Sull’Inno alla Gioia di Ludwig van Beethoven
di Andrea Panzavolta
Se funzione precipua della letteratura è quella di inquietare le nostre notti e di uccidere il nostro sonno, di mostrare l’ambiguità di cui siamo fatti e di ragionare su di essa, allora le pagine dedicate da Primo Levi a Hurbinek sono altissima letteratura.
Ne La tregua Levi ricorda come nella sua baracca, ad Auschwitz, l’essere «più piccolo, più inerme […] più innocente» fosse un bambino di circa tre anni a cui i deportati avevano dato il nome di Hurbinek. Questi era paralizzato, aveva le gambe atrofiche ed era muto perché nessuno gli aveva insegnato a parlare. Terribile era il suo sguardo, «selvaggio ed umano ad un tempo, anzi maturo e giudice», tanto che nessuna riusciva a sostenerne «la potenza triste». Nessuno se non Henek, un quindicenne danese che trascorreva metà del suo tempo con lui, dandogli da mangiare, pulendolo e soprattutto parlandogli. Un giorno Henek annunciò che Hurbinek aveva detto una parola, che suonava «mass-klo» o «matisklo», di cui però ignorava il significato. Nella baracca c’erano prigionieri provenienti da tutta Europa ma nessuno di loro riuscì a decifrare quella parola, la quale rimase misteriosa quanto al suo senso.
Se si considera soltanto la diabolica ratio soggiacente al campo della morte di Auschwitz, nessuna meraviglia che in esso non sia rimasto «neppure tanto» di migliaia di esseri umani; ma che in quel campo della morte sia potuta gemmare una parola come «mass-klo», questo sì davvero sgomenta.
Ma è davvero in-audita la parola pronunciata da Hurbinek? Ci suona davvero così straniera? Se solo la ascoltassimo non con gli orecchi bensì con l’anima ci accorgeremmo che essa è già stata intonata in un’ora stellare della storia della musica, quella in cui una voce umana entrò per la prima volta in una sinfonia.
Siamo a Vienna, al Theater an der Wien. È il 7 maggio 1824 e in programma c’è la prima esecuzione della Sinfonia n° 9 in re minore op. 125 di Ludwig van Beethoven. Il Finale inizia con una fragorosa esplosione: quanto era stato detto nei primi tre tempi sembra frantumarsi e rovinare a terra. Su queste macerie, però, ecco levarsi i violoncelli e i contrabbassi nel tentativo di ricomporre l’infranto. È riproposta così la cosmogonia esiodea del Primo tempo, ma qualcosa non torna: «No, questo ci ricorderebbe la nostra disperata condizione» scrive Beethoven nei suoi schizzi. Recuperiamo, allora, la caccia dionisiaca del Secondo Tempo? «Anche questo non funziona» annota il compositore «[occorre] qualcosa di più bello e di migliore». È, questo, il terzo tempo, con il suo assorto corale? «Troppo tenero» si legge ancora negli schizzi «qualcosa di sveglio bisogna cercare».
A questo punto ecco spuntare il germoglio della futura Freudemelodie, la melodia della gioia. All’inizio è soltanto una monodia, ma a poco a poco essa si arricchisce di altri strumenti, si anima vieppiù nell’armonia e nel contrappunto: l’immagine è quella di un fiume che nel suo percorso aumenta la propria massa d’acqua grazie agli affluenti, fino a sfociare nel mare. «Ah, ci siamo! Ora ho trovato: Gioia!» scrive Beethoven. E l’intera orchestra espone finalmente la melodia dell’Inno alla Gioia.
Ma adesso che accade? Quale angoscia improvvisa ha adunghiato l’orchestra? Introdotta da un rullo di timpani ecco di nuovo la terribile esplosione di prima. Vuol dire, allora, che la gioia così faticosamente conquistata non era perfetta? Cosa le mancava? Le mancava la voce umana che si fa parola. Ma quale parola? Quella che è il fondamento di ogni gioia e senza la quale non esisterebbero il nostro mondo, le nostre città, le nostre case. La parola massimamente religiosa, nel significato etimologico dell’aggettivo, quella cioè che più di ogni altra crea legami tra gli esseri umani, li unisce insieme (re-ligere): la parola «Freunde», amici. Parola, per citare una nota poesia di Ungaretti, «tremante / nella notte / Foglia appena nata / Nell’aria spasimante / involontaria rivolta / dell’uomo presente alla sua / fragilità». La poesia da cui è tratta la citazione ungarettiana è Fratelli. E «Brüder», fratelli, ritorna per ben cinque volte nell’Inno alla Gioia, con limpido riferimento alla fraternité, una delle idee portanti dell’Illuminismo europeo, nel cui solco si colloca la lirica di Schiller e la Nona sinfonia.
Il vocativo «Freunde» è posto in apertura di una terzina scritta da Beethoven di proprio pugno e quindi è quanto meno difendibile sostenere la tesi che esso assolva per lui la funzione di pietra angolare dell’edificio sonoro che si appresta a erigere. Leggiamolo, allora, questi versi.
Basso solo – Recitativo O Freunde, nicht diese Töne! Sondern lasst uns angenehmere anstimmen, und freudenvollere. |
Basso solo – Recitativo |
«Altre note»: non quelle che abbiamo appena udito e che richiamano i primi tre tempi della Sinfonia e neppure quelle, per quanto colme di suggestioni filosofiche ed etiche, della Freudemelodie, esposta dall’intero organico orchestrale. Non queste, ma «altre e più grate e più gioiose» note, che saranno tali soltanto se saremo capaci di «anstimmen», di farle risuonare insieme. Se «Freunde» è la testata d’angolo, «anstimmen» è la chiave di volta. Questo verbo, infatti, ha un timbro spirituale, prima ancora che musicale. Potremmo tradurlo con questa circonlocuzione: accordiamoci, facciamo in modo che i distinti trovino il proprio suono in relazione con gli altri, perché l’essere di ogni suono è un essere-con. Giacomo Leopardi tradurrebbe così (sono le parole finali che Plotino rivolge a Porfirio nell’omonimo dialogo delle Operette morali): aiutiamoci «a sofferir la vita. […] confortiamoci insieme […] e andiamoci incoraggiando e dando la mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita».
Questo «anstimmen», però, non è un fatto naturale che semplicemente accade. Al contrario, è il risultato di una lotta, di una ricerca, di scelte. Ecco perché la parola con cui principia l’Inno alla Gioia non è «Brüder», bensì «Freunde». Essere fratelli non basta. Se è vero, come scrive Schiller, che «über Sternenzelt», «sopra la volta celeste» dimora «ein lieber Vater», «un caro padre» a tutti comune, va da sé che siamo tutti fratelli. Ma se davvero vogliamo «anstimmen», dobbiamo tendere all’amicizia.
La parola ‘amico’ in greco, in latino e in tedesco rimanda al verbo amare: phílos da philéin; amicus da amare; Freund dal ceppo Frei, ‘libero’, che a sua volta, attesta l’Etymologisches Woerterbuch der Deutschen Sprache di Friederich Kluge, può essere ricondotto alla base indogermanica *priio-, con nucleo semantico legato ad ‘amare’ (la stessa della parola inglese Friend).
Essere-fratelli è un verbo sedentario; essere-amici è un verbo d’azione, che presuppone curiosità, ascolto, attenzione per l’altro da sé. E quando la parola «Freunde», amici, finalmente risuona, ecco che sgorga «Freude», gioia: il suo nucleo semantico *preu- è proprio legato all’idea di ‘zampillare’, ‘sprizzare’. Si badi: non la insipiente e garrula felicità, che è tutta ripiegata su se stessa, che è phil-autía, ‘amicizia rivolta a se stessi’, bensì la sobria e matura gioia che ha l’altro quale suo primo e ultimo amore e che non di rado porta impresse su di sé le ferite ricevute nel corso della sua ricerca.
In quella baracca di Auschwitz tutti erano «Brüder» di Hurbinek, ma Henek era anche suo «Freud». Ed era tale perché gli si era accostato, perché, senza ripugnanza alcuna, gli dava da mangiare, lo puliva, gli riassettava il giaciglio e soprattutto perché gli ha insegnato a pronunciare una parola, una soltanto, è vero, ma a pronunciarla con gioia; una parola, ora abbiamo la temerarietà di affermarlo con certezza, che significa «amico».
E la certezza si rinsalda se solo consideriamo la sorte toccata al manoscritto della Nona. Questo, nel corso del Secondo conflitto mondiale, fu scomposto in più parti per preservarlo da una possibile distruzione. Il Finale, in particolare, fu diviso proprio nel punto in cui il ‘tema della Gioia’ («Freude, schöner Götterfunken») e il ‘tema dell’abbraccio’ («Seid umschlungen, Millionen!») si uniscono in una vertiginosa doppia fuga. Terminata la guerra, una parte risultò essere custodita a Berlino Ovest, l’altra in un monastero in Polonia, territorio sotto l’influenza dell’URSS dall’agosto del 1945. Nei primi anni Settanta il presidente polacco donò il manoscritto beethoveniano a Erich Honecker, presidente della DDR e si arrivò così alla follia per la quale la divisione del Finale riproduceva esattamente la divisione dell’Europa. Follia, ma soprattutto paradosso, perché se c’è una musica che proprio è un inno all’amicizia tra i distinti questa è proprio il Finale della Nona sinfonia. Si dovette attendere il 1989 affinché i due temi finalmente venissero «umschlungen», potessero riabbracciarsi.
Non è un caso, dunque, che «An die Freude» sia stata scelta quale inno ufficiale dell’Unione Europea e sia entrata nel canone del patrimonio culturale dell’Unesco. Essa parla di un continente, l’Europa, che ha avuto una incomparabile intuizione, quella secondo la quale i problemi che agitano le menti degli uomini fin dalla loro comparsa sulla Terra possono essere non risolti, bensì diaporéin, direbbero i Greci, ‘attraversati insieme’, traendo un senso proprio dalla molteplicità delle a-porie, dei sentieri in-transitabili nel cui solco essi si dibattono e soffrono. Ma quale è mai l’altro nome di questo ‘attraversare insieme’ se non amicizia?
Andrea Panzavolta è giornalista pubblicista. Collabora alla rubrica “Film in discussione” di Iride. Filosofia e discussione pubblica, e ad alcune riviste di critica cinematografica. Dal 2014 è il direttore artistico della rassegna concertistica forlivese “Passioni in musica”.