giovedì, Aprile 25, 2024
Diritti

Il potere che soffoca. Billy Budd come metafora

di Tommaso Greco *

Il bavaglio di Billy

In quella “legal obsession” che è il Billy Budd di Herman Melville, la scena clou è quella in cui il protagonista, accusato ingiustamente e del tutto falsamente di aver ordito un ammutinamento della nave sulla quale è in servizio, non riesce a trovare le parole per difendersi, a causa dell’unico difetto che impoverisce la sua imponente figura di bellezza: quando è sotto pressione la parola gli si blocca e comincia a balbettare. Nel momento in cui il perfido maestro d’armi John Claggart lo accusa davanti al capitano Vere, Billy Budd rimane «impalato e imbavagliato». Appare come «una vestale condannata nel momento in cui sta per essere sepolta viva, e lotta contro i primi sintomi di soffocazione». Sta soffocando a tal punto, il buono ma forte Billy, che quando il Capitano, rendendosi conto delle difficoltà del suo marinaio, gli dice di fare «con calma», per lui non c’è modo di ritrovare la parola. Tutti gli sforzi sono vani, e Melville non nasconde nulla della drammaticità della scena: la paralisi conferiva al volto del marinaio «un’espressione che pareva quella di un crocifisso».

Se si ricostruisce il filo del racconto, dal momento in cui Billy viene costretto ad abbandonare la nave mercantile sulla quale viaggiava fino al punto in cui il «bel marinaio» perde la voce davanti al suo accusatore, e peraltro senza nessun avvocato che lo possa difendere, non è difficile ricondurre la vicenda sotto il segno di un potere che cerca di dominare l’elemento che gli è estraneo. La scena in cui il protagonista del racconto lascia la sua prima nave è significativa: il suo saluto al veliero — «And good-bye to you too, old Rights-of-Man» — apparirà presto come un saluto a quei Diritti di cui la nave porta il nome (e come tale quel saluto viene riportato nel film di Peter Ustinov del 1962, nel quale Billy grida semplicemente «Addio, Diritti dell’uomo!»).

Sembra, ed è, una profezia di tutto ciò che avverrà di lì in avanti. Ambientata in un’epoca di conflitti – esterni: tra l’Inghilterra e la Francia rivoluzionaria, ed interni: tra il governo e i suoi coscritti -, la storia ci appare come metafora di un potere che per evitare «la rivolta sfrenata e indomabile» degli ammutinati non può rischiare di aver a che fare con soggetti che per loro natura mostrano di non poter essere ‘dominati’. Tale appare in effetti Billy Budd: quella «specie di barbaro onesto, molto simile forse ad Adamo», dotato di «virtù primitive» che sembrano in contrasto con l’abitudine e la convenzione, non può lasciare tranquillo il potere incarnato da Claggart. Troppo innocente, troppo trasparente, troppo buono, persino troppo remissivo, Billy Budd, per non insospettire un potere che vive di sospetto e nel sospetto, un potere dallo «sguardo vigile e autoritario» e che è abituato a «stare a spade sguainate dietro agli uomini che manovravano i cannoni». Un potere che addirittura è abituato a seminare «piccole trappole» al fine di generare quel sentimento di preoccupata agitazione che è (o dovrebbe essere, negli intenti) votato a produrre un’obbedienza passiva. Un potere, infine, che non disdegna le «irregolarità legittimate» pur di raggiungere i suoi scopi: ha infatti l’abitudine di mettere al suo servizio persone di «dubbia condotta», arruolandole con «procedura sommaria», e facendo in modo che una volta arruolate si sentano «in un santuario, come i trasgressori del Medio Evo che si rifugiavano all’ombra dell’altare».

La violenza degli imbavagliatori

A cosa ci serve ricordare oggi Billy Budd? È molto semplice: a capire – e denunciare – la natura di un un potere che ti ordina di parlare mentre ti toglie il respiro. Appare troppo facile, troppo immediato, troppo giusto il riferimento a George Floyd e al suo grido strozzato? “I can’t breathe” non è forse il grido di un inerme su cui il potere incombe con tutto il suo peso? Non è il grido di un soggetto a cui il potere, letteralmente, toglie il respiro sentendosi nel pieno diritto di farlo?

Non sorprende che un potere che appare così assurdamente incontrollato scateni risposte del tutto incontrollate: come è quella di Billy Budd, che con un pugno «fulmineo come la fiammata di un cannone che spara nella notte» uccide il maestro d’armi che lo accusa; come è quella di una comunità di uomini e donne, che a causa del colore della loro pelle si sentono continuamente osservati e accusati, e che reagiscono violentemente contro un sistema che li considera sostanzialmente ‘estranei’ da assoggettare. A volte questo atteggiamento ha assunto persino forme istituzionali: basti pensare al sistema sudafricano dell’apartheid, lucidamente denunciato in quel toccante discorso in tribunale pronunciato da Nelson Mandela nell’ottobre del 1962; a volte, più frequentemente, esso si manifesta in episodi singoli che, ahi noi, non sono isolati come possono sembrare, e soprattutto rivelano un atteggiamento, una inclinazione, una mentalità. Non si può disquisire perciò sulla dismisura delle reazioni – che certamente può esserci stata – se non si ragiona a mente lucida sulla dismisura delle cause che le generano. Perché qui siamo oltre il tema weberiano dell’uso legittimo della forza; qui abbiamo a che fare con un potere che è (o quanto meno, viene percepito, e spesso a ragione) come ciò che eccede ogni sua legittima prerogativa e che ha l’ossessione del controllo di coloro che percepisce come soggetti non da custodire e proteggere, ma da ‘contenere’, controllare, ‘costringere’. Solo questo, infatti, dà sicurezza al potere: che tutti siano dominabili, soprattutto coloro che non appaiono tali.

Il nome del potere

Il “potere che soffoca” e la violenza dei soffocati sono dunque due facce di una stessa medaglia. Una medaglia che vorremmo sotterrare per sempre, ma che non saremo in grado di mettere da parte fino a quando saremo convinti che il potere, e il diritto che ne è espressione, possano coincidere con la mera possibilità di farsi valere, con la mera capacità di imporre il volere di chi comanda, con la bruta forza di cui il ‘sovrano’ è detentore. Non è, questa, una convinzione che appartiene ai soli potenti, a coloro che sono al vertice della gerarchia politica e sociale; anzi, essa è radicata proprio nella mente dei ‘dominati’, che in questo modo credono (sbagliando) di esorcizzare la natura del potere. E invece, se si dà ragione a Trasimaco pensando che «la giustizia è l’utile del più forte» non si sta facendo alcuna operazione di svelamento della vera natura del potere, non si sta “educando il popolo” come pensano gli autori realisti, ma si sta solo dando (nostro malgrado) una copertura ad un’operazione che tornerà sempre e comunque a vantaggio del potere e dei suoi detentori.

Poiché non si esce dal cerchio del potere se non nelle utopie di una impossibile società senza potere, occorre definire con precisione in cosa esso consista, ben consapevoli che ogni definizione è una legittimazione: come per tutto ciò che ha a che fare con lo studio della politica e del diritto, non ci sono infatti definizioni ‘innocenti’. Si potrà dire allora che il potere non coincide con la forza e con la violenza, e che ogni suo esercizio arbitrario non è potere ma forza e violenza? Il potere, così come il diritto, sono funzioni sociali, sono necessari ad una società che si organizza e che deve coordinare le relazioni tra i soggetti. Ad entrambi è quindi intrinseca una dimensione relazionale che passa dal riconoscimento dei soggetti che vi sono coinvolti. Più questa dimensione è dimenticata e occultata, più il potere e il diritto si spostano verso il puro dominio: diventano mero esercizio di forza. Così come non è possibile pensare ad un diritto che si regga sul solo funzionamento delle carceri e delle strutture sanzionatorie, allo stesso modo non è possibile pensare ad un potere che si regga sul mero dominio esercitato con strumenti (più o meno violenti, più o meno visibili) di controllo. Il potere deve essere legittimo, come ci ha insegnato Max Weber, di cui si è appena ricordato il centenario della morte; e non a caso esso cerca sempre il riconoscimento dei suoi sottoposti. Proprio nel momento in cui condanna Billy Budd, il potere che lo sta mandando a morte vuole ottenerne l’accettazione: «se egli conoscesse i nostri cuori — dice il capitano Vere — lo ritengo così generoso da aver simpatia perfino per noi, che il dovere militare costringe così duramente». Vuole la comprensione di George Floyd, il poliziotto che gli tiene il ginocchio sul collo; vuole persino essere compatito per il duro compito che egli sta svolgendo. Ma se l’incubo del potere è sempre il «preferirei di no!» di Bartleby lo scrivano, l’altro indimenticabile protagonista di un racconto melvilliano, allora c’è un solo modo per ottenere questo riconoscimento: far sì che tutti possano far sentire la propria voce, e che le proprie ragioni possano giungere là dove si prendono le decisioni. Quando questo non avviene, diceva Guido Calogero, si ha il dovere di disubbidire: «certamente non si deve obbedire in tutti i casi in cui un’autorità pre­senti il proprio comando come assoluto e incondizionato», scriveva il filosofo del dialogo; e questo perché «nessun ordinamento di diritto può es­sere seriamente stabilito da un’autorità, che pretenda essa medesima di sot­trarsi a ogni norma di diritto».

La domanda è antica, ed è sempre la stessa: cosa si deve fare quando il potere si trasforma in bruta violenza? Quando, come Mandela e il suo popolo, ci si trova davanti «all’assoluta mancanza da parte del governo di attenzione e considerazione» che cosa rimane da fare? Anche la risposta sembra dover essere la stessa, ed è quella del leader sudafricano: «a tale dilemma gli uomini onesti, gli uomini determinati, gli uomini di pubblica moralità e coscienza possono dare una sola risposta. Devono seguire i dettami della coscienza, indipendentemente dalle conseguenze che, per questo, potranno subire». Perché è chiaro che non possiamo dare il nostro riconoscimento a un potere che si trasforma in violenza; e questo nostro riconoscimento viene meno a cominciare dal nome che gli diamo. Un potere che soffoca è violenza e non può generare altro che violenza.

Tommaso Greco è Professore ordinario di Filosofia del diritto presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa.

* Ringrazio David Cerri per avermi invitato a tenere con lui una conversazione sul Billy Budd, svoltasi il 12 giugno 2020, nell’ambito di un ciclo di incontri di “Diritto e Letteratura” organizzato dalla Fondazione Scuola Forense Alto Tirreno.