Il Covid-19, l’Unione economica e monetaria europea e le Scienze per la pace
di Pompeo Della Posta
La solidarietà e il demos europeo
La crisi sanitaria ed economica determinata dalla diffusione del coronavirus (Covid-19) rischia di produrre conseguenze gravissime in tutto il mondo, ma in particolare all’interno dell’area dell’euro, visto che i paesi che ne fanno parte non possono contare su una propria banca centrale. La Banca centrale europea (BCE) si è comunque attivata (sia pure dopo alcune incertezze della neo-presidente, Christine Lagarde) mettendo a disposizione risorse pari a 750 miliardi di euro, aggiuntive a quelle già previste e da destinare all’acquisto di titoli di stato messi in vendita sul cosiddetto mercato secondario.
Le spese da sostenere, infatti, non possono essere coperte direttamente dalla BCE (almeno stando alla lettera del Trattato di Maastricht), sebbene siano in molti a suggerire di farlo (si veda, fra gli altri, Paul De Grauwe). Si tratta quindi di capire come finanziarle, visto che non è pensabile trovare le risorse necessarie attraverso la tassazione.
In un appello promosso insieme al collega dell’Università di Pisa Mario Morroni e ad altri colleghi italiani, auspichiamo che le spese necessarie ad affrontare l’emergenza sanitaria ed economica vengano coperte emettendo titoli comuni. Si tratta dei cosiddetti “coronabonds”, che diventerebbero espressione concreta della solidarietà europea. La soluzione peggiore, infatti, sarebbe che i singoli paesi venissero lasciati da soli ad affrontare le conseguenze della pandemia, esponendosi al giudizio del mercato: non è un buon segno, ad esempio, che l’agenzia di rating Fitch abbia declassato il debito pubblico italiano, portandolo al livello BBB-, appena sopra il livello dei famigerati junk bonds, i titoli spazzatura.
Una soluzione intermedia è data da fondi provenienti dal MES (Meccanismo europeo di stabilità). In tale caso, i singoli stati restano debitori ma questa volta non nei confronti degli acquirenti che compongono il mercato, ma del MES stesso. Ciò ha il vantaggio di assicurare tassi di interesse bassi sui prestiti ricevuti, ma implica pur sempre che il debito dovrà essere restituito. Tutto dipende, quindi, dalla “condizionalità” che è associata al prestito, vale a dire dalle condizioni alle quali dovrà essere restituito: se la restituzione dovesse essere fatta in tempi brevi è evidente, per esempio, che l’aiuto potrebbe rivelarsi una trappola, implicando la concessione di fondi oggi per poi imporre restrizioni e nuova austerità fiscale già domani. Diverso sarebbe il caso, invece, se il prestito avesse durata trentennale, cinquantennale o se fosse addirittura irredimibile (di questi aspetti più specifici parlo nel breve articolo uscito di recente su Social Europe e in quello, scritto insieme a Mario Morroni, uscito su MicroMega).
Ma quali sono le condizioni che dovrebbero essere soddisfatte affinché possa esercitarsi la solidarietà fra paesi del nord e del sud-Europa? In alcune conversazioni che ho avuto il piacere di intrattenere con Michele Grillo, un economista molto noto e stimato anche a livello internazionale, egli ha posto alla mia attenzione il fatto che la solidarietà ha un legame molto stretto con la percezione di appartenenza ad un unico demos (termine greco-antico che designa il “popolo”, da cui deriva la stessa parola “democrazia”, governo del popolo). Il suo punto di vista può essere riassunto dicendo che la solidarietà non può essere concessa in maniera indiscriminata. Devono sussistere delle condizioni affinché si manifesti. Egli individua proprio nell’appartenenza a un medesimo demos questa condizione. Fintantoché non ci sentiremo appartenenti alla stessa comunità politica, cioè finché non ci sentiremo parte di uno stesso demos, la richiesta di solidarietà difficilmente potrà essere accolta.
Non sorprende, quindi, che la solidarietà la si eserciti a livello nazionale (anche se con crescente difficoltà, proprio per il fatto di voler distinguere un “noi” – del nord, per esempio – da un “loro”, del sud), oppure in famiglia, dove l’appartenenza allo stesso nucleo garantisce per definizione molteplici forme di solidarietà e mutualità.
Allora il punto cruciale è come costruire in Europa questo demos, del quale sentiamo il bisogno in particolare in questo momento, vista la necessità di rispondere alla pandemia in corso (sembra paradossale che i termini epidemia e pandemia abbiano come radice proprio lo stesso termine di cui stiamo parlando, demos, quasi a significare che il virus attacca tutto il popolo, il che, detto in altro modo, implica che di fronte al virus dovremmo finalmente capire di appartenere tutti allo stesso demos, appunto allo stesso popolo). Quest’ultima osservazione, però, suggerirebbe che potrebbe anche esistere una dimensione più ampia di quella europea alla quale riferirci e che la solidarietà potrebbe/dovrebbe manifestarsi anche se il concetto di demos venisse ampliato ad un concetto di fratellanza universale.
Se così non fosse, infatti, vorrebbe dire che non potrebbe mai aversi solidarietà nei confronti di coloro che non appartengono al nostro popolo?
Ma è poi davvero una questione di solidarietà quella che riguarda i paesi dell’area dell’euro? Yannis Varoufakis, per esempio, sostiene che nessuna persona solidale con un’altra possa esserlo al punto da assumere un debito insieme a quest’ultima, o almeno che non è quello il modo attraverso il quale si esercita normalmente la solidarietà. Secondo lui, quindi, le ragioni dello stare insieme vanno ricercate negli interessi comuni, inclusi i vantaggi competitivi che i paesi del nord hanno nel far parte di un’Unione economica e monetaria con i paesi del sud, piuttosto che nel sentirsi parte di un unico demos.
Mutualità o assicurazione?
La solidarietà sarebbe, comunque, il modo attraverso il quale chi si sente appartenente a un medesimo demos (qualunque ne sia la dimensione) esercita la mutualità (come quella delle sodalitates di età romana), cioè l’assistenza reciproca. Perché si possa parlare di solidarietà, tuttavia, quest’ultima deve essere esercitata su base volontaria. Una tale solidarietà, quindi ha motivazioni puramente intrinseche (cioè interne) e non estrinseche e legate a convenienze e, quindi, valutazioni di mercato.
La mancanza di un demos e del senso di appartenenza all’Unione europea, cioè l’assenza di motivazioni intrinseche, permette quindi di spiegare il fatto che i paesi del nord-Europa, sebbene restii a riconoscere il loro interesse a far parte dell’Unione economica e monetaria europea, siano disposti ad accettare soltanto forme di assicurazione contrattualistica, basate sulle regole di mercato di una assicurazione privata, con le sue clausole ben note (basti pensare al bonus-malus o alla franchigia nei contratti di assicurazione delle nostre automobili). Sono disposti ad assicurare gli altri paesi, quindi, ma solo alle condizioni – prevenzione del rischio e monitoring – che permettono di evitare problemi di moral hazard, ossia di opportunismo da parte di qualcuno dei beneficiari.
Il sapere di essere aiutati e ‘garantiti’ allenta ogni attenzione ex-ante alle azioni che compiamo, facendo affidamento sull’intervento ex-postdi chi ci ha assicurato. In campo europeo la prevenzione del rischio (opposta, appunto, alla condivisione dello stesso) è realizzata attraverso le misure di contenimento ex-ante delle politiche fiscali (come i vari Stability and Growth Pact, Fiscal Compact e via dicendo) e attraverso il monitoraggio (condizionalità, report e visite periodiche) come ricordava sempre Michele Grillo nelle nostre conversazioni.
Poco importa se la situazione attuale non abbia minimamente a che fare con problemi di moral hazard, visto che il problema che abbiamo davanti non dipende da comportamenti devianti, ma da uno shock che ha colpito in maniera simmetrica l’intera Europa – sia pure con effetti asimmetrici, che dobbiamo ancora bene capire se dipendano da differenze strutturali e/o di efficienza dei diversi paesi, oppure siano dovuti a pura casualità.
È anche vero che la mutualità implica il sostegno ‘reciproco’ e anche su questo punto i paesi del Nord Europa hanno da obiettare, lamentando il fatto che il sostegno sarebbe in realtà unidirezionale, piuttosto che bidirezionale, cioè invariabilmente da nord a sud e mai viceversa. Così come essi obiettano che proprio i ‘conti in disordine’ che caratterizzano un paese come l’Italia riducono i nostri margini di intervento, per cui un qualche elemento di moral hazard permarrebbe.
Il ponte levatoio
C’è necessità, quindi, di costruire un “ponte levatoio” ideale (l’immagine è ancora di Michele Grillo), al fine di collegare la visione del Nord Europa con quella del Sud Europa.
Ma allora, ecco un tema per affrontare il quale chi si occupa di Scienze per la pace e di gestione e risoluzione dei conflitti dovrebbe disporre di un variegato armamentario (mi si perdoni l’ossimoro) da utilizzare: forse alle questioni europee si possono semplicemente applicare i concetti e gli approcci che sono propri delle Scienze per la pace al fine di individuare le condizioni che dovrebbero essere soddisfatte al fine di ricomporre conflitti e dissidi fra due parti.
Si potrebbe cominciare richiamando la necessità di esercitare empatia, vale a dire con il riconoscere le ragioni gli uni degli altri. Da un lato noi cittadini del Sud Europa dovremmo valutare i vantaggi complessivi di cui godiamo facendo parte dell’Unione europea e dovremmo pensare che forse anche noi avremmo le stesse reazioni di quelli del nord se qualcuno ci chiedesse di trasferire sui loro conti correnti del denaro proveniente dai nostri. Dall’altro lato, però, ai cittadini del Nord Europa dovrebbe essere ricordato che i saldi attivi delle loro bilance commerciali dipendono, almeno in parte, proprio dall’appartenenza ad un’unione con quelli del sud (il tema riguarda l’avere scelto di condividere la moneta, evitando così che le monete nazionali possano apprezzarsi, impedendo gli avanzi sistematici di cui hanno beneficiato).
Ma la domanda agli studiosi di Scienze per la pace e risoluzione dei conflitti (in questo caso di natura economico-sociale) resta: come si può favorire il dialogo e la comprensione reciproca? Come si può favorire la costruzione di un demos capace di fornire la motivazione intrinseca di cui abbiamo bisogno per operare in maniera solidale?
Fiducia e capitale sociale: imposizioni o suggerimenti? Controlli o moral suasion?
Un altro punto sul quale riflettere, sempre dal punto di vista del rapporto fra Covid-19 e Scienze per la Pace, credo che possa essere quello rappresentato dal ruolo svolto dalla diversa dotazione di capitale sociale che caratterizza paesi diversi. Il capitale sociale è rappresentato, se valutato in termini oggettivi e strutturali, dall’insieme di norme e istituzioni di un paese. Dal punto di vista soggettivo e cognitivo, invece è costituito dall’insieme di comportamenti e modi di essere, da network relazionali e di fiducia. Si tratta di elementi che sebbene di natura “soft” (per distinguerli per esempio da aspetti come la dotazione di fattori produttivi, la dimensione della popolazione, la tecnologia etc.), influenzano l’andamento di una economia tanto quanto gli altri e inevitabilmente svolgono un ruolo altrettanto importante nel contrasto attivato contro il coronavirus.
Ecco allora emergere la differenza fra un modello italiano del tipo “guardie e ladri”, dove c’è un “super-io”/elicottero che controlla le pulsioni istintive di un ”es”/runner sulla spiaggia, una immagine che ha molto colpito il nostro immaginario (o almeno ha colpito il mio) in questi giorni di quarantena forzata in Italia, contrapposto a un modello scandinavo, nel quale un “io” intermedio fra il “super-io” e l’“es” riesce a trovare dentro di sé le ragioni per comportamenti virtuosi e rispettosi delle esigenze degli altri.
Anche questo non può che stimolare altre domande: che ruolo gioca questa diversa struttura comportamentale? È preferibile, ad esempio dal punto di vista dell’efficienza, un contesto sociale nel quale prevalgono le motivazioni intrinseche proprie del modello scandinavo, alimentate dalla fiducia reciproca (trust), per cui non c’è bisogno di imporre norme coercitive per essere certi che ciascuno opererà in senso kantiano, guidato dalla propria coscienza nel rispettare le necessità di protezione degli altri suoi concittadini? Oppure quello secondo il quale quel modello non ha semplicemente possibilità di esistere e la norma viene introdotta e ne viene imposto il rispetto in maniera coercitiva al fine di evitare comportamenti da free rider propri dei giochi non cooperativi, che appunto nell’assenza di regole conducono inevitabilmente a “soluzioni Pareto inefficienti”, il cui esempio più noto è quello del dilemma del prigioniero?
Quanto dolore, quanti costi e quante domande suscita questo virus…
Pompeo Della Posta è professore associato di Economia Politica all’Università di Pisa e Direttore di “Scienza e Pace / Science and Peace”, la rivista online del Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace”. Si occupa di politica monetaria internazionale e finanza pubblica, globalizzazione e diseguaglianze. Email: pompeo.della.posta@unipi.it