Cosmopolitismo: una visione globale per costruire la pace
di Sofia Sutera
Nel corso della storia il concetto di cosmopolitismo ha rappresentato un’idea affascinante e complessa, che offre una prospettiva unica per affrontare le sfide della convivenza umana e della costruzione della pace. Questo termine, attribuito inizialmente al filosofo greco Diogene di Sinope, che si definiva “cittadino del mondo” (κοσμοπολίτης), ha attraversato i secoli influenzando diverse correnti filosofiche e culturali. La visione di Diogene, apparentemente semplice, sottendeva una rivoluzione culturale che avrebbe condotto a riconsiderare i confini della cittadinanza e della moralità, portando alla nascita di ideali che ancora oggi risuonano con forza.
Radici e trasformazioni storiche del cosmopolitismo
Una visione cosmopolita permetterebbe oggi di affrontare urgenti sfide planetarie, come la crisi climatica, le disuguaglianze crescenti e la proliferazione delle guerre.
L’idea di appartenenza globale trovò inizialmente espressione nella filosofia stoica, secondo cui tutto ciò che esiste è parte di un unico logos universale. Gli stoici credevano che la virtù e la ragione fossero i fondamenti di una vita giusta, indipendentemente dalle barriere culturali e geografiche.
Questa visione emerse in un contesto di profonde trasformazioni nel mondo greco. Con la crisi della polis nel IV secolo a.C. e il declino della distinzione netta tra Greci e “barbari”, il tradizionale sistema di appartenenza cittadina perse la sua centralità. L’ascesa dell’Impero macedone di Alessandro Magno e la successiva epoca ellenistica portarono a una maggiore interconnessione tra culture, generando una crisi ideologica delle concezioni politiche precedenti, basate sulla separazione etnica e sull’autosufficienza delle città-stato. Di fronte a questa nuova realtà si svilupparono filosofie orientate a una prospettiva universale, tra cui lo Stoicismo, fondato da Zenone di Cizio nel III secolo a.C.
Gli stoici sostenevano che l’identità dell’individuo non dovesse dipendere dall’appartenenza a una specifica città o popolo, ma dal suo ruolo come parte di una comunità più ampia, quella dell’umanità intera. Tale visione, profondamente radicata in una prospettiva universalistica, permeò anche l’Impero Romano, dove tra i seguaci della filosofia stoica spiccano figure di altissimo livello, come lo stesso imperatore Marco Aurelio.
Tuttavia, fu durante l’Illuminismo che il cosmopolitismo raggiunse una sistematizzazione teorica più compiuta. Ispirandosi anche al pensiero di Rousseau e alla concezione di John Locke sullo Stato liberale, Immanuel Kant arrivò a coordinare il cosmopolitismo con l’internazionalismo: il filosofo, infatti, riteneva che originariamente la terra appartenesse a tutta l’umanità, pur riconoscendo l’esistenza degli Stati territoriali a base nazionale come realtà non eliminabile.
Kant sviluppò il concetto in modo innovativo, ponendo al centro il principio della dignità umana e promuovendo una visione internazionale basata sulla cooperazione e sul rispetto reciproco. Per Kant, la dignità di ogni individuo rappresentava il pilastro su cui costruire un sistema globale di relazioni basato sull’eguaglianza e sulla giustizia. Nella sua opera “Per la pace perpetua” (1795), il filosofo espose una visione della società finalizzata a superare il ricorso alla guerra come diritto sovrano. Per fare questo, estende la soluzione che Hobbes aveva sviluppato per gestire il conflitto tra gli uomini, il contratto sociale, ai rapporti tra gli Stati. Infatti, propose un modello di federazione di Stati, in cui il diritto cosmopolitico garantisse relazioni pacifiche e collaborative, immaginando un mondo in cui la giustizia internazionale sostituisse la violenza e la competizione tra Stati.
Tra le sue condizioni fondamentali figurava, tra l’altro, l’abolizione degli eserciti permanenti, il divieto di emettere debito pubblico per finanziare la spesa militare e il rispetto del “diritto di visita” degli stranieri, senza però contemplare un diritto di ospitalità incondizionato. Questa distinzione, apparentemente tecnica, aveva un significato profondo: criticare le pratiche coloniali e imperialistiche dell’epoca, promuovendo al tempo stesso una visione di rispetto reciproco tra i popoli.
Il cosmopolitismo nel mondo contemporaneo
L’espressione “cosmopolitismo” ha conosciuto dopo Kant molteplici usi, al di là della prospettiva di una pace perpetua e dell’affermazione di un diritto cosmopolitico propugnate dal filosofo. In generale, il cosmopolitismo ha iniziato a riferirsi a un atteggiamento, una dottrina o una condizione socio-culturale in cui l’appartenenza a una comunità umana globale prevale o si affianca alle identità nazionali o locali.
Il concetto di cosmopolitismo tende spesso a sovrapporsi a quello di universalismo, ma occorre distinguere tra le due prospettive. Mentre il cosmopolitismo valorizza il pluralismo culturale e la connessione globale, l’universalismo si concentra sulla ricerca di principi comuni applicabili a tutta l’umanità. Le due visioni possono convergere, ad esempio, nella promozione dei diritti umani, ma anche entrare in tensione, quando l’universalismo rischia di imporsi in modo rigido su realtà culturali differenti.
Il filosofo Danilo Zolo, ad esempio, ha espresso perplessità nei confronti dell’universalismo giuridico dei diritti umani, evidenziando come la loro applicazione su scala globale non sempre conduca a una reale uguaglianza e tutela, ma possa talvolta mascherare logiche di potere e dominazione. In questo senso, mentre l’universalismo giuridico tende a concepire i diritti come principi assoluti e validi indipendentemente dai contesti specifici, il cosmopolitismo resta più attento alla diversità culturale e cerca di bilanciare tali principi con un riconoscimento delle differenze e delle dinamiche locali.
Anche il filosofo Luigi Ferrajoli critica l’efficacia dell’universalismo giuridico privo di strumenti concreti di applicazione e propone una nuova forma di cosmopolitismo giuridico che, attraverso una Costituzione della Terra, miri a garantire effettivamente i diritti fondamentali su scala globale.
Si distinguono oggi diverse declinazioni del concetto: il cosmopolitismo etico considera ogni individuo vincolato da obblighi verso l’umanità intera; il cosmopolitismo culturale valorizza il dialogo tra le diverse civiltà; il cosmopolitismo politico propone forme di governance sovranazionale o globale.
Particolarmente interessante è il concetto di cosmopolitismo politico-giuridico, che propone un quadro istituzionale e normativo a livello globale, senza necessariamente creare uno Stato mondiale, ma orientando l’assetto internazionale verso un ordine giuridico di impronta cosmopolita, in cui l’articolazione dell’umanità in comunità politiche nazionali tragga la propria legittimazione dalla capacità dei governi di rispondere a esigenze di giustizia.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il riconoscimento dei crimini contro l’umanità e la necessità di proteggere i diritti umani a livello globale hanno riportato in auge il cosmopolitismo. La nascita di istituzioni come le Nazioni Unite (1945) e la Corte Penale Internazionale (2002) possono essere considerate espressioni di una governance globale ispirata a valori cosmopoliti.
Studiosi come Daniele Archibugi e David Held hanno proposto un modello di democrazia cosmopolita, che prevede il rafforzamento di organizzazioni internazionali e la creazione di un’Assemblea parlamentare mondiale per gestire problematiche transnazionali come l’ambiente, le migrazioni e la sicurezza. Questa visione implica non solo una trasformazione delle strutture di governance, ma anche una riformulazione del concetto di cittadinanza, che diventa globale e non più limitata dai confini degli Stati-nazione.
Tuttavia, la crisi dello Stato-nazione, esacerbata dalla globalizzazione economica e dall’asimmetria tra poteri economici globali e politiche locali, ha portato alla necessità di ripensare la sovranità statale. Le multinazionali, con il loro potere economico e spesso di fatto anche politico, hanno spesso superato la capacità degli Stati di regolamentarne le attività, evidenziando la necessità di un sistema di regole globali. Anche istituzioni globali come le Nazioni Unite hanno attraversato periodi di crisi o per lo meno di riassestamento, cercando di riconfigurarsi come un’istituzione finalizzata al “supporting” piuttosto che al “leading” rispetto agli Stati.
In questo contesto, il cosmopolitismo è stato anche criticato per il suo presunto eurocentrismo e per essere percepito come un ideale elitario. Nonostante ciò, l’idea di un senso di appartenenza e di una capacità di agire sovranazionali resta essenziale per promuovere una visione del mondo basata sulla solidarietà e sul rispetto dei diritti umani, offrendo una risposta alle sfide di un mondo sempre più interconnesso, ma anche sempre più diseguale e conflittuale.
Il cosmopolitismo nella gestione dei conflitti
Un esempio significativo dell’applicazione pratica di una visione cosmopolita si trova nell’evoluzione delle missioni di peacekeeping, dove un contributo fondamentale è stato dato dall’Agenda Donne, Pace e Sicurezza, introdotta nel 2000 con la Risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Tale agenda sottolinea l’importanza della partecipazione femminile nei processi decisionali legati alla pace, riconoscendo il ruolo cruciale delle donne nella prevenzione e nella risoluzione dei conflitti. La risoluzione ha anche promosso un cambiamento culturale nelle operazioni di pace, incoraggiando una maggiore attenzione al genere e ai diritti umani.
Tuttavia, il ruolo degli eserciti in tali missioni non è esente da critiche. Se da un lato le forze armate internazionali, spesso definite “cosmopolite”, non si limitano alla gestione immediata dei conflitti ma promuovono la costruzione della pace attraverso il dialogo, la riconciliazione e il supporto alle comunità locali, dall’altro si deve riconoscere che esistono visioni critiche rispetto a questa impostazione.
Le forze militari e di polizia internazionale sono sempre più utilizzate in processi di costruzione della pace, che implicano lo sviluppo di attività a medio-lungo termine finalizzate ad affrontare e risolvere le cause profonde dei conflitti. Da questo punto di vista le missioni di pace non dovrebbero più essere limitate a interventi militari tradizionali, ma dovrebbero includere attività di ricostruzione delle infrastrutture, di supporto allo sviluppo economico e sociale e di iniziative volte a rafforzare le istituzioni democratiche: attività che richiedono competenze di cui il settore militare non è generalmente fornito. Questo approccio “integrato” riflette una visione cosmopolita, che pone al centro la sicurezza umana e un’idea di pace intesa come percorso verso una società più giusta e meno violenta, in cui tutti e ciascuno possano godere di una pienezza di vita. Occorre dunque vigilare affinché le missioni di pace non consistano in ingerenze esterne, poco rispettose della sovranità degli stati e dei diritti delle popolazioni, e poco attente alle specificità dei contesti locali.
Alcuni autori mettono in discussione alla radice l’idea che gli eserciti possano essere strumenti di pace, richiamandosi alla concezione kantiana e più in generale pacifista, che vede il disarmo come una condizione fondamentale per la costruzione di una pace duratura e sostenibile. In questa prospettiva, l’uso stesso delle forze militari, anche con finalità pacificatrici, potrebbe essere interpretato come un limite al compimento di un autentico ordine cosmopolitico, basato sulla cooperazione tra stati senza la necessità di ricorrere a strumenti coercitivi.
In questo contesto, si parla sempre più spesso di “cosmopolitan conflict resolution”, intendendo un approccio multilivello alla gestione dei conflitti, che parta dal contesto locale per raggiungere una dimensione globale. Questa visione, fondata su principi di adattabilità e inclusività, promuove soluzioni sostenibili che considerano gli interessi delle comunità locali e dell’umanità nel loro complesso e nelle loro interazioni.
La risoluzione dei conflitti viene vista come un processo che coinvolge vari attori, a partire dalle organizzazioni della società civile e dalle istituzioni internazionali. In quest’ottica, il settimo segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, ha sottolineato come gli Stati debbano essere sempre più intesi come strumenti al servizio dei loro cittadini, e non viceversa.
In tempi più recenti, esempi di approcci cosmopoliti alla risoluzione dei conflitti si possono riscontrare nell’impegno internazionale per affrontare la crisi climatica. Gli Accordi di Parigi del 2015 rappresentano un modello di collaborazione globale che coinvolge quasi tutti gli Stati del mondo. Questa iniziativa non solo mira a limitare il riscaldamento globale, ma promuove anche il dialogo tra nazioni per risolvere una delle sfide più pressanti dell’umanità.
A questo si aggiunge il ruolo cruciale della diplomazia culturale e dell’educazione interculturale, che contribuiscono a creare le basi per una comprensione reciproca e una collaborazione sostenibile. In quest’ottica si può considerare il programma Erasmus +, programma dell’Unione europea per l’istruzione, la formazione, la gioventù e lo sport in Europa, nato nel 1987 ed ispirato alla figura dell’umanista pacifista Erasmo da Rotterdam, considerato il prototipo dell’intellettuale cosmopolita.
Evidentemente, l’affermazione di valori e strumenti politici cosmopolitici non è priva di ostacoli, specialmente in un mondo caratterizzato da una crescente polarizzazione geopolitica e dalla crisi dell’ordine internazionale uscito dalla Seconda Guerra Mondiale. Eppure, a meno di non voler scivolare verso un sistema basato sulla mera potenza e sul diritto del più forte, non ci sono alternative valide rispetto a un approccio cosmopolitico, fondato sul riconoscimento della dignità e dei diritti di tutti gli individui, sulla promozione della giustizia globale, sulla responsabilità collettiva verso questioni di portata transnazionale, sull’impegno per il dialogo interculturale, sul rispetto del diritto internazionale e sul graduale disarmo.
Conclusioni
Nonostante le criticità e le difficoltà pratiche, il cosmopolitismo rimane una prospettiva fondamentale per affrontare le sfide globali e promuovere la pace in modo duraturo. La sua validità risiede nella capacità di trascendere i confini nazionali e di proporre una visione del mondo basata su valori condivisi. In un’epoca di profonde trasformazioni e di crisi molteplici, l’idea di una cittadinanza globale e di una governance cooperativa di scala internazionale rappresenta un obiettivo sempre più necessario verso cui tendere, per costruire un futuro più giusto e pacifico.
Riflettere criticamente sul cosmopolitismo non deve condurci a liquidare questa prospettiva come irrealistica e irrealizzabile, ma deve spingerci a sviluppare istituzioni di garanzia sovranazionali, capaci di far rispettare i diritti fondamentali, e a elaborare un’etica sempre più inclusiva: dobbiamo riconoscere le nostre responsabilità globali, valutando l’impatto delle nostre azioni sempre anche su scala planetaria.
Sofia Sutera è attualmente ricercatrice presso l’International Team for the Study of Security (ITSS) di Verona e cultrice della materia in Human Rights all’Università di Padova. Ha completato il dottorato in “Human Rights, Society and Multi-Level Governance” presso il Centro Diritti Umani “Antonio Papisca” dell’Università di Padova, in collaborazione con istituzioni internazionali, tra cui la Western Sydney University e l’Università di Zagabria.