Infatti, anche se abbiamo sempre un dovere di limitare morte e sofferenza, le condizioni contano poiché determinano il modo in cui si continuerà a vivere dopo la fine delle ostilità.
Questa interpretazione è semplicemente un espediente retorico per attribuire l’esclusiva dell’irresponsabilità a chi preferisce una guerra finita invece che infinita? Forse no, ma soltanto se si riesce a ricondurre il conflitto armato fra stati sotto controllo morale. Zuolo tenta di farlo con tre argomenti:
1. Uno stato aggredito ha il diritto di difendersi.
2. Una guerra deliberata da un governo legittimo è più giustificabile di una imposta da uno illegittimo: “da un lato abbiamo una popolazione che quasi unanimemente sostiene lo sforzo di autodifesa, dall’altro una popolazione che in piccola parte dissente, in larga parte teme la repressione e se ne ha i mezzi cerca di sfuggire alla chiamata alle armi. Contrapporre a quest’ultimi fenomeni la (quasi inevitabile) propaganda di Zelensky sembra veramente un sofisma in cattiva fede. Quindi, le recenti illazioni sullo scarso pedigree democratico dell’Ucraina e sulle presunte volontà di alcuni territori russofoni di adesione alla Russia, anche quando fossero vere, non giustificherebbero l’equiparazione dell’Ucraina alla Russia quanto a legittimità istituzionale”.
3. Le ostilità di un aggredito che rispetta generalmente lo ius in bello sono più giustificabili di quelle del suo aggressore che sistematicamente si macchia di crimini di guerra: “da un lato abbiamo il ricorso abbondante a bombardamenti a danno dei civili, lo stupro di donne e l’uccisione indiscriminata di civili gettati in fosse comuni; dall’altra parte, oltre alle ‘ordinarie’ operazioni dell’esercito, al massimo si possono menzionare azioni di sabotaggio e guerriglia dei civili che si difendono dall’invasore. Laddove ci sono state azioni contrarie a convenzioni o al diritto internazionale da parte dell’aggredito, esse non hanno avuto carattere sistematico o programmatico, né per modalità né per frequenza né per intensità”.
Queste tesi bastano a moralizzare la guerra, così da renderne il superamento soltanto opzionale?
1. Anche se si volesse attribuire all’aggressore esclusivamente la colpa di aver ampliato un conflitto già in corso, attenuato solo provvisoriamente da trattati sottoscritti con riserve mentali fin dall’inizio evidenti, non si può negare all’aggredito la facoltà di difendersi. Ma una cosa è fondare questa facoltà sullo ius aequivocum dello stato di necessità, un’altra è trattarla come un diritto in senso stretto. Una cosa è riconoscere che una guerra può essere tristemente necessaria, un’altra rappresentarla anche come giusta. Non è solo una sottigliezza da kantisti: chi crede di combattere una guerra giusta può sentirsi autorizzato a prolungare il massacro oltre l’indispensabile, eventualmente fino a una pace accettabile anche dal generale descritto icasticamente da Emilio Lussu, e a esonerarsi dalla responsabilità per le conseguenze della sua scelta.
2-3. È possibile che l’Ucraina stia combattendo una guerra, se non giusta, inevitabile a causa del carattere incomparabilmente dispotico e criminale del suo nemico. Ma abbiamo gli strumenti per misurarlo? Per rappresentare l’opinione popolare di una parte, che obbliga anch’essa obiettori e renitenti alla leva, come generalmente favorevole alla continuazione della guerra e trattarne i crimini come trascurabili, dovremmo poter disporre di un’informazione libera e accurata e non di una “(quasi inevitabile) propaganda”.
La prima vittima
Nel saggio Su un presunto diritto di mentire per amore degli esseri umani, frainteso anche dai non pochi specialisti che ne ignorano il senso politico17, Kant sostiene che un patto costituzionale che comprendesse il diritto di mentire non potrebbe sussistere, perché includerebbe la facoltà di trasgredire per convenienza tutti gli impegni pubblici su cui la costituzione stessa si fonda e di governare invece con la forza e con l’inganno. E ciò non si applica solo all’interno dei singoli ordinamenti: lo stato di diritto, di cui anche la democrazia liberale ha bisogno, si realizza solo se la sua garanzia pubblica non vale soltanto occasionalmente e per alcuni, ma per sempre e per tutti – cosa, questa, irrealizzabile in un sistema di relazioni che, normalizzando la guerra, si regge sulla legge della forza e non su quella del diritto.
Una democrazia dovrebbe non solo consentire, ma anche garantire la pubblicità di tutte le informazioni necessarie ai cittadini per deliberare consapevolmente sulla pace e sulla guerra. Una costituzione materiale – orientale o occidentale che sia – sotto la quale i coraggiosi che rivelano violazioni e crimini sono perseguitati, incarcerati o costretti all’esilio e la propaganda bellica e il potere segreto sono dati per scontati si espone al sospetto che le guerre che fa combattere non siano affatto inevitabili. Nel detto secondo il quale la verità è la prima vittima della guerra si cela un luogo che sta diventando difficile rendere comune: la prima vittima della guerra è la democrazia, che avrebbe potuto essere la sua prima nemica.
Note
1 Ken Loach, Prefazione a S. Maurizi, Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e Wikileaks, Chiarelettere, 2021.
2 Gore Vidal, History of the National Security State & Vidal on America, The Real News Network, 2014, p. 33.
3 Stefania Maurizi, Il potere segreto, p. 113.
4 Il I emendamento della Costituzione degli Stati Uniti protegge i giornali che pubblicano informazioni riservate da fonti interne, esattamente quello che avevano fatto il «New York Times» e il «Washington Post» nel 1971: avevano ricevuto i Pentagon Papers da un analista militare, Daniel Ellsberg, che vi aveva accesso in modo legale e aveva deciso di farli arrivare ai due grandi quotidiani. Ma non protegge dalla censura privata: Amazon bandì WikiLeaks e, poco più di due anni dopo, il governo degli Stati Uniti probabilmente ricordò il gesto, assegnando ad Amazon un contratto di eccezionale importanza: la costruzione del cloud per i servizi di analisi, elaborazione e archiviazione dei dati della Central Intelligence Agency.
5 Come testimonia l’informatrice civica Chelsea Manning, anche il potere segreto ha una sua strategia di comunicazione: a suo parere, la classificazione dei suoi documenti è meglio spiegabile se la intendiamo finalizzata non a tenere al sicuro i segreti, ma a tenerne sotto controllo la narrazione.
6 Nico Piro, Maledetti pacifisti, People, 2022, p. 41.
7 Ibidem, p. 49.
8 Ibidem, pp. 50-51.
9 Ibidem, p. 65.
10 Ibidem, p.35.
11 Gli argomenti di “Valigia Blu” meritano maggiore attenzione di quelli degli “opinionisti con l’elmetto” perché è una sede di pubblicazione che ha risposto alla crisi della stampa con una soluzione diversa rispetto alla prassi dell’informazione giornalistica italiana, e ha seguito il caso Assange con la dovuta attenzione.
12 Noto come trolley dilemma o dilemma del carrello. Si veda Philippa Foot, The Problem of Abortion and the Doctrine of the Double Effect, “Oxford Review”, 5, 1967.
13 Fra i sei articoli preliminari del progetto filosofico di Kant per la Pace perpetua, i tre immediatamente esecutivi, perché già presenti nel diritto internazionale (I, V, VI), si fondano su questo presupposto.
14 Stefania Maurizi, Il potere segreto, p. 42.
15 Raymond Aron, L’opium des intellectuels, Calmann-Lévy, 1955, p. 273.
16 Ibidem, p. 275.
17 Robert J. Benton, Political Expediency and Lying: Kant vs Benjamin Constant (1982); Daniela Tafani, Scienza, filosofia e politica. Kant e le neuroscienze del giudizio morale (2021), §3. La materia del contendere non era privatistica, ma pubblicistica: fino a che punto dobbiamo continuare a prendere sul serio i principi della Rivoluzione francese?
Fonte: Bollettino Telematico di Filosofia Politica, 29 novembre 2022.