giovedì, Novembre 14, 2024
Cultura

Considerazioni su pace e guerra. Tre colloqui di Erasmo da Rotterdam

di Andrea Panzavolta

 

Nel ritratto più famoso che gli fece Hans Holbein il Giovane, conservato a Longford Castle, Erasmo tiene le mani appoggiate su un libro sul cui dorso è riportata la scritta, in caratteri greci, Fatiche di Ercole, limpido rimando all’omonimo adagio (Herculei labores) che è quasi la cifra del magistero erasmiano: identificandosi con l’eroe della mitologia, l’umanista di Rotterdam voleva alludere non solo all’improbo compito che si era assunto, quello cioè di un recupero critico e filologicamente fondato della grande tradizione classica, ma anche alla misera gloria che gliene sarebbe venuta a fronte del grande vantaggio che i più avrebbero ricavato da siffatti labores

Ciò che più colpisce del ritratto è il sorriso amabile e benevolo, ironico e reticente al tempo stesso, di Erasmo. Pure lo sguardo attira l’attenzione dello spettatore: esso è mite e cordiale e pare assorto in un pensiero o in un ragionamento tutto interiore. Con intuito rabdomantico Holbein ha colto i tratti essenziali di colui che, a buon diritto, può essere definito il praeceptor Europae: l’ironia e la cordialità, un amabile esercizio intellettuale e un godibilissimo senso dell’umorismo e, sopra ogni altra cosa, la fiducia nella parola e il suo disincanto.

Anche se sono fatiche simili a quelle di Ercole, il dialogo e il confronto restano per Erasmo l’unica strada praticabile se si vuole migliorare la condizione del mondo. Quell’aura di atarassia, di olimpico dominio delle passioni, di compassato distacco verso le umane faccende che sembra avvolgere il ritratto non deve, quindi, trarre in inganno. La scritta greca, infatti, mostra a chi ha occhi per vedere un insospettabile cono d’ombra e fa udire un timbro indiscutibilmente tragico: è la tragedia di chi, pur avendo una fiducia inconcussa nelle parole, sa che queste nella maggior parte dei casi nulla possono contro la stoltezza umana e soprattutto contro quella suprema espressione della stoltezza che è la guerra.

I Colloqui – una raccolta di dialoghi scritta tra il 1497 e il 1533, che ci dà la misura del genio di Erasmo forse più di qualsiasi altra sua opera – strofinano a più riprese con il sale della loro arguzia l’antichissimo eppure sempre nuovo mestiere delle armi. Tre in particolare sono i dialoghi che hanno quale argomento esclusivo la guerra: Confessione di un soldato, Il soldato e il certosino, Caronte.

La Confessione a cui allude il primo colloquio è quella che Annone tira fuori all’amico Trasimaco, il cui nome non poteva essere scelto dall’autore con maggiore ironia. Infatti, tutt’altro che thrasýs, ‘valoroso’, nella máke, nella ‘battaglia’ è il deuteragonista di Annone: arruolatosi come mercenario nella «speranza di bottino», Trasimaco torna a casa zoppo dopo aver battuto contro un sasso mentre se la dava a gambe dalla mischia, e più povero di quando era partito per aver dilapidato il frutto delle sue soperchierie nel gioco, nel vino e nelle donne. Di una cosa sola si è arricchito oltremisura: di delitti («In guerra ho visto e commesso più peccati che non in tutto il resto della mia esistenza»). 

A questo punto Annone, biasimando lo stolto entusiasmo con il quale gli uomini corrono alla guerra, azzarda un paragone tra questa e la festa («E allora che gli salta in mente a quelli che per pochi soldi, o magari per niente, vanno alla guerra come a una festa?») che troverà largo spazio nel pensiero filosofico a venire. Ne L’uomo e il sacro Roger Caillois sostiene che la guerra, se da un lato condivide con la festa una «forte socializzazione» e la «totale messa in comune degli strumenti, delle risorse, delle forze» in una sorta di «effervescenza collettiva», dall’altro se ne discosta. Essa finisce per usare il potere simbolico della festa (consistente nel riunire i distinti gruppi che formano la società nell’ebbrezza di un rito condiviso che favorisce scambi «alimentari, economici, sessuali e religiosi») in senso opposto: «la guerra […] procura la rottura dei contratti e delle amicizie. Esaspera le contrapposizioni. Non soltanto è fonte inesauribile di morte e di devastazione […] ma le conseguenze che produce non sono meno funeste della rovina che provoca mentre imperversa». 

Le domande di Annone sono ben formulate e i suoi commenti a margine delle risposte date dall’amico seguono con tenacia la ragione. Ma, ben presto, ci accorgiamo che non tutto torna: quando Trasimaco confida che un predicatore aveva dichiarato «solennemente dal pulpito» che «la guerra era giusta» e che per lui il mestiere del soldato è uguale a quello del beccaio, con la sola differenza che il primo macella uomini, il secondo invece buoi, siamo colti da un brivido dinanzi alla capacità dell’uomo di torcere le parole fino a ribaltarne il significato e di contaminarle fino a farle impazzire. Siamo, altresì, visitati dal sospetto che il destino di ogni raziocinare sia il fraintendimento.

Ne Il soldato e il certosino Erasmo ritorna sul ‘reato’ di manomissione delle parole e mostra come l’assunto «è lecito uccidere il nemico» non sia valido in termini assoluti, bensì soltanto qualora questi aggredisca la nostra patria: «in quel caso si può considerare sacrosanto combattere por la propria moglie e i propri figli, per i parenti e gli amici, per la propria terra e per la pace di tutti. Ma ciò non ha nulla in comune con la tua milizia mercenaria». I mercenari, infatti, non hanno a cuore le sorti di alcuno dei belligeranti, ma pensano soltanto al profitto: sia quello che deriva, appunto, dalla ‘mercede’ loro pattuita, sia quello che essi si procacciano per di più da «saccheggi, furti, rapine e spoliazioni di chiese». Questi delitti diventano il logico corollario della guerra, una sua ineliminabile appendice, tanto che neppure più ci si avvede del processo di disumanizzazione in atto: «Non m’accorgevo neanche dei miei mali, perché essi erano comuni a tutti i miei commilitoni» afferma il soldato.

I temi dei primi due colloqui trovano una brillante ricapitolazione in Caronte, dove troviamo il nocchiero stigio intento a conversare con Alastorre, un personaggio scelto non a caso. Alástor nella mitologia greca è il demone che perseguita coloro che si macchiano del sangue dei propri congiunti, proprio come le Erinni, con una fondamentale differenza: se il furore (ménos) di queste ultime viene da Atena ben temperato (esse nella Orestea diventano infatti Eumenidi, da eu-ménos, appunto), Alástor, invece, ha il compito precipuo di rinverdire senza intermissione alcuna il ricordo del male subito (il suo nome significa alla lettera ‘colui che non dimentica’, da a-lantháno, ‘non tengo celato’). Il demone innesca così una spirale infinita di odio e di violenza, di cui sono emblema compiuto le saghe dei Labdacidi e degli Atridi. 

La scelta di Alastorre, si diceva, non è casuale: per Erasmo la guerra è sempre fratricida e per questo il sangue del nemico ucciso è sempre quello di un fratello. Tesi tanto più valida, secondo l’autore, per le guerre che si combattono tra europei ovvero tra cristiani, chiamati a farsi imitatori di Cristo. Invece, dice non senza un maligno compiacimento Alastorre, ogni Stato europeo è convinto di essere dalla parte della giustizia e della verità e che Dio, quindi, gli assicurerà la vittoria: i re «spingono alla guerra il popolo ed i nobili, e persino nella spiegazione del Vangelo si mettono a sbraciare che è una guerra giusta, santa e pia. Le stesse cose predicano in un campo e nell’altro […]. Ai francesi assicurano che Dio è coi francesi, come potrà essere vinto colui che ha Dio quale protettore? Agli inglesi e spagnoli dicono invece che questa guerra non è condotta dall’imperatore ma da Dio in persona, e che debbono solo mostrarsi coraggiosi perché la vittoria è assicurata. […] Che cosa non riesce a fare la finta religione!». 

Quando scriveva Caronte Erasmo aveva in mente il conflitto scoppiato nel 1521 tra Francesco I di Francia e Carlo V di Spagna, alleato segretamente a Enrico VIII di Inghilterra. A distanza di secoli, e dopo due guerre mondiali, il colloquio conserva intatta la sua attualità sul persistente pericolo rappresentato dal secondo demone che, accanto a pólemos («padre di tutte le cose», secondo Eraclito, e principio fondante la pólis, di cui condivide la radice etimologica), da sempre presidia i destini dell’Occidente: la stásis, la guerra civile, la contesa tra fratelli. Particolarismi tribali, asfittici nazionalismi, miopi interessi di parte, religione svilita a instrumentum regni, paranoia: ecco quali tossine può secernere ogni singola isola quando non si pensa più come arcipelago, come unione di distinti. Le conseguenze non tarderanno a manifestarsi: le Furie irromperanno, recando morte e distruzione. «Le Furie hanno svolto un buon lavoro, con ottimi risultati: non c’è angolo della terra che non abbiano sommerso di mali infernali, discordie, guerre, ruberie e pestilenze». 

Caronte ha appena investito il suo intero patrimonio nell’acquisto di una trireme, in sostituzione della fragile imbarcazione di cui finora si era servito: teme la presenza di operatori di pace in grado di arrestare la guerra e il conseguente flusso di denaro che le anime sono obbligate a versargli per essere traghettate nelle regioni infere. Alla fine del colloquio Alastorre lo rassicura, dicendogli che non v’è «alcun segno che […] possa far temere la pace almeno per i prossimi dieci anni»: «le Furie sanno fare a modo il loro mestiere» e «riusciranno a vincere qualsivoglia proposito assennato».

Eppure Erasmo continua a credere contro ogni speranza che la parola, ben ragionata e ben detta, sia la sola via che conduca alla pace, sulle orme del suo amato sant’Agostino che, in una lettera del 428 indirizzata a Dario, governatore dell’Africa, all’epoca sconvolta da conflitti, così scrive: «Titolo più grande di gloria è proprio quello di uccidere la guerra con la parola [ipsa bella verbo occidere], anziché uccidere gli uomini con la spada, e procurare o mantenere la pace con la pace e non già con la guerra [acquirere vel obtinere pacem pace, non bello]» (Ep 229, 2). Sono parole che dovrebbe essere meditate nelle cancellerie di ogni paese.

 

Andrea Panzavolta è giornalista pubblicista. Collabora alla rubrica “Film in discussione” di Iride. Filosofia e discussione pubblica, e ad alcune riviste di critica cinematografica. Dal 2014 è il direttore artistico della rassegna concertistica forlivese “Passioni in musica”.