Inquinamento atmosferico e COVID-19
Il clima di incertezza, che stiamo vivendo a causa dell’emergenza da Covid-19, mette in evidenza la necessità di un’informazione chiara e trasparente sulla tutela della nostra salute. Per questo motivo, lo Steering Committee del progetto CCM RIAS (Rete Italiana Ambiente e Salute) ha diffuso un documento, che qui ripubblichiamo da Scienza in rete, alla cui redazione hanno partecipato figure autorevoli in materia di sanità pubblica, in cui si chiarisce lo stato dell’arte degli studi scientifici relativi a una possibile connessione fra inquinamento atmosferico e diffusione del virus. Moltissimi sono gli articoli pubblicati di recente, nei quali gli scienziati di tutto il mondo spiegano quanto sia plausibile attribuire all’inquinamento atmosferico da particolato (PM), già colpevole dell’insorgere di malattie respiratorie che colpiscono la bassa zona polmonare, la responsabilità di aver in qualche modo favorito la proliferazione del virus. Purtroppo, tali risultati sono divulgati nella maggior parte dei casi ancora in fase di pre-print, sono cioè privi del vaglio rigoroso dell’intera comunità scientifica. Il documento mette, dunque, in risalto quali variabili di studio debbano essere inglobate nel modello di spiegazione e indica le domande a cui gli scienziati sono chiamati a dare risposte.
di Rete Italiana Ambiente e Salute
Introduzione
In queste ultime settimane, sono stati diffusi online contributi sotto forma pre-print (senza peer-review) che discutono o presentano analisi di dati sulla relazione tra i livelli di inquinamento atmosferico e l’epidemia di COVID-19 (malattia del Coronavirus causata dalla SARS-CoV-2). L’attenzione è posta in particolare sui potenziali effetti del particolato fine (PM), sulla diffusione della epidemia e sulla prognosi delle infezioni respiratorie. L’ipotesi sottostante è che una alta concentrazione di particolato (PM10, PM2.5) renda il sistema respiratorio più suscettibile alla infezione e alle complicanze della malattia da coronavirus. Piu è alta e costante nel tempo (come per gli anziani) l’esposizione a PM più è alta la probabilità che il sistema respiratorio sia predisposto ad una malattia più grave. D’altra parte, è noto che l’inquinamento atmosferico da PM 2.5, subito dopo dieta, fumo, ipertensione e diabete è uno dei fattori di rischio più importanti per la salute e causa ogni anno 2.9 milioni di morti premature in tutto il mondo. Cardiopatia ischemica, ictus, malattia polmonare ostruttiva cronica, sono le principali condizioni associate alla mortalità correlata all’inquinamento atmosferico. La possibile interazione tra inquinamento e COVID-19 è anche suggerita dal fatto che l’esposizione all’inquinamento atmosferico aumenta il rischio di patologie respiratorie e infezioni acute delle basse vie respiratorie (ALRI) particolarmente in soggetti vulnerabili, quali anziani e bambini. Una associazione tra inquinamento e aumentato rischio di malattie infettive influenza-like è stata evidenziata in uno studio condotto in Cina (Su, 2019).
Gli studi fino ad oggi suggeriscono che il virus che causa COVID-19 viene trasmesso principalmente attraverso le goccioline respiratorie (droplets) di persona infetta a distanza ravvicinata a seguito di un colpo di tosse o di uno starnuto o la semplice parola; più raro il contagio attraverso le superfici infette (Cheng et al., 2020; Lewis, 2020; Schwartz, 2020). Vi sono anche alcune indicazioni che suggeriscono che il virus nell’aerosol di un ambiente chiuso possa essere ancora infettivo (NAS, 2020, Lewis, 2020). Si è infine ipotizzato che il particolato atmosferico possa essere un supporto (carrier) per la diffusione del virus per via aerea, ma questa ultima ipotesi non sembra avere alcuna plausibilità biologica. Infatti, pur riconoscendo al PM la capacità di veicolare particelle biologiche (batteri, spore, pollini, virus, funghi, alghe, frammenti vegetali), appare implausibile che i Coronavirus possano mantenere intatte le loro caratteristiche morfologiche e le loro proprietà infettive anche dopo una permanenza più o meno prolungata nell’ambiente outdoor. Temperatura, essiccamento e UV danneggiano infatti l’involucro del virus e quindi la sua capacità di infettare. La diffusione non corretta di tale ipotesi, non suffragate da evidenza scientifica, può essere molto fuorviante nella comunicazione del rischio alla popolazione, già disorientata dalla contrapposizione fra “distanze di sicurezza”, troppo ravvicinate – se consideriamo la possibile trasmissione aerea via micro-droplets in ambienti chiusi (National Academy of Sciences degli Stati Uniti)- e la improbabile diffusione a chilometri di distanza secondo l’ipotesi “carrier”. Le modalità di trasmissione, così come la prevenzione del contagio, dovrebbero essere comunicate con estrema chiarezza perché sono attualmente l’aspetto più importante della diffusione dell’infezione.
Accanto alle considerazioni sugli effetti della salute, occorre tener conto che i dati provenienti da osservazioni satellitari mostrano una chiara riduzione dei livelli di inquinamento in tutti i paesi in lockdown. Dal 9 marzo i livelli di NO2 a Milano e in altre parti del nord Italia sono diminuiti di circa il 40%. E’ ovvio che occorrerà studiare meglio le ragioni di tale diminuzione delle concentrazioni, ma è plausibile una responsabilità della drastica diminuzione del traffico stradale e delle attività industriali.
I lavori scientifici disponibili
In Italia, l’ipotesi di un possibile collegamento tra la diffusione del COVID-19 e l’inquinamento atmosferico deriva dell’alta concentrazione di COVID-19 nella pianura padana riconosciuta come una delle aree geografiche più inquinate d’Europa (Re, 2020; Conticini 2020).
Il Position Paper congiunto della Società Italiana di Medicina Ambientale sull’effetto dell’inquinamento da particolato atmosferico sulla diffusione di virus nella popolazione italiana ha suggerito che l’inquinamento costituisce un fattore plausibile ipotizzando che questo possa avvenire sia in modo diretto come “veicolo (carrier)” sia in modo indiretto come “amplificatore (boost)” degli effetti sul polmone del virus. Nello studio, l’unità di osservazione erano le province italiane e il lavoro ha messo in relazione la proporzione di superamenti per il PM10 nelle centraline di ciascuna provincia con il numero di casi infetti da COVID-19, come riportati dal sito della Protezione Civile, occorsi nei 14 giorni successivi. Lo studio evidenziava una relazione molto forte con un coefficiente di correlazione elevato. Tuttavia, l’analisi era molto grezza e non considerava in dettaglio i valori di inquinamento ma solo i relativi “superamenti” e tralasciava molteplici fattori di confondimento, cioè fattori associati sia all’inquinamento sia alla diffusione del COVID-19. In sostanza, si tratta di osservazioni che hanno numerosi limiti dal punto di vista metodologico. Note ufficiali (Società Italiana di Aerosol, Agenzia Ambientale del Veneto, Agenzia regionale Prevenzione Ambiente e Energia Emilia-Romagna e Lombardia) hanno richiamato alla cautela nel diffondere informazioni non suffragate da solide argomentazioni scientifiche e hanno auspicato nuovi e più mirati studi.
E’ stato diffuso di recente uno studio dei ricercatori di Harvard (Xiao Wu, 2020) che ha indagato la relazione tra esposizione a lungo termine a PM2.5 e il rischio di morte COVID-19 negli Stati Uniti. In termini quantitativi, l’eccesso di rischio riportato è piuttosto impressionante: 15% di eccesso di mortalità, riferito a tutta la popolazione, associato ad un aumento di 1 ug/m3 della concentrazione atmosferica di PM2.5. L’ipotesi di base che il virus si sia diffuso più rapidamente nelle zone con popolazione residente più esposta, e quindi più suscettibile, è senz’altro interessante. Tuttavia, anche il lavoro dei colleghi di Harvard presenta problemi metodologici molto importanti, quali ad esempio il mancato controllo per autocorrelazione spaziale sia della esposizione sia del contagio (si pensi ad esempio alle contee in prossimità di New York, sicuramente più inquinate e più affette dal contagio).
E’ importante evidenziare che il lavoro è stato diffuso ai media sotto forma di pre-print prima di passare per il processo di revisione tra pari (peer-review). La scelta tra pubblicare con urgenza risultati ritenuti rilevanti o attendere la verifica e l’accreditamento in accordo alle regole della comunità scientifica è da sempre dibattuto. La riflessione è tanto più importante in situazioni come quella che stiamo vivendo per la pandemia COVID-19, con la necessità di dare ai cittadini informazioni e indicazioni credibili, univoche, e il più possibile basate su evidenze scientifiche, pure essendo consapevoli che su molti aspetti le evidenze sono ancora incerte.
Nella valutazione degli studi, occorre anche considerare che per una epidemia con contagio per via respiratoria il maggior determinante della diffusione sono la frequenza e la vicinanza dei contatti tra le persone. La pianura padana è una delle aree maggiormente industrializzate in Italia con un numero elevato di contatti internazionali e, anche durante il lock down, le attività produttive (per beni essenziali e produzioni definite strategiche) sono sempre rimaste attive con un elevato numero di spostamenti interni e di contatti. Questo fatto, da solo, può essere considerato il maggiore determinate della epidemia in quella regione.
Le domande di ricerca
La comprensione del tipo e dell’entità della associazione tra inquinamento e COVID-19 è una importante domanda di ricerca che esige una risposta adeguata e tempestiva per contribuire al progresso della conoscenza per la sanità pubblica. Le proposte di studio dovrebbero tener conto della forza delle prove esistenti sulle relazioni ambiente-salute, delle caratteristiche peculiari di COVID-19 che via via stiamo acquisendo, e di un razionale chiaro e condiviso sul potenziale legame con COVID-19.
Valutare gli effetti dell’inquinamento atmosferico sulla diffusione di COVID-19 e sulla prognosi dei casi è una sfida in quanto implica considerare le principali condizioni locali relative all’andamento della qualità dell’aria, le caratteristiche delle comunità residenti, lo stato di salute preesistente e co-fattori legati sia all’inquinamento sia alla malattia in esame (ad es. età, condizioni socio-economiche, abitudini personali, comorbidità), nonché informazioni sulle misure di contenimento del COVID-19 adottate. Solo per fare alcuni esempi, un aspetto di interesse è la comorbidità: il 31,4% dei casi COVID-19 registrati in Italia presenta almeno una patologia prima della diagnosi, e il 61% dei decessi per i quali è disponibile la cartella clinica presentava 3 o più patologie preesistenti (Epicentro aggiornamento 10 aprile 2020), ad indicare che patologie (anche associate all’inquinamento atmosferico) possono essere importanti fattori predisponenti. D’altro canto, gli studi epidemiologici e le valutazioni di impatto delle patologie associate all’inquinamento atmosferico indicano i bambini tra i gruppi maggiormente vulnerabili, in particolare per le infezioni acute delle basse vie respiratorie (ALRI). Tuttavia, i dati disponibili relativi all’epidemia COVID-19 mostrano a tal riguardo che le classi di età di gran lunga più colpite (in termini sia di casi che di decessi) sono quelle adulto-anziane. In Italia infatti l’età media dei casi è di 62 anni (con circa l’1% dei casi con età <18 anni). Il ridotto numero di casi COVID-19 nella popolazione infantile appare non suffragare l’ipotesi di una azione favorente degli inquinanti. Infine, tra i fattori di vulnerabilità della popolazione, il livello socioeconomico. Le persone di basso status sociale sono più esposte a fattori ambientali (inquinamento atmosferico), presentano peggiori condizioni di salute, in termini di salute percepita, di mortalità, di morbosità cronica o di disabilità, fanno lavori che possono esporre di più la popolazione ai contatti e quindi al rischio di infezione, hanno meno capacità adattative.
Classicamente l’approccio epidemiologico agli studi degli effetti dell’inquinamento atmosferico outdoor distingue le esposizioni acute (a breve termine) da quelle croniche (a lungo termine). Esposizioni a breve termine aumentano la probabilità di insorgenza di malattie acute entro pochi giorni, come infarto del miocardio, polmoniti o addirittura la morte nel caso di soggetti suscettibili. Le esposizioni a lungo termine sono associate a una ridotta sopravvivenza e incidenza di diverse malattie non trasmissibili, tra cui le condizioni cardiorespiratorie e il cancro ai polmoni. È chiaro che per il COVID-19 siamo interessati agli effetti a lungo termine perché aumentano la dimensione della popolazione suscettibile, e agli effetti a breve termine perché si può assistere ad un aumento della velocità di propagazione della epidemia o di un aggravamento delle condizioni cliniche nei soggetti già malati. È anche noto che il fumo di sigaretta aumenta sia il rischio di infezioni acute delle basse vie respiratorie sia il rischio di sintomi di distress respiratorio acuto indipendentemente dalla SARS-CoV-2. I dati emergenti dalla Cina sul fumo come fattore di rischio per gravi COVID-19 suggeriscono che anche l’inquinamento atmosferico causato dalla combustione potrebbe essere un fattore di rischio.
E’ un dato di fatto che il PM possa sostenere una risposta infiammatoria a livello polmonare. Tuttavia, gli eventi chiave molecolari, in risposta all’esposizione a PM, sono chiaramente coinvolti nell’alterazione dell’omeostasi della fisiologia cardiovascolare. SARS-CoV2 sembra, quindi, sostenere un meccanismo analogo, inducendo la rapida insorgenza di uno stato di infiammazione, con un incremento altrettanto rapido di citochine infiammatorie, paragonabile a quello indotto dall’esposizione a breve termine al PM (Maffei, 2020).
Assieme ad una adeguata raccolta dei dati sanitari, il più possibile omogenea sul territorio nazionale, servono informazioni ambientali e demografiche utili a studiare le possibili associazioni tra inquinamento e diffusione e severità di COVID-19. Occorrono da un lato dati della sorveglianza utili a chiarire la diffusione della patologia nel territorio, dall’altro le valutazioni del quadro di esposizione ambientale pre e durante il lockdown. Solo per fare un esempio, la disponibilità dei dati del Sistema di sorveglianza mortalità giornaliera per le grandi aree urbane italiane rappresenta una fonte di dati standardizzata e non distorta, che consente di stimare l’incremento di mortalità osservato in relazione all’epidemia di COVID-19 e a fattori di rischio ambientali. Il sistema comprende 34 grandi aree urbane (19 delle quali utilizzate per la sorveglianza durante l’epidemia COVID-19); recentemente sono stati diffusi anche dati ISTAT di una selezione dei comuni Italiani. Il data base della sorveglianza integrata nazionale COVID-19 dell’Istituto Superiore di Sanità non è attualmente disponibile ma potrebbe essere messo a disposizione del SSN e del SNPA.
Dal punto di vista della ricerca ci sono molti quesiti a cui i ricercatori dovranno dare una risposta, il principale è: “Può l’esposizione a inquinamento atmosferico, sia cronica sia acuta, avere un effetto sulla probabilità di contagio, la comparsa dei sintomi e il decorso della malattia del coronavirus causata dalla SARS-CoV-2?”
- Chiariti questi aspetti saranno necessari approfondimenti, quali rispondere a questi quesiti:
- Chi sono i più suscettibili al COVID-19? E come si evolve nel tempo il pool dei suscettibili?
- C’è una relazione tra inquinamento atmosferico, abitudine al fumo e gravità della malattia?
- Rispetto alla consolidata relazione tra infezioni delle vie respiratorie ed esposizione a PM nei bambini, come si spiega il ridotto numero di casi covid-19 nella popolazione infantile?
- E’ possibile ipotizzare un’interazione a livello molecolare tra PM e SARS-CoV2?
- Esiste una interazione tra inquinamento outdoor, indoor e diffusione dell’infezione virale?
- Quale ruolo hanno nella virulenza e nella capacità di diffusione del virus altre variabili ambientali (quali temperatura e umidità, pollini, etc)?
- Quali gli effetti positivi della diminuzione dell’inquinamento sulla salute della popolazione affetta da SARS-CoV-2?
A causa dell’eterogeneità dei quesiti proposti, i disegni di studio epidemiologici da adottare sono molteplici, ma tutti devono tener conto però di un elemento essenziale nel ragionamento epidemiologico: identificare insieme ai determinanti anche i principali confondenti della relazione in esame, al fine di rimuoverli in sede di disegno e/o analisi. Serviranno studi con approccio geo-statistico per analizzare la variabilità spaziale dell’inquinamento atmosferico e quella dell’epidemia da COVID-19 (positivi, ospedalizzati, decessi). Grazie a record-linkage tra gli archivi disponibili si potranno effettuare studi analitici quali, (i) caso controllo nella popolazione, (ii) caso-controllo sugli ospedalizzati per COVID-19 (iii) coorte dei casi positivi per mettere in relazione l’esposizione a inquinamento atmosferico con la prognosi e la mortalità.
Laddove lo scopo sia un esame geografico della variabilità spaziale di inquinamento e diffusione (o mortalità) COVID-19, non si può prescindere dall’aggiustamento per l’autocorrelazione spaziale delle variabili di esito ed esposizione. Questo aspetto è associato al fatto che la diffusione dei nuovi casi di patologie infettive segue le modalità del contagio e quindi si muove principalmente per focolai (cluster) all’interno della popolazione. In modo speculare, gli studi di effetti a breve termine dell’inquinamento sulla diffusione dell’epidemia all’interno di un’area dovranno necessariamente rimuovere dalle stime di associazione l’elemento confondente legato ai trend temporali di breve periodo comuni alle dinamiche di diffusione della malattia ed alle concentrazioni di inquinanti atmosferici.
La necessità di collaborazione e di sforzi comuni
Sarà indispensabile promuovere collaborazioni per valutare in modo approfondito le relazioni tra inquinamento atmosferico e Covid-19 tenendo conto delle condizioni meteorologiche e interventi messi in campo per il contenimento dell’epidemia COVID19. Le indagini epidemiologiche dovranno essere basate su dati sufficientemente estesi e completi e sono auspicabili studi dei meccanismi di interazione che consentano di trarre conclusioni basate su solidi dati scientifici. Questo tipo di approccio è complesso e richiede la collaborazione di molte discipline diverse dall’epidemiologia ambientale. La Rete Italiana Ambiente e Salute, finanziata dal Ministero della Salute, grazie al coinvolgimento e lavoro congiunto delle strutture ambientali e sanitarie italiane che operano a livello centrale, regionale e locale, potrebbe facilitare il necessario processo di condivisione ed integrazione delle conoscenze e dei dati disponibili, promuovendo l’approccio inter-istituzionale che la contraddistingue.
Uno sguardo vigile per migliorare la protezione dell’ambiente
Mentre si prepara il terreno della ricerca, è importante restare vigili sulla possibilità che consolidate leggi e norme di protezione ambientale non vengono rimosse in nome della emergenza. L’Agenzia per la protezione dell’ambiente statunitense (EPA) ha annunciato giovedì 26 marzo 2020 un ampio rilassamento dei requisiti di conformità ambientale in risposta alla pandemia di coronavirus: la sospensione dei requisiti di monitoraggio ambientale consente a centrali elettriche, petrolchimici ed altri impianti industriali di autodeterminare la loro capacità di soddisfare i requisiti di legge per quanto riguarda inquinamento dell’aria e dell’acqua. Questa decisione ha destato grande preoccupazione per gli effetti sulla salute pubblica del potenziale rilascio di inquinanti atmosferici tossici che aggravano l’asma, le difficoltà respiratorie e i problemi cardiovascolari nel bel mezzo di una pandemia che può essa stessa causare una grave insufficienza respiratoria. E’ estremamente importante dunque mantenere alto il livello di vigilanza del rispetto della sostenibilità ambientale degli interventi economici e sociali che verranno messi in atto nella fase post pandemia, anche in Italia. Importante considerare anche l’effetto sui cambiamenti climatici per i quali è difficile immaginare quali saranno gli scenari. Secondo il Center for International Climate and Environment Research, l’epidemia di COVID-9, insieme alla riduzione dell’inquinamento, comporterà una rilevante riduzione delle emissioni di anidride carbonica (tutte le crisi economiche passate hanno avuto effetti positivi in questo senso). Ma lo scenario negativo, ipotizzano da alcuni, è che la crisi economica prodotta dalla pandemia potrebbe avere successivamente conseguenze disastrose per la transizione energetica globale, perché l’impoverimento a livello globale determinerà una minore disponibilità di risorse da investire in fonti di energia alternativa, a meno di una presa di consapevolezza necessaria ad affrontare il futuro prossimo venturo.
Fonte: Scienza in rete, 14 aprile 2020.