Contro la guerra dell’informazione serve un giornalismo di pace
di Federico Oliveri
In guerra “può accadere talvolta che una voce diffusasi nel paese o in un determinato gruppo sociale venga riportata, in perfetta buona fede, da un giornalista […]. Ma il più delle volte la falsa notizia di stampa è semplicemente un oggetto fabbricato: è abilmente forgiata per uno scopo preciso – per agire sull’opinione pubblica, per obbedire a una parola d’ordine – o semplicemente per abbellire il racconto. […]. L’errore si propaga, si amplifica e vive a una sola condizione: trovare nella società in cui si diffonde un terreno di coltura favorevole. In tale errore gli esseri umani esprimono inconsciamente i loro pregiudizi, gli odi, i timori, tutte le loro forti emozioni”.
Queste parole potrebbero essere state scritte oggi, per descrivere la condizione critica in cui si trova l’informazione nella guerra in Ucraina, ma risalgono al 1921: sono contenute in un saggio di Marc Bloch, “Riflessioni di uno storico sulle false notizie di guerra”. Sergente di fanteria durante la Grande Guerra, Bloch ha vissuto sia la vita di trincea che l’esposizione continua a notizie false, manipolate o enfatizzate a scopo di propaganda: queste e analoghe riflessioni sul ruolo e sul funzionamento dei media in tempo di guerra restano attuali e preziose se, anche davanti al conflitto in corso, vogliamo resistere alla militarizzazione delle menti e mantenere viva la capacità di immaginare e praticare soluzioni che interrompano la spirale della violenza, oggi e in futuro.
La guerra dell’informazione
Almeno da quando esistono i mezzi di comunicazione di massa, e l’opinione pubblica ha assunto un peso rilevante nella politica degli Stati, le guerre sono state anche guerre dell’informazione.
Il caso, davvero tragico, vuole che la prima guerra a essere fotografata e raccontata quasi in diretta sulla stampa sia stata la Guerra di Crimea, combattuta tra il 1853 e il 1856 fra l’Impero russo e un’alleanza composta da Impero ottomano, Francia, Regno Unito e Regno di Sardegna. I racconti bellici, già in quel caso, si differenziavano nelle modalità adottate e nelle reazioni prodotte. Da una parte, il reporter inglese Roger Fenton, inviato dell’esercito di sua maestà, è stato criticato per aver fornito al pubblico una versione edulcorata dei campi di battaglia, senza morti né feriti, funzionale alla narrazione tranquillizzante del governo. Dall’altra parte, il ventisettenne Lev Nikolayevich Tolstoy ha conquistato e turbato il pubblico russo con reportage ben più realistici, in cui la guerra appariva nella sua verità senza gloria.
Specialmente nel caso di guerre lontane, la cui genesi e il cui contesto sono poco conosciuti dal grande pubblico, l’unico modo per farsene un’idea è quella di attingere alle notizie che circolano nella “infosfera” adottando, più o meno consapevolmente, le “narrazioni” e le cornici interpretative con cui le “notizie” vengono presentate. Può sembrare banale ricordarlo ma, soprattutto nel caso di eventi riportati, non esistono “fatti puri” ma solo racconti filtrati e resi comprensibili da una qualche chiave di lettura implicita. Modi e finalità con cui vengono prodotte e diffuse le notizie di guerra svolgono, dunque, un ruolo fondamentale nella “costruzione della realtà” bellica, nella sua interpretazione, comprensione e valutazione, e soprattutto nelle difficili decisioni sul che fare e sul come farlo.
La guerra scoppiata nella notte del 24 febbraio con l’invasione russa dell’Ucraina è, come i commentatori non si stancano di ripetere, una guerra “ibrida” in cui l’informazione, insieme agli attacchi informatici e alle sanzioni, svolge un ruolo centrale. Una guerra in cui le accuse reciproche di propaganda e diffusione di “fake news” costituiscono ormai un basso continuo: ultimo, e drammatico, il caso dell’attacco russo all’ospedale di Mariupol. Una guerra in cui da una parte e dall’altra, in forme e gradi diversi, è scattata la censura e in cui prevale il desiderio di sentire e far sentire alla cittadinanza solo ciò che conforta il proprio punto di vista, ovvero ciò che sostiene ciascuna parte nella ricerca della “vittoria finale” sull’altra.
Quello in corso può essere considerato il primo conflitto armato su larga scala tra Stati che viene combattuto e osservato attraverso i social media. Gran parte delle informazioni che consumiamo sono costituite da immagini, grafici, cartine e video prodotti fin da principio pensando alla loro condivisione su piattaforme digitali e applicazioni di messaggistica. Così Twitter, Telegram, Facebook, Instagram, TitTok, spesso prima ancora delle testate giornalistiche, dei notiziari e delle rassegne stampa, portano il conflitto nei nostri cellulari, minuto per minuto, con il suo carico di dolore, violenza, distruzione, morte, assurdità. Anche l’orrore della guerra è stato così “disintermediato” dai media digitali: se ciò ci avvicina o ci allontana dalla ricerca della “verità” e da una trasformazione nonviolenta del conflitto, è tutto da vedere.
Resta sempre validissima la lezione di Marshall McLuhan che, nel suo Gli strumenti del comunicare, invitava a studiare i media non soltanto rispetto ai contenuti che trasmettono, ma anche e soprattutto rispetto alle modalità con cui lo fanno. Prendere sul serio l’affermazione di McLuhan secondo cui “il medium è il messaggio” significa prendere consapevolezza che i media non sono affatto neutrali: la loro struttura e la loro logica di funzionamento producono un certo tipo di comunicazione e plasmano un certo tipo di pubblico, inducendo un certo tipo di fruizione e un certo tipo di risposta cognitiva e comportamentale, che va ben al di là del semplice contenuto informativo.
Se questo è vero, è necessario farsi alcune domande. Come sta operando la logica dei social media sul modo in cui viene raccontata la guerra in Ucraina? Come stanno lavorando i “professionisti dell’informazione” e “gli esperti di guerra”, dentro e fuori la rete e i social? Il fatto di vivere immersi nel flusso ininterrotto delle notizie, di essere costantemente stimolati da immagini di violenza e dolore, sta facendo di noi delle persone più informate, più consapevoli e più empatiche, oppure sta soltanto alimentando la nostra indignazione, la nostra paura, la nostra rabbia, il nostro odio?
Per provare a rispondere a queste domande, occorre tenere presente che negli ultimi decenni il panorama dell’informazione in generale, e quello dell’informazione di guerra in particolare, è molto cambiato. La fiducia nei media tradizionali è progressivamente diminuita e, almeno nei paesi più industrializzati, i canali attraverso cui ci si informa si sono diversificati, con un ruolo crescente svolto dalle fonti di informazione online.
L’ambiente digitale, a sua volta, è stato popolato da almeno cinque forme e fonti principali di informazione. A fianco del giornalismo professionale, veicolato attraverso i siti web e i profili social della stampa e dei notiziari televisivi, ha ripreso forza un giornalismo d’inchiesta relativamente indipendente, che costruisce le proprie notizie sul campo, cerca fonti di prima mano e veicola i propri contenuti attraverso account social personali o si appoggia da freelance su testate qualificate. Si è consolidato il ruolo degli enti di ricerca e di divulgazione geopolitica che, sui loro canali social, provano a mettere in prospettiva gli eventi e offrono, di solito, un certo pluralismo di visioni. Si è molto diffuso il cosiddetto citizen journalism, che si affida ai materiali prodotti e diffusi in diretta da “semplici cittadini” con i propri dispositivi elettronici, cosa che conferisce a queste notizie una patente di “autenticità” tutta da dimostrare. Si sono infine moltiplicate, in aperta polemica con i media mainstream, le fonti di informazione “alternativa” che però, in alcuni casi, forniscono notizie non verificate e chiavi di lettura unilaterali, quando non paranoiche, della realtà.
Tutte e cinque queste forme di giornalismo usano i social media e, dunque, risentono inevitabilmente della loro logica di funzionamento: l’inclinazione della comunicazione all’emotività e la ricerca di reazioni polarizzanti, allo scopo di stimolare l’interazione e catturare più a lungo l’attenzione del pubblico; il filtraggio dei contenuti sulla base delle preferenze e della tendenza a voler vedere confermate le proprie opinioni o quelle del proprio “gruppo” di riferimento; la riduzione della complessità dei punti di vista in una prospettiva centrata su di sé e sul proprio gruppo; l’accelerazione della comunicazione e delle reazioni a discapito della riflessione distesa; la massimizzazione delle visualizzazioni allo scopo di aumentare i propri guadagni tramite le inserzioni pubblicitarie. Quante di queste caratteristiche della comunicazione social hanno colonizzato il giornalismo, che di quella comunicazione si nutre e che a quella comunicazione partecipa, e stanno condizionando il racconto mediatico della guerra in Ucraina?
A livello individuale è forte l’esigenza di prendere posizione, manifestando attraverso i social le proprie opinioni ed emozioni al gruppo di cui ci si sente parte. L’impulso a condividere un’immagine o un video drammatici può alleviare la nostra angoscia, ma il rischio di propagare contenuti distorti e potenzialmente dannosi non va sottovalutato: si può contribuire a veicolare letture parziali e unilaterali, rinforzando pregiudizi e ostilità verso determinati gruppi, percepiti come moralmente o ideologicamente distanti.
La sovrabbondanza e la rapidità delle informazioni veicolate dalla rete, ma anche dai media tradizionali che devono tenere il passo, in assenza di chiavi di lettura adeguate e di tempi congrui per l’elaborazione, possono anche finire per generare smarrimento, confusione e senso d’impotenza, invece di produrre conoscenza e consapevolezza: è il fenomeno noto come “infodemia”, spesso associato a una sorta di “infomania” ossia all’esigenza compulsiva di ricevere le “ultime notizie”.
È vero che abbiamo moltissime notizie a nostra disposizione, ma si tratta di informazioni spesso frammentarie: “pezzi di realtà”, messi insieme da più soggetti e da più luoghi, circolati su piattaforme diverse. Frammenti che hanno bisogno di essere collegati da una chiave di lettura: quando non la si possiede, si assume quella veicolata implicitamente. L’infodemia può produrre, tra le altre cose, un effetto passivizzante: ci si sente connessi e iper-stimolati ma, in realtà, non si sa come tradurre le informazioni che si sono ricevute online in azioni concrete offline. In un contesto di guerra come quello in corso, la soluzione più facile e immediata, quella di rispondere alla violenza con la violenza e alle armi con le armi, si fa strada nel pubblico dei social proprio in risposta al naturale bisogno di reagire: “non possiamo stare a guardare”, si dice per giustificare l’invio di armi all’Ucraina, ma di fatto si continua solo e soltanto a guardare gli altri morire.
Infine, la facilità con cui i contenuti online possono essere modificati, manipolati o falsificati, unita alla velocità con cui quegli stessi contenuti possono essere diffusi e diventare virali, può (e in parte deve) generare un legittimo sospetto sulla veridicità di quanto circola in rete e sui social. Ma il sospetto può dar luogo anche a una totale disillusione rispetto al sistema dell’informazione in generale, indebolendo la capacità del pubblico di sviluppare una propria interpretazione autonoma e critica, generando ulteriore frustrazione e bisogno di “fonti alternative” che, a loro volta, possono offrire soluzioni peggiori del problema.
La trappola del giornalismo di guerra
In questo scenario complesso, quando non vengono censurati o chiusi, i media corrono il rischio di venir meno alla loro funzione sociale, di raccontare ‘oggettivamente’ e analizzare criticamente i fatti, mantenendo un ruolo di terzietà che ne garantisca l’affidabilità e l’autorevolezza. I giornalisti e le giornaliste, e più in generale tutte e tutti coloro che in qualche modo concorrono alla diffusione di notizie, possono diventare attori del conflitto in corso, “arruolandosi” più o meno consapevolmente da una parte o dall’altra. In questo modo, i media e gli “influencer” possono spingere la cittadinanza a mobilitarsi, rinforzandone o modificandone le percezioni, le opinioni e gli atteggiamenti, fino a presentare il ricorso alle armi e alla violenza come l’unica soluzione possibile, a discapito di soluzioni diplomatiche e nonviolente.
Il pubblico stesso, nell’epoca dei social media, non è più soltanto un destinatario passivo delle informazioni elaborate da giornalisti professionisti, ma partecipa alla creazione e alla diffusione di contenuti attraverso varie le piattaforme online e attraverso i propri telefoni cellulari: in un contesto critico come quello di un conflitto armato, tutte e tutti noi siamo, dunque, chiamati a esercitare una forma di responsabilità collettiva rispetto ai contenuti che diffondiamo, ma anche di controllo democratico rispetto alle informazioni e alle narrazioni diffuse dai media.
Si tratta innanzitutto di riconoscere e denunciare le notizie costruite ad arte, “false” in senso proprio, e di segnalare l’omissione di fatti significativi relativi al conflitto, alle sue cause e alle sue dinamiche. Sia le notizie false che le notizie nascoste hanno lo scopo di promuovere l’una o l’altra parte in campo, di galvanizzare o scoraggiare le truppe e le popolazioni, ma non aiutano certamente a comprendere ciò che succede e a ricostruire la pace. Un adagio antico ci ricorda che “la prima vittima della guerra è la verità”: prima e durante un conflitto armato, dunque, occorre prestare ancora più attenzione del solito alle cosiddette “fake news”, controllando quanto più possibile la fonte dell’informazione e la sua attendibilità, cercando la notizia su altri canali e altri siti, verificando che le immagini o i video non siano stati alterati e/o non vengano usati fuori dal loro contesto originario.
Nella comunicazione di guerra, o nella guerra dell’informazione, non ci sono però soltanto le notizie false: si attivano anche meccanismi molto più sottili, pervasivi e, dunque, anche molto più pericolosi. Si tende a costruire quotidianamente, quasi inavvertitamente, una narrazione mediatica che non contribuisce alla comprensione profonda e alla risoluzione nonviolenta del conflitto ma che, al contrario, rende sempre più difficile avviare trattative diplomatiche tra le parti.
In questi casi non abbiamo, in senso stretto, disinformazione e diffusione di notizie false ma una cattiva informazione, che presenta notizie di per sé vere in modo parziale e manipolativo: quella che nei media studies di ambiente anglosassone viene definita come misinformation. Nel caso della guerra, l’obiettivo della misinformation è quello di “militarizzare” le menti, notizia dopo notizia, dibattito dopo dibattito. Si chiede implicitamente al pubblico di schierarsi, da una parte o dall’altra: chi pensa che la guerra vada ripudiata, che il negoziato, la diplomazia e la nonviolenza siano le migliori garanzie per la risoluzione del conflitto, viene facilmente delegittimato come “idealista”, quando non attaccato come “debole”, “indifferente”, “traditore”. Se “l’altra parte” è costruita come “il nemico assoluto”, come la negazione totale dei “nostri valori” e della stessa idea di umanità, con quella parte non si può e non si deve trattare: occorre fermarlo, metterlo in ginocchio. “Whatever it takes”, a qualsiasi costo, con qualsiasi mezzo.
Il giornalismo che alimenta in questo modo il conflitto e la sua escalation, ad esempio ripetendo senza critica e senza filtro i discorsi aggressivi e propagandistici di esponenti politici o militari, è stato definito da Johan Galtung, fondatore degli studi contemporanei per la pace, come “giornalismo di guerra”. Dalle opere di Galtung dedicate al ruolo dei media nei conflitti è possibile individuare una serie di indicatori utili a distinguere il giornalismo di guerra dal giornalismo di pace: a differenza del primo, il giornalismo di pace può contribuire attivamente alla risoluzione del conflitto.
L’alternativa del giornalismo di pace
Per capire se abbiamo a che fare con un giornalismo di guerra o un giornalismo di pace, possiamo provare a leggere le notizie, ascoltare in notiziari e scorrere i feeds dei nostri social ponendoci alcune domande, qui formulate in termini di alternativa: la prima è tipica del giornalismo di guerra, la seconda è tipica del giornalismo di pace.
1. La narrazione mediatica offre una ricostruzione di parte oppure si sforza di tenere conto dei diversi punti di vista? Ossia:
1.1. Polarizza le parti (“noi-loro”) o cerca di riavvicinarle?
1.2. Demonizza e disumanizza una parte, presentando l’altra come sola portatrice di valori e di umanità, oppure invita al riconoscimento reciproco e al dialogo?
1.3. Denuncia le falsità e le manipolazioni dell’informazione solo di una parte o di tutte le parti in campo?
2. La narrazione mediatica è focalizzata sulla violenza bellica o sull’analisi e la trasformazione del conflitto? Ossia:
2.1. Si concentra soltanto sul “qui e ora” della guerra e dei suoi effetti visibili, oppure anche sulle sue cause e sulle sue possibili conseguenze?
2.2. Individua “il problema” nella guerra o in una delle parti del conflitto, vista come responsabile/colpevole di aver “scagliato la prima pietra”?
2.3. Dà spazio soltanto alle azioni militari o anche alle azioni diplomatiche e nonviolente, in corso o possibili?
2.4. Si attiva solo quando accadono violenze oppure offre una copertura continua e completa dei fatti?
3. La narrazione mediatica veicola il punto di vista di leader e personaggi pubblici oppure delle popolazioni civili coinvolte? Ossia:
3.1. Dà voce, nelle fonti e nei servizi, solo a leader (politici, militari, ecc.) o anche a organizzazioni della società civile e alle popolazioni civili coinvolte?
3.2. Identifica i leader e i governi impegnati nel conflitto con tutta la popolazione oppure distingue tra leader/governi e popolazioni?
4. La narrazione è orientata alla vittoria di una parte o alla risoluzione del conflitto? Ossia:
4.1. Presenta come obiettivo auspicabile il prevalere militarmente di una parte sull’altra parte, secondo una logica win-lose, oppure il fatto di arrivare a una pace accettabile per tutti, secondo una logica win-win?
Si tratta di un esercizio utile per sviluppare un atteggiamento critico nei confronti dei media in tempo di guerra, e per monitorare anche i nostri discorsi quotidiani, che risentono inevitabilmente del tipo di media che consumiamo, da cui abbiamo tratto le nostre informazioni e le nostre interpretazioni sul conflitto in corso.
Fermare le sofferenze delle popolazioni civili coinvolte, prevenire l’escalation del conflitto e la sua estensione, creare le condizioni per un negoziato equo e accettabile da tutte le parti, dipende anche da noi e dalla nostra capacità di pretendere dai media e di veicolare sui canali social informazioni e narrazioni accurate, verificate, complete e orientate a (ri)costruire la pace.
Riferimenti bibliografici essenziali
Johan Galtung, “The task of peace journalism”, Ethical Perspectives, 7, 2000.
Johan Galtung, “Peace Journalism: What, Why, Who, How, When, Where”, paper presentato al workshop “What are journalists for?”, Taplow Court, 3-6 settembre 1998.
Johan Galtung, “On the Role of the Media in Worldwide Security and Peace”, in T. Varis (a cura di) Peace and communication, Universidad para La Paz, San Jose, 1986, pp. 12-34.
Nanni Salio, Silvia De Michelis (a cura di), Giornalismo di Pace, edizioni Gruppo Abele, Torino 2016.
Federico Oliveri è assegnista di ricerca in Filosofia del Diritto presso la Scuola di Giurisprudenza dell’Università di Camerino, dove insegna Informatica giuridica e teorie contemporanee del diritto, e ricercatore aggregato al Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace” dell’Università di Pisa.