martedì, Dicembre 24, 2024
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La guerra della Russia all’Ucraina alla luce della Teoria dei Giochi

di Pompeo Della Posta

 

Nel 1944, negli Stati Uniti, fu pubblicato un libro che determinò la nascita di una nuova disciplina di studi, a cavallo fra la matematica, l’economia e la scienza politica. Si trattava di “Theory of Games and Economic Behavior” (“Teoria dei giochi e comportamento economico”) e gli autori erano John Von Neumann e Oskar Morgenstern. Lavoravano a Princeton, nel New Jersey, all’Institute for Advanced Studies, dove anche Albert Einstein si trovava in quegli anni, avendoci lavorato dal 1933 fino alla sua morte, avvenuta nell’aprile del 1955. Fra gli altri, Albert Hirschman, economista politico di grande spessore – e fratello di Ursula Hirschmann, moglie prima di Eugenio Colorni e poi, alla sua morte, di Altiero Spinelli – vi avrebbe lavorato in anni più recenti.

Oskar Morgenstern era un economista, mentre John von Neumann era un fisico e matematico dalle grandi capacità, che in quegli anni collaborava anche con il progetto Manhattan, quello che si prefiggeva la costruzione della bomba atomica. Si parla di lui come di una delle possibili personalità a cui si riferiva Stanley Kubrik nel suo film “Dr. Strangelove or: How I learned to Stop Worrying and Love the Bomb” (il titolo italiano era “Dr. Stranamore, ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba”). John von Neumann sarà il supervisore del lavoro di dottorato di un altro illustre studioso dell’Institute for Advanced Studies, John Nash jr., il cui nome è legato al famoso “equilibrio di Nash”, che tutti gli studenti del primo anno di Economia imparano quando viene insegnato loro il “dilemma del prigioniero” e la cui vita viene ricostruita nel film “A beautiful mind” (nel gioco del “dilemma del prigioniero”, i due prigionieri, nel tentativo di beneficiare di una legislazione premiale, si denunciano a vicenda, finendo così entrambi in galera per un numero di anni superiore rispetto al caso in cui avessero cooperato, mantenendo fede al patto siglato inizialmente di non denunciarsi).

La vicinanza della data di nascita della teoria dei giochi (1944) con il lancio delle due bombe atomiche finora sganciate su una popolazione (1945) non è casuale. Vale la pena domandarsi, nel caso non lo avessimo mai fatto, per esempio, perché sia stato ritenuto necessario lanciare ben due bombe atomiche perché venisse decretata la fine della Seconda guerra mondiale. Perché raddoppiare il numero delle vittime atomiche giapponesi,  stimato in 250.000? Non era forse sufficiente avere raso al suolo istantaneamente il 90% degli edifici di Hiroshima per convincere i giapponesi alla resa? 100.000 vite umane in pochi istanti, in aggiunta ai milioni di morti già causati da anni di guerra, non erano sufficienti?

Fra le spiegazioni possibili c’è senz’altro quella, alquanto cinica, che essendo le due bombe una all’uranio e l’altra al plutonio, si voleva testare quale delle due funzionasse meglio, quale fosse più distruttiva.

Ma c’è un’altra spiegazione piuttosto diffusa e condivisa. Vale a dire che se la prima bomba era destinata ai giapponesi, in modo da indurli a firmare la resa incondizionata, la seconda era rivolta ai russi, fra l’altro fermandoli proprio mentre stavano per attaccare il Giappone e rendendo così impossibili eventuali pretese territoriali future da parte loro in quella parte di pianeta.

Il lancio strategico della seconda bomba atomica segnava, così, l’inizio della Guerra Fredda che caratterizzerà i decenni seguenti, fino alla “Rivoluzione di velluto” del 1989, con la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione della cortina di ferro, salvo dover riconsiderare quanto sta accadendo in queste ore.

Non è difficile, né troppo ardito, dunque, intravedere nella teoria dei giochi la matrice teorica che sta dietro alla decisione di utilizzare l’arma atomica (nonostante la presa di posizione di Einstein, il quale si era reso conto fin dal 1938 delle potenzialità distruttive degli ordigni nucleari, pur avendo contribuito, sottovalutandole inizialmente, a fornire le basi teoriche necessarie all’approdo finale verso la fissione nucleare. La posizione di Einstein culminerà poi nel manifesto Einstein-Russel del 16 febbraio 1955 per scongiurare la guerra nucleare).

Questo preambolo credo che sia funzionale a sottolineare come anche la guerra lanciata dalla Russia di Putin contro l’Ucraina possa trovare una interpretazione in termini di teoria dei giochi.

Forse alcuni  ricorderanno i vecchi film  “La vita è una cosa meravigliosa” del 1946 e “Mary Poppins” del 1964 (faccio ancora riferimento ad opere cinematografiche, perché credo che possano aiutare a comprendere meglio il concetto di “aspettative autorealizzantisi” e quello di “equilibri multipli” di cui mi appresto a scrivere). In ciascuno di questi due film vi è una scena di “bank run” (“corsa agli le sportelli”), una situazione nella quale si innesca una spirale di sfiducia nella capacità di una banca di restituire i soldi dei risparmiatori che essa detiene. Il punto però è che, in presenza di una corsa agli sportelli, le banche falliranno inevitabilmente, perché non potranno mai essere in grado di restituire tutti insieme i soldi dei risparmiatori, per il semplice fatto che esse non li detengono in forma liquida. Le banche detengono in riserva, disponibile ad essere ritirata, solo una frazione dei depositi, sufficiente per le normali richieste di ritiro. Il resto di quei soldi è impegnato nell’attività propria delle banche, quella cioè che riguarda il credito che le banche concedono all’economia, i prestiti agli imprenditori e alle società che ne fanno richiesta.

Ma quello dei tempi normali è l’equilibrio “buono” (per dirla con Draghi), quello cioè in cui i depositanti richiedono i soldi alla banca per le loro normali necessità e la banca non fallisce. Cosa succede, invece, se i depositanti temono di non poter riavere i loro depositi e tutti insieme si mettono a correre per anticiparsi gli uni con gli altri? Succede che il loro timore si autoavvera, proprio a causa del loro comportamento! L’equilibrio “cattivo” si manifesta, caratterizzato da corsa agli sportelli dei depositanti e fallimento della banca. In quest’ultimo caso, dunque, avviene ciò che nella letteratura economica inglese viene definito come “self-fulfilling prophecy” (“profezia autorealizzantesi”). Forse un’altra immagine che può essere utile richiamare è quella della nota canzone di Roberto Vecchioni, “Samarcanda”: “Cosa ci facevi l’altro ieri là?”, chiede la signora in nero con la falce al soldato, il quale, credendo di averla vista fra la folla due giorni prima in un’altra città, salta a cavallo e corre a Samarcanda, proprio dove la morte lo aspettava. È il suo stesso timore che lo porta a Samarcanda, dove non sarebbe mai andato altrimenti.

Ma torniamo agli equilibri multipli e alle bank runs. Quale soluzione è stata trovata, nei mercati finanziari, per interrompere il circolo vizioso delle aspettative autorealizzantisi e per fare in modo che prevalesse l’equilibrio “buono” su quello “cattivo”? È stata creata una istituzione, il “prestatore di ultima istanza” (“lender of last resort”), solitamente la banca centrale, pronta a dare tutta la liquidità necessaria a garantire i mercati. La banca centrale si assume, quindi, la responsabilità di monitorare il funzionamento dei mercati finanziari e di garantire i soldi dei  depositanti, e così facendo li rassicura ed evita che si diffondano situazioni ingiustificate di panico. Nessuno ritira soldi e la banca continua la propria attività regolarmente.

Allora eccoci finalmente arrivati al punto. Perché a mio avviso quanto precede ha molto a che vedere con ciò che di terribile sta accadendo fra Ucraina e Russia, che rappresenta un ulteriore esempio di equilibri multipli e aspettative autorealizzantisi (ciò che nella disciplina delle Relazioni internazionali va sotto il nome di “security dilemma” (“dilemma della sicurezza”), di cui uno dei primi esempi è dato dalla cosiddetta “trappola di Tucidide”): l’Ucraina temeva l’invasione russa e proprio per questa ragione aveva cercato l’ombrello della Nato, avendo tutto il diritto e tutte le ragioni per farlo, sia chiaro. La Germania e la Francia, fra gli altri, si opponevano a questo, però, perché riconoscevano che proprio tale comportamento avrebbe potuto indurre il risentimento russo, che avrebbe potuto anche sfociare nella tragedia a cui stiamo assistendo. Ma l’Ucraina, terrorizzata dal rischio di una invasione russa (ancora una volta, avendone tutte le ragioni, visto che nessuno poteva garantirle che ciò non sarebbe mai potuto succedere), ha cominciato a correre, come quei depositanti che temevano di non riavere i propri soldi e come il soldato della canzone di Vecchioni. Così facendo, ha determinato, paradossalmente, proprio l’esito che temeva: l’equilibrio “buono”, di un’Ucraina che non cerca la protezione Nato e della Russia che non la attacca, ha lasciato il posto a quello “cattivo” che è sotto i nostri occhi.

La corsa dell’Ucraina avrebbe potuto essere prevenuta se solo fosse stato possibile rassicurarla in maniera credibile, se fosse stato possibile avere, così come nel caso delle corse agli sportelli, un lender of last resort, che in questo caso potremmo meglio chiamare “defender of last resort”, che avesse garantito che un attacco nei suoi confronti non sarebbe mai potuto avvenire o che, se si fosse verificato, una protezione forte e credibile sarebbe stata immediatamente attivata. L’Ucraina cercava questa rassicurazione nella Nato, che però era proprio ciò che Putin non voleva, temendo a sua volta di poterne subire un attacco.

Chi o cosa avrebbe potuto fornire, invece, questa garanzia? Non è per niente facile trovare una risposta a questa domanda e non è neanche detto, purtroppo, che una risposta valida e credibile esista. Una via possibile è quella rappresentata da una qualche forma di impegno solenne assunto dalla comunità internazionale nella protezione di chi accetta di rinunciare ad altre forme dirette di garanzia potenzialmente divisive (come la Russia ritiene che sia l’adesione alla Nato di un paese suo confinante). Un tale impegno, quindi, dovrebbe/potrebbe coinvolgere in qualche modo le Nazioni Unite con i suoi caschi blu e/o gli eserciti congiunti del resto del mondo comunque riuniti sotto le insegne delle Nazioni Unite, anziché della Nato. Sebbene ci sia chi ritiene che l’equilibrio che ne risulterebbe sarebbe intrinsecamente instabile in quanto la promessa di difendere il paese sotto attacco non sarebbe credibile (Walt, 2022), credo che questa via meriterebbe comunque di essere esplorata, al fine di individuare le condizioni che garantirebbero la credibilità di una protezione (ci si dovrebbe domandare, per esempio, cosa è che renderebbe invece credibile l’ombrello NATO, rappresentato dall’art. 5 del trattato, nei confronti dei paesi che ne fanno parte, per comprendere se sia possibile coniugare un tale livello di garanzia con la non appartenenza alla NATO stessa).

Ciò che trapela dai resoconti sui negoziati di pace di questi giorni fra Russia e Ucraina, effettivamente, conferma la difficoltà di individuare forme di garanzie per l’Ucraina sufficientemente credibili. E allora, ammettiamo pure che questa via non sia percorribile a causa della mancanza di credibilità di qualunque garanzia esterna. Se così fosse, quindi, resterebbe almeno un’altra strada potenzialmente percorribile per dotarsi di un “defender of last resort”, rappresentata─ può sembrare un paradosso─ proprio dalla scelta di rinunciare volontariamente a qualunque difesa militare, scegliendo la nonviolenza. Come argomenta uno dei sostenitori di questa via, nel rinunciare apertamente ad una resistenza violenta i membri della parte avversa vengono trattati “come esseri umani” e posti di fronte al peso e alla responsabilità morale delle proprie azioni, obbligandoli così a riconsiderarle (Christoyannopoulos, 2022). Del resto, Stephan and Chenoweth (2008) non solo argomentano come reagire a forme di resistenza non violenta possa risultare molto più costoso per le controparti rispetto all’opposizione a forme di resistenza violenta, ma mostrano anche come nel periodo 1900-2006, la resistenza strategica non violenta (quindi non necessariamente basata su principi etici e morali, come invece, per esempio, quella esercitata da figure come il Mahatma Gandhi o Martin Luther King Jr.), sia stata efficace nel 53% dei casi, da confrontare con il 26% di efficacia nel caso di campagne di resistenza violenta.

L’Ucraina avrebbe potuto/dovuto accettare, quindi, fin da subito lo status di paese neutrale, nella fiducia che tale neutralità fosse di per se stessa sufficiente a garantire la pace, un po’ come è stato il caso della Svizzera nella Seconda guerra mondiale o come quello, spesso citato, della Finlandia, paese confinante con la Russia. Ma naturalmente, come ricordano molti sostenitori della tesi del sostegno militare da offrire all’Ucraina, questa è una scelta che non può essere imposta agli ucraini. E, credo che debba essere riconosciuto, forse può apparire anche un po’ tardiva la richiesta fatta agli ucraini oggi di resistere in maniera nonviolenta, senza combattere. Probabilmente ci si dovrebbe essere adoperati per tempo per favorire questa consapevolezza da parte loro. Lo si dovrebbe aver fatto già molti anni addietro, quando chiedevano di entrare nella NATO, addirittura incoraggiati da posizioni probabilmente avventate come quella di George Bush Jr. che ha condotto alla cosiddetta “Dichiarazione di Bucarest” del 2008, con la quale si stabiliva che Georgia ed Ucraina sarebbero entrate nella NATO (pare che sia stata la cancelliera tedesca Angela Merkel ad impedire che l’impegno fosse cadenzato temporalmente e in tempi ravvicinati, proprio nel timore della reazione russa). Forse può essere tardi pensare di farlo ora, nel mezzo del conflitto armato.

L’eventuale scelta di neutralità da parte dell’Ucraina permetterebbe però anche di chiarire se l’origine dell’intervento russo sia davvero da ricercare nel timore di una minaccia alla propria sicurezza militare o se, come molti osservatori invece ritengono, risieda nel tentativo di ricostruire gli antichi confini dell’URSS seguiti agli accordi di Yalta o addirittura quelli della Russia zarista (il che potrebbe anche trovare una conferma nelle pretese russe sulle repubbliche auto-proclamatesi indipendenti del Donetsk e Lugansk).

Va da sé che se davvero fosse questo il caso, il modello degli equilibri multipli ed autorealizzantisi ed il “security dilemma” considerati finora non avrebbero molto da dire. Ma chissà se, anche in questo caso, la scelta della resistenza non violenta non risulti – ancora una volta, paradossalmente – quella che dispone di più frecce al proprio arco.

 

Pompeo Della Posta insegna Economia Politica alla Belt and Road School, presso la Beijing Normal University a Zhuhai (Cina), è membro del Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace” e Direttore della rivista online del Centro, “Scienza e Pace / Science and Peace“.

 

Riferimenti bibliografici

Christoyannopoulos, Alexandre (2022), “Ukraine: nonviolent resistance is a brave and often effective response to aggression”, The Conversation, March 4, 2022. Ukraine: nonviolent resistance is a brave and often effective response to aggression (theconversation.com)

Stephan, Maria J. e Erica Chenoweth (2008), “Why Civil Resistance Works. The Strategic Logic of Nonviolent Conflict”,  International Security, Vol. 33, No. 1 (Summer 2008), pp. 7–44.

Walt, Stephen M. (2022), “An International Relations Theory Guide to the War in Ukraine A consideration of which theories have been vindicated—and which have fallen flat”, Foreign Policy, March 8, 2022. An International Relations Theory Guide to Ukraine’s War (foreignpolicy.com).

 

Una prima versione ridotta di questo articolo è apparsa su Euractiv, il 4 marzo 2022. L’autore ringrazia Marco Chiletti, Fulvio Corsi e Giorgio Gallo per i commenti a versioni diverse di questo articolo, senza implicarli in alcun modo in quanto scrive, né in eventuali errori od omissioni da parte sua.