L’impatto climatico delle operazioni militari nella Striscia di Gaza
di Elisa Bontempo
Le operazioni militari di Israele nella Striscia di Gaza rappresentano uno dei conflitti armati più distruttivi del XXI secolo, non solo per le sue conseguenze umane e geopolitiche, ma anche per il suo impatto ambientale e climatico senza precedenti. Lo studio War on the Climate: A Multitemporal Study of Greenhouse Gas Emissions of the Israel-Gaza Conflict, pubblicato ad aprile 2025 sulla piattaforma open access Social Science Research Network, risponde alla necessità urgente di colmare un vuoto di conoscenze sull’impatto climatico dei conflitti armati, assumendo come caso di studio proprio ciò che sta avvenendo a Gaza e in altri territori colpiti dall’esercito israeliano negli ultimi mesi.
Lo studio rappresenta la prima analisi sistematica ed esaustiva delle emissioni di gas serra generate nelle operazioni militari israeliane nella Striscia di Gaza dopo il 7 ottobre 2023, includendo anche le azioni in Libano, Iran e Yemen ad esse collegate: l’analisi include le emissioni associate alla produzione e all’uso di materiali da combattimento, alla distruzione di edifici e infrastrutture, ma anche alle attività di costruzione e fortificazione e a quelle connesse alla futura ricostruzione.
Secondo le autrici e gli autori, le emissioni connesse alle attività belliche dirette dei primi 15 mesi sono state superiori alle emissioni annuali dei 16 paesi con le emissioni più basse al mondo. Se si include nel calcolo la rete di tunnel costruita negli anni da Hamas e la barriera militare costruita da Israele per chiudere la Striscia di Gaza, la stima delle emissioni aumenta fino a superare quelle di 41 paesi. Si stima, inoltre, che le emissioni per la ricostruzione di Gaza e degli edifici distrutti in Libano dagli attacchi israeliani siano pari alle emissioni annuali di gas serra della Croazia.
Questi calcoli indicano l’urgente necessità di introdurre una rendicontazione obbligatoria delle emissioni militari, sia in tempo di guerra che in tempo di pace, nel quadro della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC).
Lo studio in questione è di grande interesse anche sotto il profilo teorico-metodologico. Adottando un approccio al tempo stresso teorico ed empirico, esso offre uno strumento utile a ricercatori, attivisti e decisori politici per comprendere in generale i costi climatici delle guerre, nella loro totalità. In questa direzione, gli autori e le autrici propongono di applicare il quadro metodologico Scope 3+: una proposta innovativa che mira a includere le emissioni indirette causate dai conflitti armati. Basandosi su questo approccio innovativo, l’indagine offre una visione più ampia rispetto a quelle consentite finora dai tradizionali protocolli di rendicontazione delle emissioni, poco attrezzati per tenere conto delle molteplici fasi e dimensioni delle attività belliche.
La prima fase di un conflitto armato, di cui tenere conto dal punto di vista climatico, riguarda la costruzione di infrastrutture militari, che richiedono materiali altamente impattanti come cemento e acciaio. Tali operazioni, condotte sia da Hamas, con la realizzazione di una fitta rete di tunnel sotterranei, sia da Israele, che ha costruito un imponente “barriera di sicurezza” conosciuta come “Muro di ferro” per impedire passaggi non autorizzati da e verso la Striscia di Gaza, generano emissioni consistenti già prima dell’inizio delle ostilità.
La produzione di cemento e acciaio comporta un utilizzo intensivo di energia e di risorse naturali, con un rilascio significativo di anidride carbonica: ogni tonnellata di cemento prodotto emette in media 180 chilogrammi di CO₂, mentre ogni tonnellata di acciaio arriva a superare una tonnellata e mezza di CO₂ equivalente.
Durante il conflitto, il contributo maggiore all’inquinamento atmosferico proviene dalle operazioni militari con l’impiego di armi e artiglieria, nonché l’utilizzo quotidiano di veicoli blindati e carri armati, particolarmente energivori. Nel caso specifico, gli attacchi aerei condotti da Israele con velivoli da combattimento avanzati come gli F-16 e F-35, noti per l’elevato consumo di carburante, hanno comportato un’intensa attività emissiva. Ogni missione con questi velivoli può consumare migliaia di litri di carburante, con emissioni superiori a quelle di un veicolo civile in un anno intero. Queste operazioni, ripetute quotidianamente per mesi, non solo rilasciano ingenti quantità di gas serra, ma contribuiscono anche alla dispersione di materiali pericolosi e alla generazione di detriti tossici.
Anche il trasporto massiccio di armamenti, il dispiegamento continuo di mezzi corazzati e l’uso intensivo di artiglieria pesante rappresentano fonti di emissione considerevoli. Nel caso specifico, le forniture militari statunitensi destinate a Israele sono state trasportate per via aerea e navale: esse comportano un’elevata intensità di carbonio per tonnellata trasportata, soprattutto nel caso dei voli cargo a lungo raggio. Inoltre, mezzi come carri armati e blindati possono consumare fino a 400 litri di carburante al giorno, aggravando ulteriormente l’impatto ambientale delle operazioni di terra. A questi si aggiunge il contributo degli aiuti umanitari: pur essendo essenziali per la sopravvivenza delle popolazioni civili, il loro trasporto su lunghe distanze e la distribuzione logistica in un territorio devastato comportano inevitabilmente un incremento delle emissioni.
A Gaza, la distruzione della rete elettrica e dei pannelli solari, che rappresentavano una parte significativa della produzione energetica locale, ha reso necessaria la dipendenza da generatori a diesel, noti per le loro alte emissioni e il basso rendimento energetico. Questo ritorno forzato a fonti altamente inquinanti ha ulteriormente aggravato la già critica situazione ambientale e sanitaria della popolazione civile, esponendola a elevate concentrazioni di inquinanti atmosferici e aumentando il rischio di malattie respiratorie.
L’allargamento del conflitto ad altri paesi della regione, come Libano, Iran e Yemen, sebbene abbia generato impatti emissivi più contenuti, ha contribuito all’instabilità climatica e ambientale su scala regionale. Ogni attacco, ogni scambio missilistico e ogni missione aerea implica un consumo energetico e una produzione di emissioni che si somma a un quadro comunque allarmante, aggravando il degrado ambientale in aree già vulnerabili.
La fase post-conflitto, infine, relativa alla ricostruzione è quella che comporta le emissioni maggiori. Le immense quantità di cemento, acciaio e carburante necessarie per rimuovere le macerie e ricostruire abitazioni, scuole, ospedali e infrastrutture pubbliche, comportano per anni un impatto ambientale elevatissimo. Questa ricostruzione, se non accompagnata da criteri di sostenibilità, rischia di perpetuare un ciclo di danni ambientali e vulnerabilità climatica. Il livello senza precedenti di distruzione che si riscontra nella Striscia di Gaza lascia prevedere un contributo notevole, in termini di aumento delle emissioni, alla già avanzata crisi climatica.
L’assenza di obblighi stringenti nella rendicontazione delle emissioni militari, sancita dalle regole dell’UNFCCC, rappresenta secondo gli autori e le autrici una grave lacuna nei sistemi di governance climatica globale. La maggior parte degli eserciti, incluso quello israeliano, non riporta dati disaggregati sulle proprie emissioni, rendendo opaco il contributo bellico alla crisi climatica. È dunque fondamentale che anche le attività militari siano integrate nei meccanismi di monitoraggio e negli obiettivi di riduzione delle emissioni.
Lo studio si inserisce in un movimento più ampio, volto a riconoscere l’impatto ambientale della guerra e a promuovere una maggiore responsabilità climatica degli attori statali. Come sottolineato da vari esperti delle Nazioni Unite e di organizzazioni internazionali, l’inquinamento generato dalle guerre non si limita a emissioni di CO₂, ma include anche la contaminazione del suolo e delle acque, la distruzione di interi ecosistemi, e pone importanti ostacoli alla gestione ambientale nei territori colpiti. Da qui l’urgenza – a partire dall’eclatante caso della Striscia di Gaza – di riconoscere e includere i costi ambientali e climatici dei conflitti armati nei quadri normativi internazionali. Ignorare il loro impatto sull’ecosistema e sul clima significa rinunciare a una comprensione integrale della crisi in atto e indebolire gli sforzi globali tesi a contrastarla.
Elisa Bontempo è laureata in Scienze per la Pace all’Università di Pisa. Attualmente collabora col Centro Interdisciplinare Scienze per la Pacen e con “Scienza&Pace Magazine”.