giovedì, Novembre 21, 2024
Salute

Sette principi razionali per affrontare il contagio

La nuova ondata della pandemia ci ha travolti lasciandoci impreparati: le misure di sicurezza e di controllo messe in atto per permettere di convivere con il virus non sono risultate abbastanza efficienti. Paolo Giordano e Alessandro Vespignani, in quest’articolo pubblicato sul Corriere della Sera, individuano gli elementi che hanno portato a una situazione molto diversa da quella perseguita e auspicata. Mettono, inoltre, in evidenza come un approccio improntato all’agire in emergenza, solo quando è strettamente inevitabile, per rendere le varie restrizioni ammissibili dalla popolazione, abbia portato all’aggravarsi della situazione. Individuano, quindi, sette principi da seguire per passare a un “regime della prevedibilità”, almeno parziale.

 

di Paolo Giordano, Alessandro Vespignani

 

Abbiamo vissuto in una fantasia. Una fantasia in cui il sistema di monitoraggio e i protocolli e le infrastrutture create nei mesi scorsi, uniti ai dispositivi di protezione individuali e a tutto il resto, ci avrebbero garantito una convivenza con il virus, senza avvicinarci al collasso.

Alla luce di quanto è già successo — non di quanto sta per succedere — possiamo ammettere che «convivere con il virus» è stato uno slogan promettente, ma che la realtà ci sta dicendo altro. Ovvero che il virus è molto più efficiente della nostra idea di efficienza.

Affermarlo non costituisce uno sgravio di responsabilità per nessuno: le responsabilità politiche esistono e sono determinanti, come determinanti sono quelle di chi ha perpetuato una comunicazione volta, più che all’orientamento, al disorientamento dell’opinione pubblica (e della politica stessa). Ma questo, ormai, l’abbiamo capito.

La novità spiacevole è un’altra: se la progressione dei contagi si rivela simile a Milano e in Valle d’Aosta, in Italia e in Francia e in Germania, con le differenze di dinamiche della popolazione, numeri, gestione della sanità e quant’altro, significa che non è solo la guida a essere difettosa, ma che difettosi sono anche certi principi sui quali è stata impostata la nostra ipotetica «convivenza».

Lo scenario, prefigurato già da molti in primavera, di un’altalena tra libertà condizionata e possibili lockdown, ha guadagnato in probabilità. Non è quello che vogliamo ascoltare, non è affatto quello che ci va di immaginare, ma a questo punto va preso in considerazione, perché le mezze verità e le delicatezze sono dannose, il wishful thinking è dannoso, e il pensiero a corto raggio, soprattutto quello, è dannoso.

Finché non siamo in grado di escludere dalla discussione gli elementi di buon augurio — a partire da certi annunci spregiudicati sul vaccino —, non avremo un approccio razionale al contagio.

E se qualcuno ritiene il contrario, che l’approccio finora sia già stato razionale, be’, no, niente affatto. L’approccio fino a qui è stato fondato sull’«inevitabilità»: agire solo quando il contesto lo rendeva inevitabile, agire solo quando la gravità della situazione faceva apparire le restrizioni giustificabili alla maggioranza della popolazione. Che prima di intervenire «le persone» avessero bisogno di vedere i reparti d’ospedale pieni, veniva ripetuto già a febbraio e marzo in tutte le unità di crisi del mondo, quando gli scenari imponevano di muoversi subito.

Di recente, perfino Angela Merkel ha ribadito lo stesso concetto. È comprensibile: attendere che i cittadini abbiano la disposizione emotiva adatta a capire perché viene presa una determinata decisione è un principio democratico, forse fa addirittura parte dei nostri valori condivisi. Peccato che non funzioni nella situazione in cui ci troviamo, peccato che lo abbiamo sperimentato dolorosamente già una volta. Se si aspetta che «le persone» abbiano la percezione viva del pericolo, significa che è già molto molto tardi.

Se, in più, quelle persone vengono costantemente bombardate da informazioni contrastanti, la percezione collettiva del rischio sarà sempre più lenta da raggiungere.

Non è inusuale che le decisioni politiche assennate divergano dal consenso allargato, ma la divergenza non è mai stata accentuata come negli ultimi mesi. Chi è alla guida dovrebbe esserne consapevole, e farsene carico.

Il sacrificio della propria popolarità è purtroppo indispensabile alla causa. Perché quanto stiamo attraversando è immensamente più grande e importante della popolarità di chiunque.

Il secondo round l’abbiamo perso.

Non l’abbiamo perso domenica scorsa né con il primo Dpcm, e forse neppure a settembre, quando esisteva ancora una possibilità oggettiva di arrestare l’accelerazione: l’abbiamo perso in tutta l’impreparazione con cui ci siamo arrivati, a settembre. La seconda ondata è già tristemente a carico del personale sanitario (a proposito, perché non si parla più di scudo penale per i medici?), e questo è sinonimo di fallimento del sistema. Mentre loro se ne occupano, conviene che noi prolunghiamo l’orizzonte temporale e ci prepariamo per l’inverno che abbiamo di fronte, stabilendo fin da ora un’agenda e pretendendo che venga attuata subito.

Ma per stabilire una strategia razionale occorre anzitutto concordare su alcune verità di fatto, troppo spesso messe in dubbio, esplicitamente o meno, nelle ultime settimane.

Le riepiloghiamo qui:
il virus non è meno pericoloso che in primavera;
quando crescono i casi, crescono anche le ospedalizzazioni, le terapie intensive e i decessi, solo in ritardo;
se la mortalità viene mantenuta al minimo quando gli ospedali lavorano in efficienza, appena entrano in affanno è plausibile che torni a salire;
gli asintomatici e i presintomatici sono contagiosi e vanno tracciati, altrimenti tanto vale mettersi una benda sugli occhi e sperare in Dio;
la tendenza alla crescita esponenziale ci sarà sempre, è nella natura moltiplicativa del contagio, ci sarà con o senza mascherine, con o senza plexiglas, è un rischio insito in ogni forma di assembramento e non la si può cancellare, tutto quel che si può fare è mitigarla;
senza mitigazione arriverà comunque il momento in cui i contagi cresceranno più rapidamente delle risorse sanitarie;
quando la sanità viene travolta, vengono travolti anche i discorsi vacui di chi contrappone salute ed economia: l’economia verrà comunque paralizzata dalla saturazione del sistema sanitario, e sarà peggio per tutto, per l’economia, per la salute, per noi.

Qualsiasi ragionamento prescinda, anche sottilmente, da queste assunzioni è viziato, inconsistente, dettato dalla scarsa comprensione, dalla vanità o peggio: dalla malafede. Concordare su questa manciata di verità crude porta a inscrivere anche le misure distillate dell’ultimo mese nel paradigma dell’inevitabilità.

Se vogliamo passare, almeno da qui in avanti, a un regime nuovo, da quello dell’inevitabilità a quello più razionale della «prevedibilità», occorre quindi un cambio di passo, occorre sintonizzarsi su una serie di principi diversi da quelli applicati fino a qui.

Proviamo a enumerarli, senza entrare nel merito tecnico delle singole questioni (modalità e capacità di testing, numero adeguato di tracciatori, Immuni, e così via) perché, seppur frammentariamente, se ne sta parlando molto ovunque.

 

1. Centralizzazione

La disputa continua e irrisolta fra Stato e Regioni ha causato ritardi colpevoli negli interventi e diluito le responsabilità, ce ne siamo ormai accorti tutti. Ma non solo Stato e Regioni: i vari livelli di autonomia locale, che dovrebbero rendere l’attuazione delle misure più rapida, capillare e adeguata, hanno finora creato soprattutto disomogeneità e caos. E, di nuovo, scarico di responsabilità. Per esempio: dire che la scuola va riaperta e poi lasciare tutta l’implementazione ai presidi, senza coordinamento con gli altri settori della società (in primis i trasporti), come se la scuola fosse una dimensione parallela al resto, è un’interpretazione insensata dell’autonomia. L’epidemia richiede una direzione d’orchestra più ferma e riconoscibile di tanti comitati tecnici regionali e di organizzazioni parallele e nebulose che non si esprimono mai in prima persona.

 

2. Granularità

La centralizzazione deve convivere con il suo apparente opposto, la granularità. A stabilire la dimensione ottimale dei granuli non sono le strutture preesistenti, ma l’epidemia stessa e l’organizzazione della sanità. Si è iniziato a parlare a settembre di lockdown mirati e siamo ancora agli indugi, quando l’esigenza di flessibilità era chiara già in primavera (a quanto pare, faceva parte della favola).

 

3. Automatismi

I lockdown mirati devono scattare in una determinata area, in un «granulo», non appena si rilevi un inizio di accelerazione. Indicatori e soglie critiche vanno stabiliti a priori e devono avviare misure automatiche, senza lo stillicidio dei veti incrociati e delle consultazioni, che ritardano e depotenziano gli interventi. Le soglie devono essere comprensibili, note a tutti e soprattutto basse, molto lontane dai tipping point: solo in questo modo le chiusure potranno essere decisive e soprattutto brevi, non indolori certo, ma meno dolorose sì. Si è parlato allo sfinimento di Rt in primavera, ora abbiamo metropoli con Rt prossimo a due e siamo ancora lì che «valutiamo», che «aspettiamo di capire se». Ma aspettiamo di capire cosa?

 

4. Dati

I dati che raccogliamo non sono i migliori. Per esempio, dopo nove mesi di emergenza, ragioniamo ancora in base al saldo di occupazione delle terapie intensive, invece di monitorare i flussi di ingresso e uscita che permetterebbero di cogliere prima le accelerazioni dell’epidemia. Ma soprattutto, raccogliamo pochi dati. Cosa ne è stato di tutti i fogli che nei mesi scorsi abbiamo compilato a mano prima di entrare in teatro o in un ambulatorio medico? E perché non abbiamo un modo più affidabile di misurare l’affollamento sulle metropolitane, che non siano le foto scattate dai passeggeri? Stiamo perdendo una mole di informazioni preziose, informazioni che, raccolte dalla tecnologia portatile e convogliate in un database, ci darebbero un aiuto enorme nella stressante «convivenza con il virus». Non si tratta solo di rendere efficace Immuni, Immuni è una parte essenziale, ma è necessario misurare anche i flussi di persone, le densità, capire dove è più probabile che avvengano i contagi, per intervenire di conseguenza. Nessuno di noi desidera che ogni suo movimento venga registrato «da qualche parte», ma tra il panottico cinese e il nostro vuoto di dati ci sono molti livelli intermedi da esplorare. Abbiamo bisogno di un centro nazionale dedicato ai dati Covid, che non solo imponga standard e formati, ma che coordini e integri nuovi sistemi di raccolta e individui le criticità in quelli esistenti. Perché nei dati ci sono verità importanti da estrarre, istruzioni su come procedere.

 

5. Trasparenza

Sui dati stessi, innanzitutto. Almeno su quelli disponibili, che sono più dell’elenco dei tamponi positivi registrati quotidianamente, dell’occupazione dei posti letto in ospedale e dei decessi. E poi: su quali proiezioni settimanali (se ci sono) si basa l’operato del governo e delle Regioni? Che analisi vengono impiegate per anticipare il carico sul sistema sanitario? Quali stime e quali criteri sono adottati per la protezione delle fasce di popolazione a rischio? Quanti tracciatori sono stati assunti, dove e secondo quale strategia di controllo territoriale? Su che basi è stata pianificata l’attuale capacità di testing delle diverse regioni, province, aree urbane? Ogni cittadino ha diritto, specie in un frangente così, di avere a disposizione le informazioni rilevanti, tutte al netto di quelle sensibili ovviamente, per poter valutare se le misure intraprese gli appaiano ragionevoli o no. Altrimenti ogni opinione è dettata dal pregiudizio personale, i dibattiti girano a vuoto. L’opacità sui dati è l’unica vera forma di controllo in atto in questo momento, e non è accettabile.

 

6. Accompagnamento

La comunicazione non può avvenire, tutta sbrindellata, nei talk show, com’è accaduto finora. Dentro un’emergenza grave e prolungata come questa, serve una voce unica e autorevole, che sia il volto delle istituzioni, che spieghi la situazione in continuo aggiornamento e il retroterra di ogni decisione; una voce che possa emergere dal rumore di fondo ogni giorno più rintronante, e che sappia opporsi autorevolmente alla disinformazione.

 

7. Coinvolgimento

I cittadini devono sentire di partecipare attivamente al contenimento dell’epidemia, non essere considerati soggetti passivi che mettono o no la mascherina, che si comportano bene o male o così così, e poi subiscono le conseguenze delle loro mancanze. Tutti i comparti, pubblici e privati, vanno impiegati al massimo delle risorse che possono offrire all’obiettivo comune della mitigazione. Trasporti, laboratori nazionali e privati, associazioni di volontari, ristoranti, teatri, cinema, alberghi. In primavera parlavamo di «sforzo bellico» necessario, forse adesso è più chiaro che cosa si intendesse. Ma nulla del genere è stato intrapreso. Lo sforzo fatto finora lo si potrebbe definire, al più, «amministrativo». Andando avanti così, i cittadini sentiranno sempre più aliena, soverchiante e odiosa una causa comune che invece deve impegnarci tutti. Abbiamo soffocato la prima ondata grazie alla concordia nazionale, ora rischiamo di soccombere alla seconda per discordia e per timore dell’impopolarità. Ma su questo possiamo forse rassicurare i nostri decisori politici, di tutti i gradi: «le persone» capiscono. Magari si lasciano confondere dall’interpretazione dei trend e delle percentuali, dai differenti tipi di test, ma capiscono istintivamente se un approccio è razionale oppure no. E quando capiscono che lo è, e che la posta in gioco è molto alta, quelle persone sono pronte a un sacrificio ripetuto. Un margine di disponibilità esiste ancora, ma non per molto. Perso quello, avremo perso tutto. Al prossimo giro, la recita dello stupore non sarà più tollerata da nessuno.

 

Fonte: Corriere della Sera, 2 Novembre 2020.