Israele e la crisi dell’ebraismo
L’escalation di violenza in Palestina seguita agli attacchi di Hamas del 7 ottobre, unita al rischio concreto che la reazione di Israele configuri un genocidio, ha riportato in luce un conflitto mai sopito intorno all’identità ebraica. Da una parte, si vuole identificare senza residui l’essere ebrei con lo Stato di Israele e col sostegno alle politiche dei suoi governi; dall’altra parte, si rivendica un’identità ebraica molto più ricca e articolata, prendendo nettamente le distanze dall’occupazione israeliana delle terre palestinesi e dall’attuale operazione militare contro Gaza. In questo intervento pubblicato sulla London Review of Books, Eli Zaretsky, docente di storia alla New School for Social Research di New York, affronta il tema patendo dall’assunto che l’ebraismo non vada identificato con un’identità nazionale come fanno, da punti di vista diversi, sia il sionismo che il diasporismo. Alla ricerca dei tratti più peculiari dell’identità ebraica, l’autore ricostruisce le correnti “critiche” dell’ebraismo, come il messianismo e il cosmopolitismo. Queste correnti costituiscono, secondo Zaretzky, il nucleo più originale e storicamente influente dell’ebraismo: accomunate da una forte dimensione intellettuale e critica, queste correnti consentono di essere ebrei senza identificarsi con lo Stato d’Israele e di denunciare la strumentalizzazione dell’Olocausto e della sua memoria per giustificare le politiche dei governi israeliani.
di Eli Zaretsky
La storia delle università statunitensi è piena di esempi di uomini ricchi e potenti – spesso chiamati “trustees” (fiduciari) – che fanno pressione sul corpo docente rispetto a cosa insegnare e come insegnarlo. Non c’è nulla di sconvolgente, quindi, nel recente successo di Marc Rowan e William Ackman nel rovesciare i rettori dell’Università della Pennsylvania e di Harvard. La novità è la misura in cui ciò è stato fatto in nome della lotta all’antisemitismo o della protezione dei diritti degli ebrei. Questi episodi evidenziano le forti pressioni esercitate da Israele e dall’establishment ebraico statunitense per ridurre il sostegno ai palestinesi. Le pressioni arrivano anche dall’esterno della comunità ebraica. A questo riguardo il filosofo di fama mondiale Jürgen Habermas ha sostenuto che, a causa della responsabilità storica della Germania nei confronti del popolo ebraico, i tedeschi non dovrebbero sollevare la questione del genocidio in relazione all’attuale comportamento di Israele.
Ovvia la reazione di una parte degli ebrei americani. Il mese scorso il New York Times ha pubblicato un articolo di Marc Tracy dal titolo Is Israel part of what it means to be Jewish? (Israele è parte di ciò che significa essere ebreo?) che include una discussione delle teorie diasporiche del rabbino Shaul Magid, professore di studi ebraici a Dartmouth e autore di The Necessity of Exile: Essays from a Distance (La necessità dell’esilio: saggi a distanza). Secondo Magid, “Israele è diventato il sostituto dell’identità ebraica. [Ma noi] abbiamo una storia di almeno 2000 anni. Dobbiamo afferrarla e sostanzialmente riprenderla da coloro che ce l’hanno portata via”. Mentre molti sionisti sostengono che un ebreo può realizzarsi come tale solo vivendo in Israele, il diasporismo, come spiega Tracy, “sostiene il contrario: gli ebrei devono accettare la marginalità e un certo allontanamento da Israele come paese, forse anche da Israele come luogo”.
Una delle epigrafi al libro di Magid è di Eugene Borowitz: “chiunque si preoccupi seriamente di essere ebreo è in esilio e lo sarebbe anche se si trovasse a Gerusalemme”. Come mostra l’intervento di Magid, la questione della lealtà a Israele si basa su una domanda preliminare: cos’è un ebreo? Questa domanda è rilevante anche per la situazione tedesca, poiché non è chiaro perché la responsabilità tedesca verso gli ebrei debba essere equiparata alla responsabilità verso Israele.
Non è la prima volta che si assiste a una crisi dell’identità ebraica. Molti ebrei, me compreso, ripudiano le attuali politiche di Israele, l’occupazione, l’espropriazione e molti altri aspetti del progetto sionista. Eppure, vogliono anche affermare la loro identità di ebrei. Questo suggerisce che c’è un conflitto al centro dell’ebraismo stesso. La dualità sionismo/diasporismo non è però adeguata a descrivere questo conflitto. Diaspora e sionismo non sono alternativi ma complementari, in quanto sono entrambi versioni dell’identità nazionale: ma l’ebraismo non può essere ridotto a un progetto nazionale. Il diasporismo, inoltre, esprime uno sforzo consapevole per integrare l’ebraismo nel paradigma postcoloniale, mentre la questione prioritaria è ciò che distingue l’ebraismo, non ciò che ha in comune con l’identità di altri popoli.
Intorno al 1910 il filosofo Ernst Bloch si trovò di fronte un dilemma simile, quando molti dei suoi compagni ebrei, lacerati dall’antisemitismo, divennero sionisti. Bloch si oppose al sionismo sostenendo che, quanto a lui, avrebbe sostituito la “mera nazionalità” con la “scelta”. Per “scelta” Bloch intendeva la cultura intellettuale oppositiva dell’ebraismo, che incarnava una chiara opposizione tra “il bene e l’illuminato ce tutto ciò che è meschino, ingiusto e duro”. Scelta contro nazionalità può essere un punto di partenza migliore per comprendere il dilemma attuale.
Il senso ebraico dell’essere scelti si fonda sul carattere speciale dell’idea ebraica di Dio, che ha creato l’universo ex nihilo. Questa non era un’idea esclusivamente ebraica – la vediamo nell’antico Egitto (Akhenaton), in Persia (Zoroastrismo) e più tardi nell’Islam – ma prima dell’Islam nessun popolo l’ha perseguita con una passione così fervida come avevano fatto gli ebrei. Dal punto di vista ebraico, l’alternativa era un Dio che emerge da una materia primordiale o archē, e che quindi conserva un legame con una sostanza non divina, che si rivela sotto forma di magia, politeismo o idolatria. Ciò mette in luce la contraddizione insita nell’identità ebraica fin dalle origini: un Dio universale che ha creato tutto e tutti, ma ha scelto un popolo oscuro, tribale e schiavo per portare il suo messaggio.
Questa contraddizione si acuisce se consideriamo il Bilderverbot, il divieto delle immagini, che favoriva un rapporto intellettuale anziché sensuale con Dio, e che quindi era in tensione con le idee di sangue, razza e appartenenza nazionale. Kant apprezzava l’importanza dell’intellettualità, ossia della centralità della dimensione intellettiva, per l’ebraismo. Nella Critica del giudizio scrive:
Forse il passaggio più sublime della Legge ebraica è il [secondo] comandamento: “Non ti farai alcuna immagine scolpita, né alcuna somiglianza con alcunché che sia nei cieli di sopra, o che sia sulla terra di sotto, o che sia nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai ad esse e non le servirai.
Secondo Kant, questo “comandamento da solo può spiegare l’entusiasmo che il popolo ebraico nella sua epoca civilizzata provava per la sua religione, quando si confrontava con gli altri popoli, o spiegare l’orgoglio che ispira il maomettanesimo”.
La contraddizione tra la scelta ebraica, da un lato, e l’universalità, dall’altro, si è accentuata con l’ascesa del cristianesimo. La pretesa cristiana che Gesù, il Messia, fosse un ebreo rafforzò la pretesa ebraica di essere speciale. Allo stesso tempo, gli ebrei respinsero questa pretesa, il che li portò a essere derisi soprattutto dai cristiani. Gli ebrei pensavano che l’apparato cristiano di Dio che ha un figlio, di Maria e dello Spirito Santo, di reliquie, santi, martiri e così via, fosse una digressione dal punto principale, che era l’essere nudi davanti a Dio. Ma molti cristiani – come Agostino, Lutero e Pascal – la pensavano allo stesso modo, così come Maometto. E gli ebrei non erano nella posizione di criticare l’idea che Dio avesse un figlio, tanto meno un figlio unico, poiché l’idea che Dio avesse un popolo eletto era una variante della stessa idea.
Le idee fondamentali della cultura europea e statunitense, come la libertà, il progresso e la pace o la riconciliazione, sono state profondamente plasmate dal cristianesimo: non dalla “nostra eredità giudeo-cristiana”, che è un neologismo da Guerra Fredda simile all’idea che la Bibbia ebraica sia il “Vecchio Testamento”, ma dalla “buona novella” del sacrificio di Dio. L’ebraismo è sopravvissuto nella forma quasi secolare dell’intellettualità oppositiva o critica, come sosteneva Bloch. A grandi linee, individuerei tre correnti di pensiero contemporanee che rimangono influenzate dalla sensibilità ebraica originaria: l’intellettualità, il messianismo e il cosmopolitismo.
Intellettualità. La particolarità della tradizione ebraica dell’intellettualità è che non ha nulla a che fare con il calcolo o la ragione strumentale. Sigmund Freud, nel suo saggio Mosè e il monoteismo, lo chiamò Geistigkeit, ovvero una disposizione al pensiero concettuale sul sacro e l’aumento dell’autostima che ne deriva. Freud fa risalire la Geistigkeit al salto concettuale costituito dal monoteismo originario. Walter Benjamin considerava Adamo il primo filosofo. Il suo concetto di “aura”, fondamentale per tutti i moderni studi sul cinema e sui media, è un discendente diretto del Bilderverbot. Sia Freud che Benjamin pagarono cara la loro ebraicità. Benjamin morì suicida mentre fuggiva dai nazisti. Le critiche alla psicoanalisi sono state inficiate da stereotipi antisemiti, come l’idea che sia pessimista, antisociale o ossessionata dal sesso.
Messianismo. Sebbene la teoria del capitalismo di Karl Marx non abbia radici particolarmente ebraiche, cosa sarebbe il marxismo senza la sua dimensione messianica, secondo la quale il proletariato, che era nulla, sarà tutto? Certo, questo atteggiamento ha anche radici cristiane ma, come scrive Max Weber nel volume della sua sociologia della religione intitolato L’antico giudaismo, gli antichi Israeliti hanno generato l’idea di un paradiso nel passato (la monarchia di re David) proiettato nel futuro. Secondo Weber “questo non è accaduto solo in Israele; ma da nessun’altra parte questa attesa si è collocata al centro della religiosità con una forza così evidente e sempre crescente. L’antica alleanza di Yahweh con Israele, la sua promessa unita alla critica di un misero presente, ha reso questo possibile”.
Cosmopolitismo. Molti pensatori ebrei moderni sono stati in grado di affermare aspetti della loro identità staccandosi dalla comunità ebraica. Spinoza fu scomunicato dalla sua stessa sinagoga. Rifiutò l’idea della creazione ex nihilo in favore di una concezione quasi atea di Dio come totalità dell’universo. Eppure, Einstein, quando gli fu chiesto di descrivere la sua religione, disse di credere nel “Dio di Spinoza”. Il saggio di Isaac Deutcher del 1958, L’ebreo non ebreo, adottato come talismano da molti ebrei laici, fornisce sei esempi di questa posizione: Spinoza, Heine, Marx, Rosa Luxemburg, Trotsky e Freud. Erano tutti ebrei di nascita e il loro pensiero partiva dall’ebraismo ma, secondo le parole di Deutscher, tutti “andarono oltre i confini dell’ebraismo. Trovarono tutti l’ebraismo troppo stretto, troppo arcaico e troppo costrittivo. Tutti cercarono ideali e realizzazione al di là di esso: questo sforzo rappresenta l’essenza di tutto di ciò che è più grande nel pensiero moderno”. Nel suo saggio del 2003 Freud e il non europeo, Edward Said (un palestinese cristiano) ha elogiato Freud per aver messo l’Egitto (cioè l”alterità’) al centro dell’ebraismo. Jacques Derrida, nato in Algeria nel 1930, era uno scolaro quando l’occupazione tedesca della Francia portò all’introduzione di una nuova legislazione antiebraica. Derrida perse la cittadinanza francese, ma il suo lavoro ha forgiato una critica duratura di tutte le forme di identità, compresa quella ebraica.
Alla luce di questa storia, come possiamo spiegare la presa che Israele come nazione e come Stato continua a esercitare oggi su così tanti ebrei? La risposta sta nel secondo evento cruciale della storia ebraica, dopo l’ascesa del cristianesimo: l’Olocausto. L’Olocausto è stato sia un evento di proporzioni mitiche sia un evento che è stato compreso in termini mitici. Fondamentalmente, l’Olocausto non può essere limitato al regime nazista. A partire dagli anni Ottanta del XIX secolo, ogni paese europeo ha svilito gli ebrei in un modo nuovo, identificandoli con l’ascesa del capitalismo e, dalla Germania all’Europa dell’Est, gli ebrei venivano uccisi con una certa regolarità. Oggi Israele è composto per la maggior parte da rifugiati o figli di rifugiati, per metà provenienti dall’Europa e per metà dai paesi del Medio Oriente. La storia dell’Olocausto è stata raccontata a tutti gli ebrei dalla Seconda guerra mondiale in poi. Quest’ultima dà forma all’identità ebraica tanto quanto la Nakba plasma l’identità palestinese.
Credo che oggi sia possibile affermare l’ebraismo riconoscendo che, come avvertiva Bloch, Israele si sta trasformando in una “mera nazionalità”. Allo stesso tempo, è impossibile immaginare un futuro per la Palestina che non conservi un posto per gli ebrei in quanto ebrei, sia in un unico stato che in due stati. Un vero universalismo, come originariamente immaginato dagli ebrei, riconosce e include le differenze. Ma oggi siamo più lontani che mai da tutto ciò.
Fonte: London Review of Books, 20 febbraio 2024 (traduzione di Aurora Bernardini e Alessia Oliverio).