Di voi non c’è traccia. Violazioni del diritto d’asilo lungo la rotta balcanica
di Salomè Archain e Olga Cardini
Le violazioni dei diritti umani e i respingimenti illegali che i richiedenti asilo subiscono sistematicamente nel tentativo di entrare nell’Unione europea attraverso la Rotta balcanica sono una realtà oramai ampiamente documentata. Tuttavia, raramente è possibile per i migranti respinti accedere alla tutela giurisdizionale a cui avrebbero diritto. Attraverso lo strumento di cooperazione delle ‘riammissioni informali’ con accompagnamento coattivo nello Stato confinante, infatti, non solo una procedura limitativa della libertà personale viene sottratta alla regolare procedura di convalida da parte dell’autorità giudiziaria, ma l’assenza di formalità rende i migranti invisibili, bloccati nell’orbita delle prassi delle autorità di frontiera. Di loro non c’è traccia.
Ogni tanto, però, qualcuno ci riesce o quantomeno ci prova.
All’inizio di quest’anno, l’ordinanza del 18 gennaio 2021 n. 5642/2020 del Tribunale di Roma esprimendosi su un ricorso cautelare presentato da un cittadino pakistano che aveva dichiarato di aver subito la prassi delle ‘riammissioni informali’, ha accertato l’illegittimità di tali procedure messe in atto dalle autorità di frontiera italiane ai danni dei migranti provenienti dalla penisola balcanica.
Nello specifico, il ricorrente aveva raccontato di essere giunto a Trieste con un gruppo di altri cittadini pakistani e che tutti avevano manifestato la volontà di presentare domanda di protezione internazionale di fronte alle autorità – sia italiane che degli altri paesi di transito -, rimanendo tuttavia inascoltati. Poche ore dopo, era stato caricato su un furgone con altre persone e giunti in una zona collinare, era stato a tutti intimato di iniziare a correre “dando il tempo della conta fino a 5”, sotto la minaccia di bastoni. Dopo circa un chilometro, i migranti erano stati tutti fermati dagli spari della polizia slovena che li aveva a sua volta arrestati e caricati su un furgone, per respingerli in Croazia; qui erano stati ammanettati e malmenati con manganelli avvolti con filo spinato e poi accompagnati alla frontiera con la Bosnia, dove era stato loro intimato di correre “dopo un conto alla rovescia a partire dal 5 e 3 colpi sparati in aria”. In Bosnia, il ricorrente aveva dichiarato di essere stato abbandonato in aperta campagna e che a piedi era giunti a Sarajevo, dove aveva trovato rifugio in un edificio abbandonato.
In considerazione del trattamento subito, il ricorrente chiedeva al Tribunale di Roma che venisse accertato il suo diritto a presentare domanda di protezione internazionale in Italia, consentendo quindi il suo ingresso nel territorio al fine di accedere alla procedura di esame della sua domanda, stante l’illegittimità della condotta materiale delle autorità italiane. Di conseguenza, il Tribunale di Roma in composizione monocratica ha considerato fondata la pretesa del ricorrente e ha ordinato al Ministero dell’Interno di autorizzare l’accesso immediato del richiedente nel territorio italiano, riconoscendo peraltro come verosimili i trattamenti inumani e degradanti a cui egli era stato sottoposto e considerando comprovato il suo racconto da numerose fonti.
Nelle more del giudizio, il ricorrente ha ottenuto il visto di ingresso in esecuzione del provvedimento cautelare ed è arrivato in Italia il 9 aprile 2021. Tuttavia, appena è stato foto segnalato e sottoposto a identificazione attraverso l’acquisizione delle impronte digitali, i suoi dati non risultavano registrati nel sistema Afis, mentre dalla consultazione del sistema Eurodac risultava una domanda di protezione internazionale presentata in Grecia nel 2016. Il Ministero dell’Interno ha presentato allora reclamo avverso il provvedimento del Tribunale di Roma, eccependo il difetto di legittimazione attiva del ricorrente, fondato sostanzialmente sulla “totale assenza di traccia alcuna del suo passaggio”, che non risultava né alle autorità italiane né a quelle slovene.
Con ordinanza del 3 maggio 2021 il Tribunale di Roma, in composizione collegiale, ha accolto il reclamo proposto dal Ministero dell’Interno, ritenendo che il ricorrente non avesse provato, nell’ambito di un giudizio di urgenza, di avere personalmente fatto ingresso in Italia e successivamente, di aver subito un respingimento informale verso la Slovenia. Diversamente, il Giudice di prima istanza aveva ritenuto che i trattamenti subiti dal ricorrente potessero considerarsi provati secondo gli standard di prova necessariamente attenuati tipici dei procedimenti cautelari, in quanto: “oltre che trovare riscontro nella documentazione depositata, il racconto del ricorrente trova(va) riscontro nelle più autorevoli fonti internazionali e nella stessa risposta data dal Ministero degli Interni all’interrogazione parlamentare presentata in ordine alle prassi seguite in ‹attuazione› dell’accordo bilaterale di riammissione sottoscritto con la Slovenia nel 1996 e mai ratificato dal Parlamento italiano”. La recente ordinanza, dunque, si è espressa unicamente sull’assenza del fumus boni iuris e non sulla ricostruzione dell’ordinanza reclamata circa i profili di illiceità delle procedure di riammissione attuate in forza dell’accordo di riammissione, “la cui eventuale illegittimità” come riportato nelle conclusioni del Collegio “non rileva(va) ai fini del decidere”.
In attesa degli ulteriori sviluppi della causa, appare pertanto opportuno provare ad approfondire il nocciolo duro di tale vicenda giudiziaria: il fenomeno dei respingimenti informali dei migranti e richiedenti asilo lungo la Rotta balcanica.
Con riferimento all’accordo tra Italia e Slovenia, il Governo italiano ha ammesso tali condotte, sostenendo però di eseguire le riammissioni (leggi: respingimenti) legittimamente, sulla base di questo controverso accordo di cooperazione che consentirebbe esplicitamente alle autorità di frontiera italiane di non emettere un provvedimento formale di espulsione o respingimento in caso di migranti intercettati durante l’attraversamento irregolare dei confini in provenienza dalla Slovenia (art. 6 dell’accordo). Secondo l’ordinanza del gennaio 2021 del Tribunale di Roma, tale procedura sarebbe invero illegittima sotto diversi profili. Innanzitutto, poiché potenzialmente lesiva, quando dimostrato, del diritto di asilo. La normativa europea, infatti, non prevede deroghe all’obbligo degli Stati di registrare le domande di protezione internazionale e in base a quanto stabilito dalla Direttiva 2013/32/UE (direttiva procedure) gli Stati membri “provvedono affinché chiunque abbia presentato una domanda di protezione internazionale abbia un’effettiva possibilità di inoltrarla quanto prima”. A tal fine, secondo quanto riportato nel preambolo della Direttiva procedure “è opportuno che i pubblici ufficiali che per primi vengono a contatto con i richiedenti protezione internazionale, in particolare i pubblici ufficiali incaricati della sorveglianza delle frontiere terrestri o marittime o delle verifiche di frontiera, ricevano le pertinenti informazioni e la formazione necessaria per riconoscere e trattare le domande di protezione internazionale”. In secondo luogo, appare comunque necessario sottolineare che la procedura ‘informale’ di riammissione subita dal ricorrente nel caso in esame sarebbe illegittima anche se attuata indiscriminatamente nei confronti di tutti i cittadini stranieri entrati irregolarmente nel territorio nazionale e non intenzionati a presentare domanda di protezione internazionale. Infatti, attraverso l’utilizzo di tale procedura sarebbe celato un respingimento collettivo illegittimo fuori dall’Unione europea con la sottoposizione dei migranti, peraltro, ai trattamenti inumani e degradanti come largamente documentato dai numerosi report di denuncia effettuati da chi opera su tali territori.
La decisione del Tribunale di Roma sull’illegittimità delle procedure informali di riammissioni non è peraltro isolata.
Già nel luglio 2020 un Tribunale amministrativo sloveno aveva ordinato al Ministero dell’Interno di riammettere nel territorio un richiedente asilo per consentirgli di presentare domanda di protezione internazionale. La vicenda era sostanzialmente analoga a quella dichiarata dal cittadino pakistano nel caso deciso dal foro romano, così come il contenuto dell’accordo di cooperazione che aveva fondato la riammissione del richiedente: giunto in Slovenia, il ricorrente era stato trattenuto in una stazione di polizia per due giorni e non gli era stata data la possibilità di presentare domanda di asilo, nonostante avesse avanzato tre richieste verbali. In seguito, egli era stato “riammesso” in Croazia senza formalità, sulla base di un accordo di riammissione sussistente tra questi due Stati.
Sulla stessa linea d’onda si colloca la recentissima decisione di un Tribunale regionale austriaco che, a luglio 2021, ha riconosciuto il diritto a presentare domanda di protezione internazionale in Austria ad un richiedente asilo che aveva denunciato di essere stato illegalmente deportato dalle autorità austriache in Slovenia e da lì poi “a catena” in Croazia e in Bosnia-Erzegovina. Lo stesso tribunale amministrativo riconosce che “vista la procedura descritta” i respingimenti sono “a volte metodicamente usati in Austria” e celano quindi un meccanismo di violazione del diritto di asilo largamente utilizzato dalle autorità ai confini terrestri.
L’impatto di queste decisioni si inserisce poi in un contesto più ampio e complesso: da un lato la Slovenia ha appena cominciato i sei mesi di presidenza del Consiglio dell’Unione europea (da luglio 2021), pertanto la militarizzazione e l’aumento del controllo delle frontiere resteranno una priorità, dall’altro la Corte europea dei diritti dell’uomo continua a tenere d’occhio le prassi degli Stati membri alla frontiera. Al riguardo, la Corte è appena intervenuta con sentenza dell’8 luglio 2021, stabilendo che i respingimenti effettuati dall’Ungheria, in base ad un regolamento interno, violano il divieto di espulsioni collettive. Una decisione di condanna in materia di respingimenti era stata emessa anche nella sentenza M.K. e altri c. Polonia del 23 luglio 2020, con la quale la Polonia era stata ritenuta responsabile per il respingimento di alcuni cittadini ceceni. Anche in questo caso era emerso che la condotta di non prendere in carico le domande di asilo e successivamente deportare le persone in Bielorussia non rappresentava un caso isolato, bensì una prassi costante delle autorità di frontiera polacche.
Alla luce di queste recenti decisioni giurisprudenziali, il livello di tutela del diritto di asilo alla frontiera europea appare dunque ormai fortemente inadeguato, nonostante i chiari indici di illegalità denunciati a più voci e riportati adesso nero su bianco in numerosi provvedimenti delle Corti nazionali e sovranazionali. La necessità di un monitoraggio minuzioso sulla violazione dei diritti fondamentali dei migranti alla frontiera sembra drammaticamente opportuno, anche se tardivo. Eppure, l’affanno degli Stati nel cercare di limitare l’immigrazione irregolare non accenna ad arrestarsi, neanche di fronte ad un diritto, quello di asilo, che non prevede limiti o eccezioni e la cui garanzia è ribadita ogni giorno da nuove sentenze con le quali, un passo alla volta, si restituisce in parte dignità ad alcuni dei ricorrenti, perché la moltitudine spaventa e degli altri, tanti uomini e donne, si preferisce ‘non tenere traccia’.
Il presente contributo è stato rielaborato e aggiornato a partire dall’articolo intitolato “L’ineffettività del diritto d’asilo alla frontiera. Fra prassi informali e diritti negati”, pubblicato su L’altro diritto. La rivista, fascicolo 5/2021, reperibile online qui.
Salomè Archain è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università degli studi di Firenze. Email: salome.archain@unifi.it
Olga Cardini è dottoranda presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università degli studi di Firenze. Email: olga.cardini@unifi.it