Comunicazione del rischio e comunità migranti nell’emergenza Covid-19
Nell’attuale situazione di emergenza, l’assistenza alle persone migranti e agli stranieri residenti rappresenta una misura sanitaria fondamentale, prerogativa delle istituzioni, le quali hanno il compito di comunicare rischi e contromisure alle comunità con minor accesso all’informazione, attraverso strategie mirate di prevenzione e supporto. In questo articolo curato dalla pagina Facebook “Coronavirus – Dati e Analisi Scientifiche“, e diffuso sul blog Deep Blue, emergono le mancanze del sistema di accoglienza, dalle strutture che non consentono il distanziamento sociale agli accampamenti, dove c’è una totale assenza di norme igienico-sanitarie. Il vuoto istituzionale è stato sostituito dalla società civile tramite associazioni come Il Grande Colibrì e l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI), tra le tante, che hanno costantemente dato supporto ai migranti e alle comunità straniere, mediante assistenza diretta e informando sulle modalità di prevenzione. Si tratta tuttavia di attività necessariamente circoscritte e con risorse limitate disposizione: ciò dimostra quanto debbano essere migliorate le politiche per la salute in Italia, se vogliamo garantire la sicurezza sanitaria del paese.
di Silvio Paone
In una società complessa e multiculturale, è fondamentale che nelle emergenze le istituzioni siano capaci di comunicare rischi e contromisure a tutti. Particolarmente importante è comunicare con le comunità con minore accesso all’informazione mainstream. Per raggiungere questo obiettivo, bisogna pianificare strategie mirate, sia come strumento di prevenzione sia come supporto di politiche interculturali.
I migranti di fronte alla pandemia
Nel 2019, in Italia, gli stranieri residenti risultano essere circa 5 milioni e 200 mila. Si stima che gli immigrati cosiddetti “irregolari” siano più di 600.000, e circa 47 mila i richiedenti asilo inseriti nel Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR). Una fetta importante e variegata della società italiana. In essa troviamo persone che, con il tempo, sono riuscite a sentirsi a casa e trovare un proprio percorso professionale. D’altro canto, però, comprende anche situazioni di marginalità e difficoltà, in particolare tra coloro che non hanno accesso alla cittadinanza. Individui non iscritti al sistema sanitario nazionale, senza un medico di base e che accedono unicamente alle prestazioni sanitarie urgenti. Questa condizione d’irregolarità è spesso un deterrente per l’accesso alle cure ospedaliere, nel timore di essere identificati e destinati verso un Centro di Permanenza per il Rimpatrio.
È noto come il sistema d’accoglienza italiano non abbia strutture che permettono il distanziamento sociale, data la scarsità degli spazi. Esistono poi situazioni di vera e propria marginalità sociale nei cosiddetti “accampamenti informali”, dove non sussistono le norme igienico-sanitarie elementari. Parliamo di centinaia di migliaia di persone che nel nostro paese sono notevolmente più fragili davanti all’epidemia di coronavirus. Perciò l’articolo 16 del Decreto Rilancio prevede di ampliare le possibilità d’alloggio per i migranti, per un periodo di tempo ridotto, insieme con la concessione di permessi temporanei ai lavoratori irregolari del settore primario. Misure tardive, che non risolvono il problema sanitario né quello umanitario. Ma che testimoniano come la pandemia abbia ulteriormente aggravato condizioni di difficoltà già esistenti.
La comunicazione alle comunità migranti: carenze istituzionali e risposte dal basso
Appare chiaro che le condizioni di vulnerabilità in cui vivono spesso i migranti in Italia possano costituire un importante problema di sanità pubblica durante un’emergenza pandemica. Mai come in situazioni simili la tutela di ogni settore della società è presupposto fondamentale per la tutela di tutti.
Questa consapevolezza avrebbe dovuto portare, da un lato, alla maggiore tutela dei contesti di maggiore fragilità e marginalità, con strumenti adatti ad affrontare l’emergenza. Dall’altro, ad adeguare le strategie di comunicazione del rischio ai diversi contesti. Le differenze linguistiche costituiscono un importante ostacolo alla diffusione delle informazioni, combinandosi spesso con situazioni di oggettiva difficoltà nell’accesso ai principali strumenti d’informazione.
L’importanza di adottare strategie comunicative orientate alle differenti comunità e contesti socio-culturali sono ben ribadite dalle linee guida sulla comunicazione del rischio durante le emergenze sanitarie, redatte dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Indicazioni sull’importanza di focalizzare quali siano le barriere linguistiche, culturali e sociali da superare per comunicare correttamente il rischio durante le emergenze sono contenute anche nelle strategie di comunicazione suggerite dai progetti di ricerca Darwin e Letscrowd.
Il ruolo della società civile nella gestione della pandemia
In Italia, queste importanti indicazioni sono state in larga parte disattese dalle istituzioni. Un grande problema ha riguardato la reperibilità di informazioni in lingue straniere, difficilmente raggiungibili sui canali istituzionali e integrate tardivamente. Addirittura, per fronteggiare le carenze della comunicazione istituzionale, la Direzione Generale per l’Immigrazione e l’Istituto Superiore di Sanità rimandavano a informazioni prodotte da associazioni che si occupano di migranti.
La società civile ha infatti svolto un ruolo fondamentale, colmando il vuoto lasciato dalla comunicazione istituzionale. Ad esempio, “il grande colibrì” è divenuto punto di riferimento per la comunicazione del rischio alle comunità straniere. Producendo testi e video in circa 50 lingue e consentendo agli utenti di contribuire ulteriormente, ha innescato un meccanismo virtuoso di partecipazione e responsabilizzazione dei cittadini nel contribuire alla risposta all’emergenza.
Un altro attore non istituzionale rivelatosi cruciale è stata l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI). L’ASGI ha raccolto e aggiornato costantemente moltissime informazioni rivolte ai migranti, provenienti da diverse fonti, istituzionali e non.
Accesso alle informazioni e importanza del lavoro sul campo
Nonostante l’impegno delle realtà associative, sussiste un problema di accessibilità delle informazioni, fornite principalmente su siti online. Parliamo del cosiddetto digital divide tra i settori più benestanti e quelli più poveri della popolazione. Un fattore, questo, che si somma alle già citate differenze linguistiche. Per fronteggiare il problema, varie associazioni si sono impegnate per andare a fornire le informazioni sul campo. Ad esempio, la National Association of Intercultural Mediators (NAIM) si è occupata di fornire informazioni e indicazioni sui soggetti cui rivolgersi nei quartieri più multietnici di Roma. Un lavoro compiuto in sinergia con altre associazioni di volontari, che hanno organizzato iniziative solidali direttamente sul territorio.
Oltre ad informare sull’emergenza sanitaria in corso, i mediatori hanno offerto assistenza diretta ai cittadini stranieri. Ad esempio, li hanno aiutati ad accedere alle procedure per le varie forme di sostegno economico previste dal governo. Un tassello essenziale della gestione della crisi, soprattutto quando le fasce meno abbienti (quelle con un lavoro precario o nero, o con piccole attività commerciali in proprio) erano più vulnerabili dinanzi all’improvviso lockdown e alla mancanza di forme di reddito.
Importanti sono poi stati gli interventi nelle situazioni di maggiore marginalità, come accampamenti informali e rifugi di senza tetto. InterSos ha attivato in Calabria, dove è consistente il fenomeno del caporalato, unità mobili di medici e mediatori culturali. Queste unità sono state impiegate direttamente presso i contesti più difficili. Gli operatori hanno fornito informazioni sulla prevenzione e materiale igienico-sanitario, e visitato coloro che mostravano sintomi riconducibili al virus. Attività preziose e fondamentali, ma poco diffuse a livello nazionale, limitate dalla scarsità di mezzi economici delle associazioni.
Si può e deve fare di meglio
In definitiva, risulta chiaro che la comunicazione del rischio presso le comunità straniere sia stata in larga parte delegata ad associazioni, volontari e ONG. Le istituzioni, dal canto loro, sono state invece molto carenti. Sarebbe stato fondamentale, infatti, definire tempestivamente quali fossero i soggetti cui si rivolgeva la comunicazione istituzionale. Altrettanto cruciale sarebbe stato individuarne le differenze e le peculiarità, presupposto indispensabile per scegliere i modi e gli strumenti migliori per raggiungere i contesti di maggiore marginalità, dove già sussistono difficoltà materiali nel rispettare le norme sanitarie e l’assenza di una corretta comunicazione potrebbe rappresentare un enorme danno. Inoltre, non va trascurata l’efficacia parziale di un modello di comunicazione “top-down”, senza un’interazione efficace e un coinvolgimento degli interessati. Scarsa efficacia aggravata dalle difficoltà che si possono riscontrare interfacciandosi con comunità di stranieri.
Rispetto a questo, è stato molto importante l’apporto delle associazioni che hanno lavorato sul campo. Non limitandosi a fornire informazioni ma rendendosi disponibili concretamente, hanno saputo creare una relazione di continuità con le comunità. In assenza di un sostanziale impegno istituzionale, sarebbe stato fondamentale individuare prontamente risorse economiche e logistiche per supportare queste associazioni. Associazioni che, se già normalmente operano con mezzi insufficienti, sono state ulteriormente messe in difficoltà dall’emergenza pandemica mondiale. Se l’accoglienza dei migranti è infatti indice di umanità, diventa nel mezzo dell’emergenza coronavirus anche una fondamentale misura sanitaria.
Fonte: Deep Blue e DatiAnalisiCoronavirus, 13 luglio 2020.