giovedì, Novembre 21, 2024
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Il ritorno dei Talebani, tra vecchi e nuovi rischi per il patrimonio archeologico afghano

di Omar Coloru

Per 1500 anni il principe Salsal e la sua promessa sposa Shahmama hanno vegliato sulla valle di Bamiyan in Afghanistan. Nel folklore degli Hazara, il gruppo etnico che vive in quell’area, i due grandi Buddha scolpiti nella falesia sarebbero in realtà i corpi pietrificati di questa coppia di amanti. Nel marzo 2001 i Talebani hanno distrutto queste meraviglie dell’arte col pretesto di obbedire alla loro visione iconoclasta dell’Islam e, al tempo, stesso per opprimere la minoranza hazara colpendola in uno dei suoi simboli identitari più forti. Eppure quelle nicchie vuote continuano ancora a perpetuare la memoria che i Talebani pensavano di cancellare per sempre: l’assenza di quelle figure si fa paradossalmente presenza.

Oggi, col ritorno al potere dei Talebani, i monumenti afghani tornano a essere in pericolo e, malgrado le parole di rassicurazione degli studenti coranici, non si tratta sempre di timori infondati. Se per il momento il Museo nazionale dell’Afghanistan a Kabul non ha subito danni, il mese scorso la storica fortezza di Greshk, nella provincia di Helmand, è stata distrutta con l’intenzione di costruire al suo posto una madrasa, una scuola religiosa. A Bamiyan, invece, uno dei magazzini della missione archeologica francese che stava conducendo scavi nel sito è stato saccheggiato. In questo caso, però, si tratta di individui che hanno colto l’occasione per lucrare col traffico illegale di antichità approfittando della situazione caotica causata dalla presa di potere dei Talebani. Purtroppo il peggioramento della situazione economica del paese, unito alla mancanza di un’efficace sistema di prevenzione degli scavi clandestini, fanno sì che esista il rischio concreto di assistere a un incremento degli episodi di spoliazione dei siti e di un maggiore afflusso di antichità afghane sul mercato antiquario.

L’Afghanistan non è nuovo a fenomeni di questo tipo, specialmente per la storia travagliata che ha contraddistinto il paese dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso: un esempio tristemente noto è quello del sito di Ai Khanum, nella provincia di Konduz. Si tratta di una metropoli ellenistica composta da un’acropoli e una città bassa scavata dalla missione archeologica francese tra 1964 e 1978, anno in cui i lavori dovettero interrompersi a causa della crisi politica a cui seguì la lunga guerra sovietico-afghana (1979-1989). Il sito, che aveva spazi monumentali come un teatro, un palazzo e un ginnasio, ha restituito reperti di grande valore tra statue, monili, iscrizioni, frammenti di una commedia e di un dialogo filosofico perduto di Aristotele. Dopo l’interruzione dei lavori il sito è rimasto alla mercé dei saccheggiatori col risultato che quel luogo, in cui più di due millenni fa mondo greco e mondo iranico si erano incontrati dando vita a una cultura vivace e originale, oggi non esiste praticamente più. Chi si trovasse a camminare sul luogo in cui sorgeva la città si troverebbe di fronte a un terreno che ricorda la superficie lunare a causa delle numerose buche lasciate dagli scavi clandestini: un destino dietro cui si cela un’amara ironia se pensiamo che il nome del sito, in lingua uzbeka, significa “Signora Luna”. Oggi solo i rapporti di scavo e i reperti che furono trasportati al Museo nazionale afghano a Kabul possono darci un’idea dell’importanza di questo luogo e dell’entità della perdita non solo per il paese, ma per l’umanità in generale.

In questo scenario, già di per sé scoraggiante, si deve aggiungere il fatto che il patrimonio archeologico afghano non è minacciato esclusivamente dal fanatismo religioso e dai cercatori di tesori, ma anche da interessi economici internazionali. In questo caso il sito in pericolo è quello di Mes Aynak, nella provincia di Logar, a circa 40 km a sud-est di Kabul. Già identificato agli inizi degli anni ’60 del secolo scorso, il sito di Mes Aynak sorge su un grande giacimento di rame che già nell’antichità aveva fatto la fortuna dell’insediamento. Il centro urbano, già frequentato in epoca precedente, si sviluppò intorno al III-IV secolo d.C. per raggiungere il suo apogeo tra il VI e il VII secolo d.C. Tuttavia Mes Aynak è salito agli onori della cronaca solo da poco più di dieci anni, quando nel 2007 il ministero afghano delle miniere e del petrolio ha dato in concessione alla compagnia mineraria cinese MCC i diritti di sfruttamento del giacimento di rame per un periodo di 30 anni. I lavori di estrazione porterebbero all’obliterazione di questa antica città e al suo posto rischieremmo di trovare un gigantesco cratere. Per scongiurare questo pericolo, già dal 2007 l’Istituto archeologico afghano (AIA) ha richiamato l’attenzione dei media sul tragico destino che rischiava di abbattersi su Mes Aynak e ha fatto sì che venisse organizzata una serie di scavi di salvataggio condotti in cooperazione con la delegazione archeologica francese in Afghanistan (DAFA) e poi con altri partner internazionali. L’attenzione mediatica suscitata dal caso di questo sito ha condotto anche alla creazione di un documentario girato da Brent E. Huffman, Saving Mes Aynak (2014).

Mes Aynak rappresenta senza dubbio una delle scoperte archeologiche più significative fatte in Afghanistan negli ultimi decenni. Gli scavi, pur non essendo stati condotti secondo un piano sistematico a causa della situazione di emergenza, hanno portato alla luce straordinarie testimonianze sulla società, sulla vita economica, artistica e religiosa della città. All’apice della sua espansione Mes Aynak giunse a occupare una superficie di 50 ettari e al suo interno si trovavano santuari buddhisti splendidamente decorati da pitture e sculture. Gli scavi archeologici hanno rivelato anche la presenza di quartieri residenziali, di imponenti strutture militari, di un’area destinata alla necropoli e di infrastrutture destinate alle attività di estrazione del rame. Ora il destino di Mes Aynak è incerto. L’attenzione internazionale e la sospensione delle attività estrattive cinesi hanno permesso al sito di sopravvivere, ma è difficile prevedere cosa potrà accadere nel prossimo futuro. Se la Cina farà valere il contratto, i lavori riprenderanno e in quel caso gli archeologi avranno pochissimi anni a disposizione per poter salvare il salvabile prima che il sito venga distrutto. Possiamo solo augurarci che Salsal e la sua Shahmama possano vegliare con sguardo benevolo sul destino del paese e del suo patrimonio storico.

 

Omar Coloru è ricercatore di Storia greca presso l’Università di Bari. Specialista di ellenismo orientale e di rapporti tra mondo greco-romano e mondo iranico, collabora con la Missione archeologica italiana in Pakistan.