lunedì, Dicembre 30, 2024
DirittiGeneri

Costituzionalizzare la cura

di Chiara Magneschi

 

Introduzione

La riflessione sulla cura è nata nel grembo dell’etica, per essere successivamente sviluppata nella dimensione politica e giuridica. Su questo terreno ha ricevuto rimodulazioni continue, fino ad essere definita non più solo come insieme di attività che attengono all’amministrazione dell’ambiente domestico e degli affetti familiari, ma come tutte quelle attività volte al mantenimento e all’implementazione della qualità della vita. Questa nuova prospettiva conduce ad affermare che tutte e tutti abbiamo il diritto di curare e di essere curate e curati, e fa riferimento a una concezione universale e democratica di cura, strettamente connessa alla condizione umana di interdipendenza.

Tale prospettiva è fondamentale per superare la concezione che inquadra la cura come mansione naturalmente femminile, legata alla dimensione privata e svalorizzata, favorendo uno stereotipo che è forse la causa principale delle discriminazioni di genere. L’idea di una cura universale e del riconoscimento dell’interdipendenza tra soggetti si pone inoltre in attrito con la nozione liberale di individui concepiti come interamente autonomi e self-supporting.

Il tradizionale confinamento della donna nell’ambiente domestico, custode delle funzioni di accudimento, ha determinato il cristallizzarsi di una cultura patriarcale disegnata per ruoli oppositivi e la tendenza a legare il lavoro riproduttivo al paradigma maternalista e all’improduttività economica. Per superare questa rappresentazione, occorre liberare il lavoro riproduttivo dalla logica mercantile, valorizzandolo in quanto tale, e guardando a uno stato sociale che ponga al centro il valore della cura ed attui per essa il necessario sostegno. Prima ancora delle policies, però, occorre una nuova forma mentis: si tratta infatti di una liberazione che riguarda, anzitutto, il pensiero e il linguaggio. La semantica giuridica e, in particolare, quella delle costituzioni, è dotata di un alto valore simbolico: è su questo aspetto che intendo qui riflettere.

 

Cura e uguaglianza di genere “dopo” la pandemia

È risaputo che la pandemia abbia inasprito tutte le problematicità legate al lavoro di cura, e che nessun sistema pubblico al mondo abbia saputo rispondere adeguatamente a tali bisogni. Se non altro, però, è finalmente emerso alla luce il fatto che le economie formali si reggono sul lavoro invisibile, prevalentemente di donne, e che la cura è un’attività essenziale per la vita degli esseri umani.

In questa sede non posso soffermarmi sulle misure di “sostegno” al lavoro di cura approntate in fase pandemica e post-pandemica, né sulle molte criticità emerse in proposito. Si può comunque evidenziare che, a seguito dell’attenzione che i movimenti femministi hanno portato sui temi della cura, e delle critiche mosse al sistema, a livello istituzionale si sta continuato a lavorare su tale fronte. Tuttavia, anche le più recenti iniziative volte a una migliore conciliazione vita-lavoro, assumono l’idea che tale esigenza riguardi esclusivamente le donne, e denotano la mancanza di uno sguardo programmatico fondato sull’idea che tutti gli esseri umani siano bisognosi e meritevoli di cura.

L’idea che lo Stato abbia in questo un ruolo centrale è consolidata nel pensiero femminista, ma non sembra, come detto, avere trovato un adeguato spazio attuativo.

 

I compiti di cura nella Costituzione italiana

La disposizione della Costituzione più direttamente riferibile alla cura è quella contenuta nell’articolo 37, che afferma “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore […], le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. A questo si può accostare l’articolo 31, il cui primo comma afferma: “La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose.

Il combinato disposto dei due articoli spinge a focalizzare l’attenzione sul fatto che “l’adempimento dei compiti familiari” riguarda prevalentemente la donna, portatrice di una essenziale funzione familiare.

Tali articoli sono il risultato di un dibattito molto vivace, svolto in Assemblea costituente, tra membri di diverso genere. Nella discussione che fece da preludio alla formulazione di questo articolo le relatrici si spesero a lungo per affermare tra uomo e donna non solo un’uguaglianza formale, ma anche sostanziale, nella condizione lavorativa. È significativo che alcune onorevoli si fossero opposte all’uso dell’aggettivo “essenziale” riferito a quella “funzione familiare”, e che avessero presentato un emendamento per l’eliminazione dell’aggettivo in questione in quanto avrebbe consacrato “un principio tradizionale, ormai superato dalla realtà economica e sociale, che circoscrive l’attività della donna nell’ambito della famiglia”.

La risposta dei relatori maschi fu conservatrice (“partendo da tale concetto si finirà col tornare al matriarcato”) e tesa a confermare la diversità dei compiti nella famiglia: “questo riferimento alla essenzialità della missione familiare della donna sia un avviamento necessario ed un chiarimento per il futuro legislatore, perché esso, nel disciplinare l’attività della donna nell’ambito della vita sociale del lavoro, tenga presenti i compiti che ne caratterizzano in modo peculiare la vita”; e ancora: “la funzione della donna, fin quando esisterà la famiglia, è prevalentemente nell’ambito di questa”, […] “il lavoro e le funzioni che la donna deve esercitare come madre e come sposa prevalgono su quelli che essa può esercitare come lavoratrice”. Affermazioni come queste furono ricorrenti nel dibattito costituente e costituirono il retroterra dell’attuale formulazione dell’art. 37. Un articolo che pare dunque decisivo per la fondazione e la preservazione di un assetto patriarcale.

 

Contributi teorici per una cura corresponsabile

 A differenza che in altri paesi europei ed extraeuropei, in Italia non risulta essere ancora fiorito un ampio dibattito sul tema della (ri)costituzionalizzazione della cura, ovvero sull’idoneità dell’attuale formulazione costituzionale a sostenere l’esercizio della cura alla luce del principio di uguaglianza sostanziale. Vi sono però diversi contributi che possono fare da apripista.

Dal versante della filosofia politica, già diversi anni fa Maria Chiara Pievatolo si era interrogata sulla idoneità della Costituzione ad accogliere definizioni identitarie e aveva considerato quello della cura come uno dei problemi che attengono alla cittadinanza della donna, intendendo tale concetto in senso sociologico, come indice di effettivo godimento dei diritti, più che come riconoscimento formale degli stessi. Nel ricercare le cause di questa “cittadinanza incompiuta”, Pievatolo affrontava l’analisi sotto un profilo costituzionale, chiedendosi se essa non dipendesse proprio da una inadeguata formulazione di principi “per le donne”.

Più recentemente, l’argomento della cura nell’orizzonte dello stato costituzionale di diritto è stato affrontato, in una prospettiva filosofico-giuridica, da Lucia Re, che lo ha connesso alla vulnerabilità, nell’ottica di valorizzare il legame reciproco che i due temi possono avere, non solo in ambito etico, ma anche giuridico. Ciò che consente a uno Stato di garantire ai propri cittadini una fruizione democratica della cura, a partire da un riconoscimento universale e fondativo della vulnerabilità, è la sua capacità di offrire un sistema di welfare adeguato a questo bisogno. Per assumere una diversa prospettiva è sufficiente potenziare le tutele che la Costituzione già offre, soprattutto attraverso un’interpretazione giurisprudenziale che svolga il ruolo di “rifondazione costante […] del patto costituzionale attraverso la rappresentanza delle lotte sociali e delle istanze riformatrici espresse dalla società”.

A questo proposito, Ruth Rubio Marín ha condotto un’accurata analisi della giurisprudenza sul tema mostrando come questa non abbia favorito, negli anni, un’interpretazione del principio di uguaglianza sostanziale in relazione alla corresponsabilità nella cura. Le poche conquiste raggiunte hanno infatti riguardato l’estensione del congedo parentale, in origine previsto solo per le donne, anche agli uomini. In molte occasioni la Corte ha affermato “il superiore interesse del minore” come principio giustificativo dell’accesso preferenziale alla madre nei primi mesi di vita. In altri casi, invece, in nome del rispetto della vita familiare, la Corte ha rimesso ai genitori la decisione sulla ripartizione del lavoro produttivo e riproduttivo, secondo uno schema ancora molto rigido di divisione della sfera pubblica e privata, trascurando il necessario riconoscimento della famiglia come ambito di interesse pubblico. Da quest’analisi il caso italiano emerge come paradigmatico della limitatissima ricezione della nuova idea di cura corresponsabile da parte della giurisprudenza e della dottrina costituzionale, nonché della legislazione.

Si richiede, dunque, un nuovo modello costituzionale in cui la centralità della riproduzione e della cura venga coniugata con l’impegno a “scardinare il genere”.

 

Costituzionalizzare il valore della cura universale

Per avviare un nuovo corso della cultura e della politica centrate sulla cura corresponsabile universale c’è bisogno di ripartire dalle fondamenta ordinamentali, da un nuovo patto sociale: il riconoscimento del bisogno e del diritto di cura per tutti e tutte deve interessare, in primo luogo, le parole della Costituzione, portatrici di significati cruciali. L’attuale linguaggio costituzionale sul tema può sempre offrire legittimazione a teorie e prassi della diseguaglianza, può frenare la fioritura di una nuova forma mentis e condurre a ritenere inadeguata al ruolo genitoriale una madre che non assolva perfettamente alla sua essenziale funzione familiare in quanto, ad esempio, lavoratrice, collocata al di fuori dello schema tradizionale di accudimento o, semplicemente, troppo stanca.

Inoltre, l’articolo 37 non presenta propriamente la cura come valore: si è costretti a rinvenire in tale norma l’appiglio per garantirle un inquadramento costituzionale, ma occorre evidenziare che non si tratta in quella sede della sua piena affermazione. Si tratta di una collocazione alquanto angusta, mentre la cura merita una tematizzazione più ampia, una riconsiderazione in quanto valore fondante, logicamente pregiudiziale rispetto agli altri, condizione di pensabilità degli stessi. Infine, solo una riforma del linguaggio costituzionale può determinare quel “salto di mentalità” che la società ha già portato a un buon grado di maturazione, ma nella quale esso risulta ancora incompiuto. Se la cura interscambiabile è lo snodo cruciale per l’uguaglianza di genere, e per la tutela del lavoro riproduttivo, occorre la più alta consacrazione possibile: come settanta anni fa la Costituzione ha relegato la donna nello spazio domestico della cura, è necessario che adesso si assuma la responsabilità di recidere questa connessione aprioristica, chiamando ciascuno a occupare quello spazio.

Se la cura è, in definitiva, un certo tipo di sguardo, ancor prima che un’attività materiale – uno sguardo attento, capace di intercettare i bisogni di sé stessi e degli altri – è necessario che la Costituzione per prima guardi a ognuno dei propri destinatari come curanti (e curati), al di là di rigidi dualismi. Una tale rinegoziazione è di importanza vitale anche per  la “legittimazione” delle emozioni e delle vulnerabilità, in particolare di quelle suscitate dalla cura e a essa collegate.

Lavorare dentro e attraverso le emozioni ambivalenti è una delle chiavi per costruire comunità autenticamente democratiche. È logico che, se la cura riesce a essere partecipata da più soggetti, in maniera trasversale ai tradizionali ruoli di genere, se ne distribuisce il peso, se ne aumenta l’accesso e l’effettiva fruizione. Allo stesso tempo, si dà a tutti la possibilità di “empatizzare”.

 

Conclusioni

La “scomposizione” dell’ordine basato sui differenti ruoli di genere richiede la valorizzazione della cura, alla luce dell’assunto dell’interdipendenza e della vulnerabilità dell’essere umano. In questo senso, la cura deve essere configurata come diritto di ogni persona, al di là del genere e della collocazione familiare e sociale. Il percorso fatto finora, in ambito italiano, è stato lento e faticoso, poiché sconta una collocazione marginale della cura nel testo costituzionale ma, allo stesso tempo, legata al ruolo essenziale della donna.

Occorre ispirarsi allora a quei paesi (extra-europei) che hanno accordato una esplicita rilevanza alla cura nella Costituzione, e rappresentato chiaramente l’obiettivo di scardinare i ruoli e le diseguaglianze di genere all’interno della famiglia. Gli sforzi più significativi vanno nella direzione di riconcettualizzare la cura, sia come lavoro riproduttivo che come dovere della cittadinanza.

In definitiva, se il patto politico espresso nella Costituzione ha connesso il lavoro riproduttivo a un dovere femminile, è il momento di rinegoziare quel patto. Per arrivare a un nuovo assetto egualitario, dove il lavoro riproduttivo non sia né scontato né svalorizzato, è necessario un cambiamento che la giurisprudenza da sola non può assolvere: occorre navigare a ritroso, sino alla fonte del “potere simbolico”, tra le parole della Costituzione che incidono profondamente sulla nostra realtà.

 

[Questo articolo costituisce una rielaborazione sintetica del più ampio saggio C. Magneschi, Per una (ri)costituzionalizzazione della cura: tra analisi critica e prospettive normative, in «Teoria e storia del diritto privato», Numero Speciale, 2022].

 

Chiara Magneschi è avvocata, ricercatrice aggregata al Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace” e docente a contratto in Teorie giuridiche e politiche e diritti umani presso il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa. E-mail: chiaramagneschi@gmail.com