Covid-19 e le conseguenze sulle persone
di Lorenzo Migliorati
La sociologia è il sapere del mutamento (Moore, 1963), la disciplina forse meglio attrezzata sul piano epistemologico, in ambito umanistico-sociale, per osservare i grandi e piccoli processi di trasformazione che solcano la vita sociale delle persone. E che cosa ci sta consegnando questo Covid-19, se non una radicale trasformazione delle forme organizzative della nostra vita associata?
Per i padri fondatori e i classici del mio piccolo orto scientifico, la radicale trasformazione che si dispiegava era il turbine della modernità industriale. Attorno ad essa, alla sua descrizione e alla sua interpretazione, è nata la sociologia che il positivismo filosofico di Auguste Comte (1842) descriveva come una fisica sociale in grado di rendere conto delle forme di permanenza strutturale della vita associata (statica), ma anche di trasformazione (dinamica). Una sorta di funzionalismo ante litteram di cui si sarebbe fatto alfiere di lì a poco Emile Durkheim (1893), descrivendo le condizioni di possibilità dell’ordine sociale quando fosse posta a suo fondamento la differenziazione e non più l’uniformità delle società a solidarietà meccanica (una lunga perifrasi per dire le società premoderne). In ambito tedesco, il tema era analogo, benché figlio del Methodenstreit posto, fra altri, da Wilhem Diltey e scandagliato da Max Weber (1913) nel tentativo di comprendere il “disincantamento” (Entzauberung) del mondo moderno dalla tradizione e i suoi processi di razionalizzazione e burocratizzazione. Forse, però, è la cosciente domanda di Georg Simmel a dire, più di tutto, dei rovelli epistemici dei padri fondatori della scienza sociale: come è possibile la società? (1908).
Come accennavo, osservato attraverso il peculiare prisma dell’analisi socio-culturale, Covid-19 è anzitutto un potente processo di trasformazione. I nomi che abbiamo adoperato per nominare le cose in questi mesi – lockdown, isolamento fiduciario, distanziamento sociale, quarantena e via dicendo – rimandano esattamente ad un radicale cambiamento dei modi organizzativi e di vita della nostra quotidianità. È come se la nostra socialità fosse stata improvvisamente ibernata e questo è un fatto sociale imprevisto, inaudito e sorprendente per la maggior parte delle persone. Covid-19 ci ha concesso l’opportunità di un campo di osservazione globale su un processo che neppure il più influente e dovizioso ricercatore sociale avrebbe potuto mettere in campo in condizioni normali: che succede agli attori sociali senza la società?
Le parole della sociologia per dire Covid-19
Alla mia sensibilità scientifica e personale la risposta a quella domanda è arrivata sotto forma di conferma a diverse tesi che la sociologia della cultura degli ultimi quarant’anni ha elaborato nel tentativo di descrivere e comprendere i grandi mutamenti della società contemporanea. Società che, in un eccesso di semplificazione, definirei della modernità avanzata, seguendo con ciò una prospettiva affatto neutra che risale ai teorici della società del rischio (Bauman, 1999, 2000; Beck, 1997, 2000; Giddens, 1994). A costo di una evidente parzialità analitica, possiamo istituire un’analogia, da un lato, e una fondamentale differenza, dall’altro, tra la prima modernizzazione (quella della modernità industriale) e la società post-industriale (Touraine, 1969). L’una e l’altra sono intrise di trasformazioni radicali in ogni segmento della vita sociale, ma, in un ipotetico pendolo che oscilla tra opportunità e rischi, la seconda ha orientato molto di più lo sguardo alla propria intrinseca problematicità, che Anthony Giddens ha efficacemente sintetizzato nell’espressione “the dark side of the Modernity” (Giddens, 1994, p. 20).
I classici della sociologia vedevano nella modernità industriale incipiente un grande riscatto: la possibilità per gli individui di affrancarsi dai vincoli della tradizione, il superamento dell’eteronomia e dell’ascrittività delle società d’ordine in nome dell’autonomia dei singoli, dell’autodeterminazione e dell’acquisività. Talcott Parsons lo definirà need for achievement (Parsons, 1984). I teorici della società del rischio contemporanea hanno istituzionalizzato il portato intrinsecamente problematico della modernità avanzata: “nella modernità avanzata la produzione sociale di ricchezza va sistematicamente di pari passo con la produzione sociale di rischi” (Beck, 2000, p. 25). Sulla base di queste tesi, Covid-19 ha costituito il precipitato esperienziale più esplicito che potessimo immaginare, perché ha dato forma a ciò che questi stessi autori si limitavano a teorizzare. E l’esperienza si è rivelata assai aderente alla teoria nella misura in cui ha confrontato noi, prototipi perfetti della modernità avanzata, con l’ineluttabilità di quanto ci è accaduto.
Anzitutto, non poteva che andare così. Nonostante le misure di protezione che possiamo aver stabilito, il virus non poteva che varcare i contesti locali in cui si è prodotto per arrivare là dove poteva apparire più remota la possibilità che si insinuasse. Le valli del bergamasco, ad esempio, colpite tanto duramente da stentare a credere che le cose siano per davvero andate come sono andate, sono lontanissime dai mega centri urbani, precise funzioni dei flussi globali. E così le residenze sanitarie assistite, che abbiamo presto scoperto essere i focolai più incendiari della diffusione della pandemia. E, ancora, le generazioni più anziane, letteralmente falcidiate da Covid-19 a tassi di letalità prossimi al 10% sui casi confermati. Quello che sto cercando di dire è che il rischio nella società della modernità avanzata ha concretizzato, anzitutto, quei caratteri di globalità e di spersonalizzazione che i suoi teorici evocavano quarant’anni fa, producendo conseguenze reali, ferocemente reali, soprattutto nei contesti più fragili.
In secondo luogo, il rischio globale è esposto ad evidenti questioni di definizione sociale. Che cosa c’è di pericoloso in ciò che non possiamo vedere? I rischi della modernità avanzata sono globali, impersonali, ma soprattutto, invisibili, “non esperienze di seconda mano” come le definisce ancora Beck. E questo li espone ad un evidente problema di definizione e ad un conseguente aumento, pressoché smisurato, del potere sociale di coloro che detengono i mezzi di produzione simbolica di questa definizione. Sono i saperi esperti, nella forma dei comitati tecnici, degli scienziati, ma, per certi versi, pure dei sedicenti beninformati, gli attori sociali che hanno definito la situazione di rischio da Covid-19, esautorando, di fatto, gli altri attori dalla possibilità di definire adeguatamente la propria situazione sociale. Una condizione da manuale che ha contribuito ad ampliare la linea di faglia che separa percezioni locali e scienza. Non sto qua sostenendo l’idea che i saperi esperti agiscano a dispetto, forse anche contro le persone comuni; piuttosto, sto cercando di mettere in evidenza una condizione tipica della società del rischio e, cioè, l’intrinseca problematicità del contemporaneo che dischiude rischi. All’aumento delle condizioni di conoscenza non corrisponde necessariamente (anzi, affatto) maggiore consapevolezza dei rischi, quanto piuttosto il suo contrario: un ineluttabile ampliamento delle distanze tra esperti e profani.
Come si esce da tutto ciò? Oppure, se vogliamo dirla in termini più eleganti, quali possiamo ipotizzare siano le sfide più urgenti che attendono una possibile seconda modernità o, più semplicemente, le fasi due, tre, quattro e successive? Sussumerei volentieri nella generica categoria di riappropriazione le molte voci e prospettive che si sono cimentate con il margine estremo del ragionamento sociologico, per nulla attrezzato con la predittività.
Se la chiamiamo nuova soggettivazione (Touraine, 2019), modernizzazione riflessiva (Beck, 2000), realismo utopico (Giddens 1994) o voglia di comunità (Bauman, 2000, 2001) poco cambia: ciò a cui siamo posti di fronte è la necessità di riappropriarci delle condizioni della vita sociale, rivendicando il nostro ruolo di produttori creativi di società, investiti della nostra piena autorità di soggetti, in ogni sua declinazione. In questo senso, mi sembra che possiamo riappropriarci di alcuni di quei diritti che Covid-19 ci ha usurpato, consentendoci, tuttavia, di osservarli meglio nelle lunghe settimane di lockdown. Ne considero, in questa sede, due: lo spazio e il tempo.
Anzitutto, il diritto allo spazio. Non si tratterà soltanto di mantenerci a debita distanza gli uni dagli altri, perché questa finirebbe presto per diventare una pruderie meramente igienista, ma di poter godere dello spazio, di poter vivere lo spazio aperto riconoscendolo come nostro e non soltanto come mio. Credo nella scommessa di poter riconoscere alla distanza la funzione di unione, prima e più che di separazione. Potrà essere lo spazio delle città, della natura o di casa nostra, poco importa, ma la creatività che possiamo dispiegare potrà portarci ad avere maggiore consapevolezza.
In seconda battuta, il diritto al tempo. Covid-19 ci ha costretti a reinventare l’uso del nostro tempo, scandito da tempi molto più soggettivi che in precedenza. Se la disaggregazione di tempo e spazio è (stata) la condizione primaria per la realizzazione dei processi di convergenza globali (Giddens, 1994; Martell, 2010), Covid 19 ha rovesciato, nel volgere di una notte, questa prospettiva, racchiudendo la nostra vita quotidiana nello spazio delle nostre case e aprendo il nostro tempo alla progettazione autonoma. Non è una semplicistica negazione delle condizioni di possibilità dei flussi e delle interconnessioni globali; è, piuttosto, la presa di consapevolezza riflessiva che si tratta di processi generati dall’umano dei quali rigettare il lato ipostatizzato che la contemporaneità ne ha rilevato. E “che è la nostra interpretazione, la coscienza di noi stessi come autocreatori, autotrasformatori e anche autodistruttori a indirizzare i nostri comportamenti in tutti i campi, in particolare nell’espressione dei nostri ‘bisogni’ personali più profondi che danno vita, creatività e conflittualità alla società nuova” (Touraine, 2019, p. 269).
Lorenzo Migliorati è Professore associato di Sociologia dei processi culturali presso il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli Studi di Verona.
Riferimenti bibliografici
Bauman Z. (2001), Voglia di comunità, Laterza, Bari.
Id. (2000), Modernità liquida, Laterza, Bari.
Id. (1999), La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna.
Beck U. (1997), Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, Roma.
Id. (2000), La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma.
Comte A. (1842), Cours de philosophie positive, Rouen Frères, Paris.
Durkheim E. (1893), De la division du travail social, Alcan, Paris, 1893; tr.it. La divisione del lavoro sociale, Edizioni di Comunità, Torino, 1996.
Giddens A. (1994), Le conseguenze della modernità. Fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, Il Mulino, Bologna.
Martell L. (2010), Sociologia della globalizzazione, Einaudi, Torino.
Migliorati L. (2006a), Rappresentazioni sociali del rischio. Frammenti di un’ipotesi, in Sociologia 2006/2, Gangemi, Roma, pp. 49-69.
Id. (2006b), Rischio, una parola pericolosa. Uno studio sulla funzione sociale del rischio, Qui Edit, Verona;
Id. (2020), Un sociologo nella zona rossa. Rischio, paura, morte e creatività ai tempi di Covid-19, Franco angeli, Milano.
Moore W.E. (1963), Social Change, Prentice-Hall, Englewood Cliffs.
Touraine A. (2019), In difesa della modernità, Raffaello Cortina, Milano; ed. or. Défense de la modernité, Editions di Seuil, Paris, 2018.
Id. (1969), La société post-industrielle. Naissance d’une société, Denoël, Paris.
Id. (1992), Critique de la modernitè, Fayard, Paris.
Weber M. (1994), L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, BUR, Milano, ed. or. Die protestantische ethik und der geist des kapitalismus, Mohr, Tübingen, 1904.